“La nuova chiamata alle armi”, a cura di Raffele Crocco ed Emanuele Giordana racconta di come gli Stati continuino ad affidarsi alle armi per trovare soluzioni, mentre sarebbe urgente investire sull’emergenza climatica, sui diritti umani, sulla democrazia. In Italia? Intanto ci si arma
Questo articolo di Emanuele Giordana è uno dei contributi di un volume da poco in libreria per i tipi di Terra Nuova Edizioni. “La nuova chiamata alle armi”, a cura di Raffele Crocco ed Emanuele Giordana, racconta di come gli Stati continuino ad affidarsi alle armi per trovare soluzioni, mentre sarebbe urgente investire sull’emergenza climatica, sui diritti umani, sulla democrazia. Un invito a guardare il mondo con occhi differenti, abbandonando le logiche armate della geopolitica a favore di una “geografia dei diritti umani”, che ponga al centro delle relazioni tra Stati la cooperazione e il rispetto dei diritti. Il volume si può acquistare qui
L’Italia è un Paese produttore e consumatore di armi: armi a scopo civile e armi a scopo militare. Armi per difesa personale o per la caccia, il tiro a segno, il poligono. Armi di difesa e d’assalto militare. Armi comuni, leggere, pesanti, piccole e grandi. E ancora equipaggiamento, logistica, infrastruttura e struttura per il comparto bellico. Navi, aerei, blindati, elicotteri. Ricerca tecnologica, aggiornamento, formazioni sulla produzione e l’utilizzo di armi. Ha un mercato importante in Italia (sia in campo civile, sia in campo militare) ma ha, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, un ruolo soprattutto nella vendita all’estero di sistemi d’arma, mezzi (elicotteri, blindati etc) e partecipazione nella costruzione di mezzi di difesa e di attacco.
La distinzione tra uso militare e uso civile è spesso molto relativa – come abbiamo visto nel capitolo sul caso Cheddite – e si muove altrettanto spesso su una faglia sottile, una frontiera lungo la quale è difficile tracciare percorsi e soprattutto utilizzo finale da parte di chi ha comprato, sia che si tratti di una persona fisica o che si tratti di un’azienda o addirittura di un governo. E’ una distinzione che si complica non solo per l’opacità del comparto – opacità denunciata da diversi analisti – ma che viene complicata in alcuni casi dal segreto di Stato, come si evince nel caso delle armi nucleari ospitate nel nostro Paese. In buona sostanza, in questo capitolo affrontiamo il Made in Italy degli armamenti sia sotto il profilo del mercato interno sia da quello del mercato internazionale distinguendo tra produzioni a scopo civile e produzioni a scopo militare. Infine osserveremo il caso delle armi nucleari di cui non siamo produttori e, teoricamente, nemmeno possessori ma che di fatto fanno parte dell’architrave che sorregge il sistema Difesa dell’Italia e più in generale il principio della sicurezza collettiva così come viene ed è stata interpretata dai nostri decisori politici. In questo sintetico riepilogo ci faremo aiutare da alcune pubblicazioni recenti che hanno esaminato proprio questi tre punti chiave: produzione a uso civile, produzione a uso militare (coi loro risvolti nazionali e internazionali) e questione dell’arma atomica1.
Produzione di armi a uso civile
Ne “Il Paese delle armi”, Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) e di Rete Pace e Disarmo, scrive che “L’Italia è il Paese delle armi… (ma anche) delle opacità e delle reticenze, dei silenzi e delle connivenze: atteggiamenti mirati soprattutto a nascondere i fatti – e i dati – ma perfettamente funzionali per alimentare la retorica”. L’opacità, la scarsa trasparenza, la facilità con cui si aggirano le leggi sembrano tra i grandi elementi unificatori del comparto “sicurezza” (per difesa o attacco) che si alimenta di una retorica e di una propaganda che tendono a far percepire l’industria della difesa come uno degli elementi trainanti della nostra economia. Ma non è così. La produzione di armi e munizioni ad uso civile vale circa lo 0,05% del Pil nazionale, l’equivalente del settore giocattoli se i si escludono i videogiochi. Anche il settore occupazionale è risibile: il comparto non supera i 3.500 addetti (10mila con terzisti e settori ausiliari) e il dato è in calo: siamo allo 0,03% su scala nazionale.
