Cure primarie e Salute mentale. di Luca Negrogno

Per avere un rapporto positivo con la comunità bisogna aprire cantieri di verifica “popolare” sugli esiti e le prestazioni dei servizi, la loro equità, la loro capacità di ridurre le disuguaglianze. Bisogna avere fiducia nella possibilità di una cooperazione intelligente dal basso che si attiva se si aprono spazi di gestione responsabile dei poteri pubblici.

Il libro di Brambilla e Maciocco “Dalle Case della Salute alle Case della Comunità – La sfida del PNRR per la sanità territoriale” (1) permette di approfondire la relazione tra Cure Primarie e Salute Mentale nel ripensamento dei servizi territoriali. Il libro contiene una serie di stimoli per riflettere sulla ridefinizione della mission e modalità di presa in carico per i bisogni di salute mentale della popolazione, anche sulla base di nuovi modelli di lettura epidemiologica, capaci di restituire la stratificazione dinamica dell’utenza per livelli di rischio clinico e necessità di intensità assistenziale. La sfida è più che mai centrale, vista la proliferazione di discorso e consapevolezza sui disturbi di ansia, depressione e altre condizioni cosiddette “comuni”, che sempre di più interessano una popolazione nuova rispetto a quella tradizionalmente afferente ai centri di salute mentale.

Si può cogliere questa occasione per ridefinire la mission dei servizi di salute mentale in un’ottica di intervento territoriale, pubblico, di iniziativa e di promozione della salute. Nell’attuale configurazione dei servizi di salute mentale, sebbene sulle strutture organizzative ci sia una certa variabilità sul piano nazionale (2), è stabilito che i Centri di Salute Mentale (CSM) siano le strutture territoriali che declinano sul piano locale la totalità delle funzioni in capo ai Dipartimenti di Salute Mentale per il segmento di utenza adulta. Laddove avviene, la compresenza di diverse articolazioni per diverse fasce di utenza non cambia questo principio: la prevenzione, per esempio, è un diritto che spetta alle persone adulte come a quelle adolescenti in egual misura. La questione si può ulteriormente complicare se teniamo anche in considerazione i servizi di psicologia territoriale o di neurologia, come avviene con particolari programmi integrati a Bologna: la prestazione psicologica, o psicoterapeutica, o la valutazione di neurodivergenza, con conseguenti indicazioni di supporti per l’inclusione, non è qualcosa che, in quanto rispondente a una articolazione organizzativa autonoma, spetti ad un definito segmento di utenza.

Nel libro gli autori spiegano bene che la frammentazione e moltiplicazione di programmi “verticali” ha favorito l’accentramento sull’ospedale e sulle prestazioni specialistiche, riducendo complessivamente accessibilità ed equità che sono invece garantite da un approccio orizzontale e integrato dei servizi, in rapporto con il sociale e la comunità. Invertire questa tendenza è oggi la sfida. Integrazione significa che tutta la popolazione afferente a un Centro di Salute Mentale ha diritto a interventi di cura, prevenzione e riabilitazione, intendendo tutta la popolazione presente sul territorio in cui il Centro di Salute Mentale insiste, data la sua funzione di servizio “anche” di primo livello.  Quindi è problematico che i Centri di Salute Mentale si concentrino solo sulla popolazione presa in carico “specialisticamente”. Essere nel gruppo della popolazione “presa in carico” significa passare per l’attivazione di interventi “medico-specialistici” che dal primo contatto (molti di quelli che oggi avvengono nelle nostre AUSL Emiliano – Romagnole sono “spontanei”, cioè non passano dal Medico di Medicina Generale) vanno verso il trattamento clinico-psichiatrico, che costituisce il “prodotto” più frequente secondo i sistemi informativi. Dovremmo essere molto vigili sul rischio che l’unica prestazione di ingresso si riduca ad un primo colloquio con formulazione della diagnosi e “conseguente” prescrizione farmacologica anche per i disturbi cosiddetti “lievi”: andremmo verso una forma di psichiatrizzazione insostenibile materialmente ed eticamente, oltre che pesantemente inappropriata secondo la letteratura scientifica esistente.

Oggi si assiste ad una crisi delle professioni di aiuto e la particolare declinazione di questa crisi nei servizi territoriali di salute mentale si declina come “crisi di identità” rispetto al ruolo e al mandato professionale di chi ci lavora. Dialogando con operatori dei servizi in vari incontri sulla recovery a Bologna è emerso un malessere relativo all’identità non solo dei singoli professionisti ma di tutto il servizio, di cui appunto risulta molto controversa la collocazione nell’ambito dei servizi specialistici/dei servizi di base.

Da questa controversa collocazione dei centri di salute mentale sull’asse specialistica/di base emergono alcuni fenomeni che iniziamo a leggere nei vari gruppi di lavoro:

  • una difficoltà nella definizione dell’identità professionale del corpo medico, con i conseguenti problemi di riconoscimento, chiarezza nell’interpretazione del mandato, possibilità di usare una varietà di strumenti nella propria azione in modo equo e sostenibile. Simili problematiche sono vissute a cascata dagli altri gruppi professionali, che spesso finiscono per essere impiegati (e interpretarsi) come meri avamposti difensivi di fronte a una valanga di richieste indiscernibili e inorganizzabili, limitandosi a frapporre il proprio corpo e la propria buona volontà tra questa valanga e gli studi dei medici
  • una difficile identificazione delle definizioni dei percorsi: “assistenziali”? “riabilitativi”? “di mantenimento”? “con un progetto”? non è quasi mai chiaro a che cosa queste definizioni facciano riferimento e soprattutto, se queste definizioni non nascondono una qualche forma “oscura” di penetrazione della Inverse Care Law di Tudor Hart (3) , vale a dire il principio secondo cui “la disponibilità di una buona assistenza medica tende a variare inversamente con il bisogno di essa nella popolazione servita”, che sappiamo spesso “occultarsi” dietro le definizioni dei gruppi di utenza
  • questa controversa declinazione sull’asse specialistico/di base fa sì che i CSM non abbiano al proprio interno percorsi esplicitamente differenziati – ma professionalmente integrati – per rispondere a diverse necessità assistenziali. Tale diversificazione dei percorsi sembra piuttosto avvenire “di fatto”, determinando particolari traiettorie cliniche (se guardiamo al numero di drop out per esempio, ma su questo dovremmo interrogare meglio i dati del Sistema Informativo Salute Mentale Regionale): da una parte utenti che vivono forme di “abbandono” dopo una prima visita con una diagnosi “lieve” che esita in una prescrizione farmacologica e a cui non segue mai una seconda chiamata (dovremmo a questo proposito approfondire le cartelle automaticamente chiuse dal Sistema Informativo dopo 180 giorni senza prestazioni, nel 2020 erano più di un migliaio, e a fine 2023 quante saranno?). Dall’altra parte, si sviluppano percorsi ad alta intensità per persone con elevato “rischio clinico”, che spesso si sostanziano nel ricorso a posti letto in residenzialità o in clinica privata convenzionata. Questa divaricazione sembra caratterizzata da grandi rischi di inappropriatezza e possiamo ipotizzare che impatti su percorsi esistenziali già problematici in modo da riprodurre e aumentare le disuguaglianze sociali, provocare fenomeni di non-accettazione dell’aiuto e aumento dell’autostigma, il calo complessivo della fiducia nel servizio pubblico. Il calo di fiducia nel servizio pubblico esita, dove è possibile dal punto di vista socioeconomico, nell’aumento della domanda di psicoterapia privata (la psicoterapia costituisce una percentuale estremamente risibile delle prestazioni del servizio).

In questo vuoto di identità rispetto alle possibilità di intervento, all’appropriatezza e in fin dei conti all’etica del servizio pubblico si genera una qualità operativa e organizzativa “povera” che si concretizza in:

  • metodo di lavoro determinato dall’”urgenza”, che implica subalternità alle richieste esterne, alle altre agenzie che hanno il potere di determinare le urgenze o premere per il loro riconoscimento, generando difficoltà di integrazione e conflitti (per esempio con il sociale, il giudiziario, il penale, le agenzie di polizia, gli enti per le case popolari: le richieste che vengono da questi ambiti – declinate come richieste di controllo, prevenzione/gestione della devianza, delega della eventuale responsabilità penale dei reati…)
  • una povertà di riflessione sul mandato che comporta incapacità di esercitare una lettura decostruttiva della domanda, quindi anche di agire in modalità di iniziativa e di promozione. Ragionare in un’ottica di integrazione tra salute mentale e cure primarie significa invece mantenere l’unità operativa, epistemologica e organizzativa tra momento di riabilitazione, cura e prevenzione in capo ad ogni singola struttura territoriale; pensare il proprio bacino d’utenza come l’intera popolazione residente, vale a dire trovare modalità d’azione e di lettura dei bisogni che superino la distinzione tra pazienti presi in carico e resto della popolazione, affiancando a interventi medico-centrici interventi non medici, nell’ottica dell’auto aiuto, della recovery e dell’empowerment di comunità. Lavorare in questa modalità integrata non medico centrica significa anche restituire dignità a tutti gli altri sguardi e figure presenti oggi nei servizi (assistenti sociali, psicologi, educatori, tecnici della riabilitazione, terapisti occupazionali) ma anche utenti, famiglie, reti informali e, perché no, nuove figure professionali, nove agenzie e nuovi sguardi (esperti per esperienza, mediatori di salute comunitaria, antropologi/ghe).

Qual è la struttura organizzativa che può realizzare questa funzione? Come spiegano Maciocco e Brambilla le case della salute prima e le case della comunità oggi sono incubatori di sperimentazioni e buone pratiche, dalla cui analisi possiamo dare alcune indicazioni per rispondere alle questioni aperte attuali:

  • è necessario, in ottica di riqualificazione della spesa pubblica, un fondo integrato sociosanitario più ampio, ma senza un paniere predeterminato di interventi verso cui spendere le risorse: la progettazione degli interventi va vincolata a forme innovative e partecipative di lettura dei bisogni, in modo dialettico con le comunità
  • per avere un rapporto positivo con la comunità bisogna aprire cantieri di verifica “popolare” sugli esiti e le prestazioni dei servizi, la loro equità, la loro capacità di ridurre le disuguaglianze. Bisogna avere fiducia nella possibilità di una cooperazione intelligente dal basso che si attiva se si aprono spazi di gestione responsabile dei poteri pubblici.

l’Autore: Luca Negrogno, Sociologo, Istituzione Gian Franco Minguzzi, Bologna.

Bibliografia

  1. Brambilla A, Maciocco G. Dalle Case della Salute alle Case della Comunità. Carocci Editore. Roma, 2022.
  2. Autori Vari. Fabbisogni e modelli di servizio in trasformazione: il ruolo dei dipartimenti di salute mentale”. Rapporto OASI 2022. Cergas – Bocconi. Milano, 2022.
  3. Tamburlini G. La Legge dell’assistenza inversa. Salute Internazionale. https://www.saluteinternazionale.info/2021/03/la-legge-della-assistenza-inversa/?pdf=18410

fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2023/06/cure-primarie-e-salute-mentale/

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