Un reperto di archeologia criminale da buttare trasformato in una lotteria per emarginati. Basta dire Aversa e viene in mente il manicomio criminale per antonomasia. Quelle strutture, orrende, ribattezzate Ospedali psichiatrici giudiziari sono state chiuse nove anni fa, compiendo una vera rivoluzione gentile.
L’amministrazione penitenziaria ha pensato di riconvertire una struttura di vergogna civile in una “casa lavoro”: un nome sconosciuto, per molti. In Italia, sono nove le case lavoro, che detengono 280 persone, in misura di sicurezza per pericolosità sociale: definite lombrosianamente delinquenti abituali, professionali o per tendenza che dopo avere scontato la pena per un reato, da detenuti vengono trasformati in internati.
Addirittura, la nuova restrizione può durare teoricamente all’infinito, basta che il magistrato di sorveglianza proroghi la misura di sicurezza, valutando che il soggetto non offra garanzie sociali o morali per meritare la libertà, neppure quella vigilata. Il paradosso è che le case lavoro non offrono lavoro e che molti internati sono dichiarati inabili al lavoro.
La Società della Ragione sta conducendo una ricerca su tutte le case lavoro, per denunciarne l’abnormità giuridica e proporre una riforma radicale. L’arcivescovo di Chieti, monsignor Bruno Forte, teologo di grande spessore, ha posto un duro interrogativo: “Com’è possibile che a 70 anni dalla nostra straordinaria Carta costituzionale continuiamo ad avere una così palese contraddizione con i principi della Costituzione?”.
Con una forma di detenzione senza garanzie, tollerata dallo Stato e dalla politica e applicata dalla magistratura? Il 26 maggio sono stato ad Aversa, ultima tappa di questo giro kafkiano. Ho incontrato i cinquanta internati nella sala socialità e ho ascoltato denunce circostanziate delle incongruenze che si scaricano su di loro. Molti lamentano che il passaggio dalla casa lavoro alla libertà vigilata è segnato dall’incertezza, perché basta una violazione alle prescrizioni di comportamento per tornare in casa lavoro con un nuovo provvedimento di misura di sicurezza detentiva: “Questo è un ergastolo bianco, noi lo sappiamo”, è stato il grido condiviso.
Ho verificato che un giovane del Ghana ha un decreto di espulsione che non si riesce ad eseguire e quindi la misura di sicurezza viene prorogata in attesa che l’Ambasciata del suo Paese lo riconosca come cittadino e possa tornare dalla madre. Un altro lamentava di avere finito la misura il 6 maggio e di essere ancora lì; per fortuna il giorno dopo è tornato a casa, seppure con venti giorni di detenzione in più. Ecco alcune voci che dipingono la realtà di dolore: “Internati si chiamavano gli ebrei nei campi. Non sarà un caso. C’à sun s’esce mai”; “Preferiamo tre anni di carcere che uno di casa lavoro”; “Siamo in uno Stato democratico e dobbiamo avere la misura dei tempi di Mussolini”.
Rispetto ai 57.000 detenuti, sembra che il numero così ridotto delle misure di sicurezza sia dettato dal caso: una specie di lotteria per emarginati. Anche gli educatori e la polizia penitenziaria mi hanno scongiurato di far chiudere la Casa lavoro. La proposta di legge c’è, la n. 158 alla Camera dei deputati e sarebbe un’occasione per abolire un reperto di archeologia criminale, promuovendo percorsi efficaci di inserimento sociale. Una buona opportunità per utilizzare bene i fondi di Cassa Ammende.
fonte: L’Espresso, 11 giugno 2023 su Ristretti Orizzonti