L’Italia ha una lunga tradizione di produzione di armi di ogni tipo in particolare di “armi comuni”, ossia pistole da difesa personale, fucili da caccia e per il tiro sportivo, carabine e fucili a pompa per impiego sportivo e difesa abitativa ma, ricorda sempre Beretta, “l’Italia è anche uno dei principali produttori di armi da guerra come i fucili mitragliatori appositamente sviluppati per l’utilizzo bellico”. Secondo le aziende produttrici, il Belpaese è il primo produttore europeo di armi sportive e venatorie in un’ “eccellenza del Made in Italy” che però, come abbiamo visto, non è poi così strategica. E’ rinomata non solo sul territorio nazionale ma anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti che – ricorda Beretta – “rappresentano il principale mercato di esportazione e dove le armi italiane alimentano quella corsa ad armarsi – una vera paranoia collettiva – da parte di ampi gruppi della popolazione soprattutto a fronte di annunci di restrizioni a seguito di efferate stragi”. Non proprio un’eccellenza di cui andar fieri.
La tradizione nel settore di queste armi e relative munizioni ha due nomi molto noti: Beretta e Fiocchi. La prima, fondata nel 1526, è nota soprattutto per la fabbricazione di pistole ma è attiva anche nel settore dell’abbigliamento e dell’ottica. La Beretta Holding, azienda bresciana da generazioni ma famosa anche fuori dall’Italia, può oggi vantare 50 controllate, oltre 6mila dipendenti e l’obiettivo di un fatturato futuro di 1,5 miliardi di euro. La Fiocchi è invece assai più giovane: è stata fondata a metà degli anni Settanta ed è dunque ben più recente ma non meno nota nel settore di cartucce e munizioni di piccolo calibro soprattutto per il tiro e la caccia. Altre aziende che vanno citate nel settore: Cheddite (italo-francese con sede a Livorno), Tanfoglio (Val Trompia, come Beretta), Fabarm (Travagliato, Bs).
Le leggi
I riferimenti legislativi sono soprattutto due: le leggi 110/75 e la 185/90. La prima definisce e regola il capitolo armi e munizioni, l’altra riguarda l’esportazione delle armi. Leggi che distinguono tra “armi da guerra /militari /automatiche” e “armi ad uso comune” (semiautomatiche, non a raffica ecc.). La 110/1975 regolamenta il possesso e l’esportazione delle armi “non da guerra” cioè praticamente tutte le armi semiautomatiche e tutte le armi “comuni” (non militari, non da guerra, non automatiche ). Si intendono infatti come armi da guerra le armi di ogni specie che, per la loro spiccata potenzialità di offesa, sono o possono essere destinate al moderno armamento delle truppe nazionali o estere per l’impiego bellico; aspetto che riguarda anche le bombe di qualsiasi tipo o parti di esse. Queste ultime sono regolate per la vendita dalla legge 185/1990 che indica i criteri per l’esportazione di tutte le armi da guerra (ad uso militare e destinate all’ammodernamento delle Forze armate), comprese dal 2012 anche le armi semiautomatiche se destinate a enti governativi e Forze armate o di polizia. La legge 185/90 regola dunque l’esportazione di armi da guerra chiarendo che sono escluse dalla sua disciplina “le armi sportive e da caccia e relative munizioni, le cartucce per uso industriale… le armi e munizioni comuni da sparo… gli esplosivi diversi da quelli a uso militare”. Si comprende senza difficoltà come questa legislazione offra un fianco debole sulla frontiera sottile che corre tra armi comuni e armi da guerra: andrebbe riformata e meglio regolamentata per evitare l’uso improprio di armi e munizioni come chiedono ormai da anni le associazioni della società civile, molto critiche su due leggi che reputano obsolete, ambigue e non in linea con gli standard internazionali. I casi che abbiamo riportato precedentemente (Cheddite) o le stragi compiute con armi per il tiro a segno spiegano molto bene come le differenze listate nella legge non riescano a impedire che un’arma comune o una cartuccia fabbricata a uso sportivo possano diventare il mezzo “improprio” per trasformarle in strumenti di morte2.
La produzione a uso militare e l’export
Sono oltre 4mila le aziende in Italia che lavorano nel settore dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza. Come abbiamo già visto in Italia sono principalmente due – Leonardo (l’ex Finmeccanica) e Fincantieri – le società con un numero importante di impiegati e che sono presenti, singolarmente o attraverso joint venture, sul mercato internazionale.
In generale, l’industria della Difesa italiana ha una media di meno di 50 dipendenti (in nove casi su dieci) e, in generale, non fornisce un contributo importante al Prodotto interno lordo del Paese. E’ un contributo infatti che si aggira attorno ai 15 miliardi e costituisce meno dell’1% totale del Pil, meno dello 0,7% dell’export (il piatto forte dell’industria italiana della Difesa la cui produzione è per il 70% rivolata all’estero) e meno dello 0,5% in termini di occupati. Il racconto di un’industria di punta, chiave di volta e volano dell’economia del nostro Paese è dunque una verità molto relativa. E’ però un’industria a tutto campo, attiva in tutti i settori della “funzione Difesa”, dall’alta tecnologia alla componentistica, dai mezzi blindati (leader è la Iveco) ai cantieri navali. Un’industria, per dirla tutta, che non sarebbe difficile riconvertire in senso civile.
Secondo il già citato rapporto del Sipri sulle “Top 100 arms companies”, il Belpaese si distingue per la presenza di Leonardo e Fincantieri tra i primi cento grandi produttori mondiali. Godono di ottima salute, tanto che Leonardo è tra le prime 12 nella “Top100” delle aziende listate dal Sipri secondo il valore delle armi vendute nel 2021: ha guadagnato due gradini in classifica dal 2020 dopo colossi come la Lockheed Martin (tra le prime cinque, tutte americane), l’inglese BAE Sistem e cinque società cinesi. Fincantieri è solo a metà del guado, ma sale dal 48mo posto al 46mo. Le cose andranno anche meglio in futuro visto che l’aumento globale del fatturato (più 1,9 per cento) rispetto al 2020 in termini reali segna il settimo anno consecutivo nella crescita globale della vendita di armi. Ma sono dati che non contengono ancora gli effetti della della guerra in Ucraina.
Nel 2021, già colpita dagli effetti della pandemia, l’industria delle armi ha sofferto gli spasmi della catena di distribuzione e approvvigionamento globale ma ciononostante è riuscita a crescere pur se in parte la produzione è diminuita anche per carenze di manodopera. Sui reali effetti della guerra europea sulle vendite – di cui abbiamo per ora dati sommari – ne sapremo di più in seguito ma il Sipri spiega che l’invasione russa dell’Ucraina ha aggiunto problemi alla catena di approvvigionamento anche “perché la Russia è un importante fornitore di materie prime utilizzate nella produzione di armi” e che “ciò potrebbe ostacolare gli sforzi in corso negli Stati Uniti e in Europa per rafforzare le loro Forze armate e ricostruire le scorte”, dopo aver svuotato gli arsenali spedendo armi a Kiev. Problemi dunque per “alcuni dei principali produttori di armi” che faticheranno a soddisfare “la nuova domanda creata dalla guerra ucraina.” Ma sono problemi che presumibilmente non impediranno al settore di continuare ad aumentare il suo fatturato.
La spesa militare italiana
Torniamo a casa per dare un’occhiata alla spesa italiana per la Difesa3, che in parte assorbe la produzione nazionale di armi e sistemi d’arma. Nel 2022 si è attestata sui 26 miliardi di euro, l’1,38% del Pil. Negli ultimi anni ha avuto un andamento ondivago, oscillando tra il 2,1% (1981) e l’1,4% (2020) del Pil. La variazione , secondo Futura D’Aprile, è indipendente dall’orientamento politico dei diversi esecutivi che si sono susseguiti dal tra il 2015 e il 2021, periodo preso in esame dalla ricercatrice per studiare le autorizzazioni sulla vendita di armi. Sostiene che i diversi esecutivi si sono distinti per incongruenza tra “scelte politiche dei Governi e leggi che regolano questo tipo di esportazioni”, così che Roma “continua a fornire materiale militare a Paesi in guerra… sfruttando cavilli legali e zone grigie”. Un’opacità, registrata anche da altri analisti e che riguarda i nostri rapporti con sauditi ed egiziani, con la Turchia di Erdogan, con la Libia, il Turkmenistan o il Pakistan. Persino la Russia. Opacità di cui si nutrono di triangolazioni, aggiramento delle regole sul transito, cavilli legali per alimentare un “sistema economico finanziario militarizzato – scrive Alex Zanotelli nella prefazione alla ricerca di D’Aprile – che sta facendo guerre a non finire per avidità e bramosia”, trasformando “l’homo sapiens in homo demens”. Su cui il Parlamento ha l’ultima parola ma troppo spesso non la sufficiente competenza quando non la convinzione – per dirla con Giorgio Beretta – che l’Italia debba essere “il Paese delle armi”.
Come nel caso Cheddite – munizioni sportive che finiscono a essere impiegate per scopi diversi – una delle opacità più recenti riguarda il caso Rheinmetall Italia, o meglio la sua filiale sarda Rwm, per l’utilizzo di “ordigni italiani” usati contro civili yemeniti benché chi produceva quelle armi e ne autorizzava l’esportazione ne fosse al corrente. La vicenda, finita in tribunale non senza difficoltà e ritardi tra lungaggini e richieste di archiviazione, riguarda il ritrovamento di ordigni, prodotti dalla Rwm nello stabilimento sardo nel Sulcis, nel villaggio yemenita di Deir al-Hajari, teatro di un raid della coalizione militare anti-Houthi, guidata da Arabia saudita ed Emirati nell’ottobre 2016. Tre Ong – European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr), la Rete Italiana Pace e Disarmo e la yemenita Mwatana for Human Rights – presentarono nell’aprile 2018 (la guerra yemenita era in corso da 4 anni) una denuncia penale contro i dirigenti di Rwm Italia e alti funzionari dell’Autorità nazionale italiana per l’esportazione di armamenti (Uama): chiedevano di procedere per violazione del diritto internazionale e della legge italiana 185/90 che vieta la vendita di armi a Paesi impegnati in conflitti bellici. Torna il tema della responsabilità del produttore rispetto all’utilizzo di ciò che produce. Nel caso Rwm talmente evidente da stupire che la giustizia italiana abbia voluto per quasi 4 anni archiviare il caso.
L’Italia e il nucleare
Lo studio realizzato dall’ associazione Ialana (International Association of Lawyers Against Nuclear Arms), contenuto in “Abbasso la guerra. Parere giuridico sulla presenza di armi nucleari in Italia” ricorda che oggi nel Mondo vi sono circa 13.400 testate nucleari e nuove sono in fase di sviluppo. Secondo il Bulletin of the Atomic Scientists del 2021, in Europa sarebbero stanziate cento testate tattiche americane distribuite nelle basi di cinque Paesi Nato sul territorio europeo (allargato al Vicino Oriente): Olanda, Belgio, Germania, Turchia e Italia, quest’ultima con le basi di Aviano (Veneto) e Ghedi (Lombardia), con almeno una quarantina di ordigni nucleari B61, che ufficialmente non esistono. Il Bilateral Infrastructure Agreement (Bia), l’accordo bilaterale italo-americano sulle infrastrutture, stipulato negli anni Cinquanta e che regola le modalità di utilizzo delle basi italiane concesse in uso alle Forze armate statunitensi, è infatti coperto dal segreto
di Stato che vieta di conoscerne il contenuto. Ciò non di meno, la base di Ghedi ha ampliato le sue strutture per ospitare i nuovi caccia F35 (dovremmo acquistarne 90, ognuno per 155 milioni di euro) in grado di trasportare nuove testate atomiche ancora più pericolose (le B61-12). Ghedi ha finito per convivere con la base e a far finta che le bombe non esistano ma a calcolare il danno potenziale di un attacco contro i bunker atomici del nostro Paese è stato uno studio del ministero della Difesa di qualche anno fa, ripreso nel 2020 in un dossier di Greenpeace: diceva che in caso di esplosione, nello scenario peggiore, le persone raggiunte dal fungo radioattivo potrebbero essere da 2 a 10 milioni, a seconda della propagazione del vento e dei tempi di intervento. Uno scenario – diceva ancora l’associazione ambientalista – tenuto rigorosamente segreto e condiviso solo con i vertici militari e politici e con i responsabili della sicurezza nucleare.
Tornando alla ricerca di Ialana, cui ha contribuito in modo rilevante la sezione italiana dell’associazione internazionale, vi si analizza lo stato dell’arte delle leggi nazionali, dei trattati internazionali e delle campagne per la denuclearizzazione, concludendo che “la presenza delle armi nucleari sul territorio italiano potrebbe avere rilevanza penale e comportare la responsabilità penale di chi ha importato e di chi possieda sul territorio italiano ordigni nucleari”, ipotizzando “una denuncia/querela” che spinga a un’indagine sulle eventuali responsabilità. Il saggio analizza le varie forme di opposizione, indagine e pressione oltre alla denuncia penale: azioni amministrative, civili e il ricorso a Corti internazionali: Corte penale internazionale, Corte Internazionale di Giustizia, Corte di giustizia europea4.
1Si tratta di tre saggi usciti nel 2022 cui siamo debitori: Giorgio Beretta per “Il Paese delle armi” (Altreconomia); Futura D’Aprile per “Crisi globali e affari di piombo” (Seb27); Elio Pagani e Ugo Giannangeli curatori di “Abbasso la guerra”, ricerca di Ialana (Pressenza/Multimage)
2Nel dicembre 2022 nel quartiere della capitale Fidene si è verificato un caso di triplice omicidio e triplice tentato omicidio in cui la protagonista era una pistola semiautomatica proveniente dal poligono romano di tiro a Tor di Quinto.
3Oltre al lavoro di associazioni come Rete italiana pace e disarmo, Opal, Archivio Disarmo – per citarne solo alcune – sono fondamentali le ricerche e gli aggiornamenti curati dall’Osservatorio MIL€X, fondato nel 2016 da Enrico Piovesana e Francesco Vignarca, con la collaborazione del Movimento Nonviolento (https://www.milex.org)
4Da menzionare, tra le molte iniziative, la campagna «Italia, ripensaci!», ideata da Rete Disarmo e Senzatomica nel contesto di Ican (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons – Nobel per la pace 2017) che chiede a enti locali, associazioni e semplici cittadini di firmare simbolicamente il Trattato per l’abolizione delle armi nucleari
L’Italia è un Paese produttore e consumatore di armi: armi a scopo civile e armi a scopo militare. Armi per difesa personale o per la caccia, il tiro a segno, il poligono. Armi di difesa e d’assalto militare. Armi comuni, leggere, pesanti, piccole e grandi. E ancora equipaggiamento, logistica, infrastruttura e struttura per il comparto bellico. Navi, aerei, blindati, elicotteri. Ricerca tecnologica, aggiornamento, formazioni sulla produzione e l’utilizzo di armi. Ha un mercato importante in Italia (sia in campo civile, sia in campo militare) ma ha, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, un ruolo soprattutto nella vendita all’estero di sistemi d’arma, mezzi (elicotteri, blindati etc) e partecipazione nella costruzione di mezzi di difesa e di attacco.
La distinzione tra uso militare e uso civile è spesso molto relativa – come abbiamo visto nel capitolo sul caso Cheddite – e si muove altrettanto spesso su una faglia sottile, una frontiera lungo la quale è difficile tracciare percorsi e soprattutto utilizzo finale da parte di chi ha comprato, sia che si tratti di una persona fisica o che si tratti di un’azienda o addirittura di un governo. E’ una distinzione che si complica non solo per l’opacità del comparto – opacità denunciata da diversi analisti – ma che viene complicata in alcuni casi dal segreto di Stato, come si evince nel caso delle armi nucleari ospitate nel nostro Paese. In buona sostanza, in questo capitolo affrontiamo il Made in Italy degli armamenti sia sotto il profilo del mercato interno sia da quello del mercato internazionale distinguendo tra produzioni a scopo civile e produzioni a scopo militare. Infine osserveremo il caso delle armi nucleari di cui non siamo produttori e, teoricamente, nemmeno possessori ma che di fatto fanno parte dell’architrave che sorregge il sistema Difesa dell’Italia e più in generale il principio della sicurezza collettiva così come viene ed è stata interpretata dai nostri decisori politici. In questo sintetico riepilogo ci faremo aiutare da alcune pubblicazioni recenti che hanno esaminato proprio questi tre punti chiave: produzione a uso civile, produzione a uso militare (coi loro risvolti nazionali e internazionali) e questione dell’arma atomica1.
Produzione di armi a uso civile
Ne “Il Paese delle armi”, Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) e di Rete Pace e Disarmo, scrive che “L’Italia è il Paese delle armi… (ma anche) delle opacità e delle reticenze, dei silenzi e delle connivenze: atteggiamenti mirati soprattutto a nascondere i fatti – e i dati – ma perfettamente funzionali per alimentare la
retorica”. L’opacità, la scarsa trasparenza, la facilità con cui si aggirano le leggi sembrano tra i grandi elementi unificatori del comparto “sicurezza” (per difesa o attacco) che si alimenta di una retorica e di una propaganda che tendono a far percepire l’industria della difesa come uno degli elementi trainanti della nostra economia. Ma non è così. La produzione di armi e munizioni ad uso civile vale circa lo 0,05% del Pil nazionale, l’equivalente del settore giocattoli se i si escludono i videogiochi. Anche il settore occupazionale è risibile: il comparto non supera i 3.500 addetti (10mila con terzisti e settori ausiliari) e il dato è in calo: siamo allo 0,03% su scala nazionale.
L’Italia ha una lunga tradizione di produzione di armi di ogni tipo in particolare di “armi comuni”, ossia pistole da difesa personale, fucili da caccia e per il tiro sportivo, carabine e fucili a pompa per impiego sportivo e difesa abitativa ma, ricorda sempre Beretta, “l’Italia è anche uno dei principali produttori di armi da guerra come i fucili mitragliatori appositamente sviluppati per l’utilizzo bellico”. Secondo le aziende produttrici, il Belpaese è il primo produttore europeo di armi sportive e venatorie in un’ “eccellenza del Made in Italy” che però, come abbiamo visto, non è poi così strategica. E’ rinomata non solo sul territorio nazionale ma anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti che – ricorda Beretta – “rappresentano il principale mercato di esportazione e dove le armi italiane alimentano quella corsa ad armarsi – una vera paranoia collettiva – da parte di ampi
gruppi della popolazione soprattutto a fronte di annunci di restrizioni a seguito di efferate stragi”. Non proprio un’eccellenza di cui andar fieri.
La tradizione nel settore di queste armi e relative munizioni ha due nomi molto noti: Beretta e Fiocchi. La prima, fondata nel 1526, è nota soprattutto per la fabbricazione di pistole ma è attiva anche nel settore dell’abbigliamento e dell’ottica. La Beretta Holding, azienda bresciana da generazioni ma famosa anche fuori dall’Italia, può oggi vantare 50 controllate, oltre 6mila dipendenti e l’obiettivo di un fatturato futuro di 1,5 miliardi di euro. La Fiocchi è invece assai più giovane: è stata fondata a metà degli anni Settanta ed è dunque ben più recente ma non meno nota nel settore di cartucce e munizioni di piccolo calibro soprattutto per il tiro e la caccia. Altre aziende che vanno citate nel settore: Cheddite (italo-francese con sede a Livorno), Tanfoglio (Val Trompia, come Beretta), Fabarm (Travagliato, Bs).
Le leggi
I riferimenti legislativi sono soprattutto due: le leggi 110/75 e la 185/90. La prima definisce e regola il capitolo armi e munizioni, l’altra riguarda l’esportazione delle armi. Leggi che distinguono tra “armi da guerra /militari /automatiche” e “armi ad uso comune” (semiautomatiche, non a raffica ecc.). La 110/1975 regolamenta il possesso e l’esportazione delle armi “non da guerra” cioè praticamente tutte le armi semiautomatiche e tutte le armi “comuni” (non militari, non da guerra, non automatiche ). Si intendono infatti come armi da guerra le armi di ogni specie che, per la loro spiccata potenzialità di offesa, sono o possono essere destinate al moderno armamento delle truppe nazionali o estere per l’impiego bellico; aspetto che riguarda anche le bombe di qualsiasi tipo o parti di esse. Queste ultime sono regolate per la vendita dalla legge 185/1990 che indica i criteri per l’esportazione di tutte le armi da guerra (ad uso militare e destinate all’ammodernamento delle Forze armate), comprese dal 2012 anche le armi semiautomatiche se destinate a enti governativi e Forze armate o di polizia. La legge 185/90 regola dunque l’esportazione di armi da guerra chiarendo che sono escluse dalla sua disciplina “le armi sportive e da caccia e relative munizioni, le cartucce per uso industriale… le armi e munizioni comuni da sparo… gli esplosivi diversi da quelli a uso militare”. Si comprende senza difficoltà come questa legislazione offra un fianco debole sulla frontiera sottile che corre tra armi comuni e armi da guerra: andrebbe riformata e meglio regolamentata per evitare l’uso improprio di armi e munizioni come chiedono ormai da anni le associazioni della società civile, molto critiche su due leggi che reputano obsolete, ambigue e non in linea con gli standard internazionali. I casi che abbiamo riportato precedentemente (Cheddite) o le stragi compiute con armi per il tiro a segno spiegano molto bene come le differenze listate nella legge non riescano a impedire che un’arma comune o una cartuccia fabbricata a uso sportivo possano diventare il mezzo “improprio” per trasformarle in strumenti di morte2.
La produzione a uso militare e l’export
Sono oltre 4mila le aziende in Italia che lavorano nel settore dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza. Come abbiamo già visto in Italia sono principalmente due – Leonardo (l’ex Finmeccanica) e Fincantieri – le società con un numero importante di impiegati e che sono presenti, singolarmente o attraverso joint venture, sul mercato internazionale.
In generale, l’industria della Difesa italiana ha una media di meno di 50 dipendenti (in nove casi su dieci) e, in generale, non fornisce un contributo importante al Prodotto interno lordo del Paese. E’ un contributo infatti che si aggira attorno ai 15 miliardi e costituisce meno dell’1% totale del Pil, meno dello 0,7% dell’export (il piatto forte dell’industria italiana della Difesa la cui produzione è per il 70% rivolata all’estero) e meno dello 0,5% in termini di occupati. Il racconto di un’industria di punta, chiave di volta e volano dell’economia del nostro Paese è dunque una verità molto relativa. E’ però un’industria a tutto campo, attiva in tutti i settori della “funzione Difesa”, dall’alta tecnologia alla componentistica, dai mezzi blindati (leader è la Iveco) ai cantieri navali. Un’industria, per dirla tutta, che non sarebbe difficile riconvertire in senso civile.
Secondo il già citato rapporto del Sipri sulle “Top 100 arms companies”, il Belpaese si distingue per la presenza di Leonardo e Fincantieri tra i primi cento grandi produttori mondiali. Godono di ottima salute, tanto che Leonardo è tra le prime 12 nella “Top100” delle aziende listate dal Sipri secondo il valore delle armi vendute nel 2021: ha guadagnato due gradini in classifica dal 2020 dopo colossi come la Lockheed Martin (tra le prime cinque, tutte americane), l’inglese BAE Sistem e cinque società cinesi. Fincantieri è solo a metà del guado, ma sale dal 48mo posto al 46mo. Le cose andranno anche meglio in futuro visto che l’aumento globale del fatturato (più 1,9 per cento) rispetto al 2020 in termini reali segna il settimo anno consecutivo nella crescita globale della vendita di armi. Ma sono dati che non contengono ancora gli effetti della della guerra in Ucraina.
Nel 2021, già colpita dagli effetti della pandemia, l’industria delle armi ha sofferto gli spasmi della catena di distribuzione e approvvigionamento globale ma ciononostante è riuscita a crescere pur se in parte la produzione è diminuita anche per carenze di manodopera. Sui reali effetti della guerra europea sulle vendite – di cui abbiamo per ora dati sommari – ne sapremo di più in seguito ma il Sipri spiega che l’invasione russa dell’Ucraina ha aggiunto problemi alla catena di approvvigionamento anche “perché la Russia è un importante fornitore di materie prime utilizzate nella produzione di armi” e che “ciò potrebbe ostacolare gli sforzi in corso negli Stati Uniti e in Europa per rafforzare le loro Forze armate e ricostruire le scorte”, dopo aver svuotato gli arsenali spedendo armi a Kiev. Problemi dunque per “alcuni dei principali produttori di armi” che faticheranno a soddisfare “la nuova domanda creata dalla guerra ucraina.” Ma sono problemi che presumibilmente non impediranno al settore di continuare ad aumentare il suo fatturato.
La spesa militare italiana
Torniamo a casa per dare un’occhiata alla spesa italiana per la Difesa3, che in parte assorbe la produzione nazionale di armi e sistemi d’arma. Nel 2022 si è attestata sui 26 miliardi di euro, l’1,38% del Pil. Negli ultimi anni ha avuto un andamento ondivago, oscillando tra il 2,1% (1981) e l’1,4% (2020) del Pil. La variazione , secondo Futura D’Aprile, è indipendente dall’orientamento politico dei diversi esecutivi che si sono susseguiti dal tra il 2015 e il 2021, periodo preso in esame dalla ricercatrice per studiare le autorizzazioni sulla vendita di armi. Sostiene che i diversi esecutivi si sono distinti per incongruenza tra “scelte politiche dei Governi e leggi che regolano questo tipo di esportazioni”, così che Roma “continua a fornire materiale militare a Paesi in guerra… sfruttando cavilli legali e zone grigie”. Un’opacità, registrata anche da altri analisti e che riguarda i nostri rapporti con sauditi ed egiziani, con la Turchia di Erdogan, con la Libia, il Turkmenistan o il Pakistan. Persino la Russia. Opacità di cui si nutrono di triangolazioni, aggiramento delle regole sul transito, cavilli legali per alimentare un “sistema economico finanziario militarizzato – scrive Alex Zanotelli nella prefazione alla ricerca di D’Aprile – che sta facendo guerre a non finire per avidità e bramosia”, trasformando “l’homo sapiens in homo demens”. Su cui il Parlamento ha l’ultima parola ma troppo spesso non la sufficiente competenza quando non la convinzione – per dirla con Giorgio Beretta – che l’Italia debba essere “il Paese delle armi”.
Come nel caso Cheddite – munizioni sportive che finiscono a essere impiegate per scopi diversi – una delle opacità più recenti riguarda il caso Rheinmetall Italia, o meglio la sua filiale sarda Rwm, per l’utilizzo di “ordigni italiani” usati contro civili yemeniti benché chi produceva quelle armi e ne autorizzava l’esportazione ne fosse al corrente. La vicenda, finita in tribunale non senza difficoltà e ritardi tra lungaggini e richieste di archiviazione, riguarda il ritrovamento di ordigni, prodotti dalla Rwm nello stabilimento sardo nel Sulcis, nel villaggio yemenita di Deir al-Hajari, teatro di un raid della coalizione militare anti-Houthi, guidata da Arabia saudita ed Emirati nell’ottobre 2016. Tre Ong – European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr), la Rete Italiana Pace e Disarmo e la yemenita Mwatana for Human Rights – presentarono nell’aprile 2018 (la guerra yemenita era in corso da 4 anni) una denuncia penale contro i dirigenti di Rwm Italia e alti funzionari dell’Autorità nazionale italiana per l’esportazione di armamenti (Uama): chiedevano di procedere per violazione del diritto internazionale e della legge italiana 185/90 che vieta la vendita di armi a Paesi impegnati in conflitti bellici. Torna il tema della responsabilità del produttore rispetto all’utilizzo di ciò che produce. Nel caso Rwm talmente evidente da stupire che la giustizia italiana abbia voluto per quasi 4 anni archiviare il caso.
L’Italia e il nucleare
Lo studio realizzato dall’ associazione Ialana (International Association of Lawyers
Against Nuclear Arms), contenuto in “Abbasso la guerra. Parere giuridico sulla presenza di armi nucleari in Italia” ricorda che oggi nel Mondo vi sono circa 13.400 testate nucleari e nuove sono in fase di sviluppo. Secondo il Bulletin of the Atomic Scientists del 2021, in Europa sarebbero
stanziate cento testate tattiche americane distribuite nelle basi di cinque Paesi Nato sul territorio europeo (allargato al Vicino Oriente): Olanda, Belgio, Germania, Turchia e Italia, quest’ultima con le basi di Aviano (Veneto) e Ghedi (Lombardia), con almeno una quarantina di ordigni nucleari B61, che ufficialmente non esistono. Il Bilateral Infrastructure Agreement (Bia), l’accordo bilaterale italo-americano sulle infrastrutture, stipulato negli anni Cinquanta e che regola le modalità di utilizzo delle basi italiane concesse in uso alle Forze armate statunitensi, è infatti coperto dal segreto
di Stato che vieta di conoscerne il contenuto. Ciò non di meno, la base di Ghedi ha ampliato le sue strutture per ospitare i nuovi caccia F35 (dovremmo acquistarne 90, ognuno per 155 milioni di euro) in grado di trasportare nuove testate atomiche ancora più pericolose (le B61-12). Ghedi ha finito per convivere con la base e a far finta che le bombe non esistano ma a calcolare il danno potenziale di un attacco contro i bunker atomici del nostro Paese è stato uno studio del ministero della Difesa di qualche anno fa, ripreso nel 2020 in un dossier di Greenpeace: diceva che in caso di esplosione, nello scenario peggiore, le persone raggiunte dal fungo radioattivo potrebbero essere da 2 a 10 milioni, a seconda della propagazione del vento e dei tempi di intervento. Uno scenario – diceva ancora l’associazione ambientalista – tenuto rigorosamente segreto e condiviso solo con i vertici militari e politici e con i responsabili della sicurezza nucleare.
Tornando alla ricerca di Ialana, cui ha contribuito in modo rilevante la sezione italiana dell’associazione internazionale, vi si analizza lo stato dell’arte delle leggi nazionali, dei trattati internazionali e delle campagne per la denuclearizzazione, concludendo che “la presenza delle armi nucleari sul territorio italiano potrebbe avere rilevanza penale e comportare la responsabilità penale di chi ha importato e di chi possieda sul territorio italiano ordigni nucleari”, ipotizzando “una denuncia/querela” che spinga a un’indagine sulle eventuali responsabilità. Il saggio analizza le varie forme di opposizione, indagine e pressione oltre alla denuncia penale: azioni amministrative, civili e il ricorso a Corti internazionali: Corte penale internazionale, Corte Internazionale di Giustizia, Corte di giustizia europea4.
1 Si tratta di tre saggi usciti nel 2022 cui siamo debitori: Giorgio Beretta per “Il Paese delle armi” (Altreconomia); Futura D’Aprile per “Crisi globali e affari di piombo” (Seb27); Elio Pagani e Ugo Giannangeli curatori di “Abbasso la guerra”, ricerca di Ialana (Pressenza/Multimage)
2 Nel dicembre 2022 nel quartiere della capitale Fidene si è verificato un caso di triplice omicidio e triplice tentato omicidio in cui la protagonista era una pistola semiautomatica proveniente dal poligono romano di tiro a Tor di Quinto.
3 Oltre al lavoro di associazioni come Rete italiana pace e disarmo, Opal, Archivio Disarmo – per citarne solo alcune – sono fondamentali le ricerche e gli aggiornamenti curati dall’Osservatorio MIL€X, fondato nel 2016 da Enrico Piovesana e Francesco Vignarca, con la collaborazione del Movimento Nonviolento (https://www.milex.org)
4 Da menzionare, tra le molte iniziative, la campagna «Italia, ripensaci!», ideata da Rete Disarmo e Senzatomica nel contesto di Ican (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons – Nobel per la pace 2017) che chiede a enti locali, associazioni e semplici cittadini di firmare simbolicamente il Trattato per l’abolizione delle armi nucleari
fonte: Lettera 22