«Abbiamo messo la persona al centro – scrive Marco Rasconi -, protagonista della propria esistenza, costruendo anche strumenti tecnologici per raggiungere l’obiettivo. Manca ancora però la definizione di strumenti che permettano la protezione del caregiver, familiare e non, garantendo un equilibrio fra l’espressione di libertà delle persone con disabilità e il riconoscimento della stessa libertà per il caregiver. Dobbiamo dunque riconoscere ai genitori che dedicano la vita ai loro figli il ruolo di genitori in quanto tali, e non solo quello di genitori di persone con disabilità»
La colonna portante della presa in carico delle persone con disabilità è la famiglia. Nel corso degli anni, grazie all’aumento della speranza di vita, è avanzata anche la necessità di pianificare 40 anni di qualità della vita della persona con disabilità. Quindi se già da prima c’era bisogno di prendersi cura del caregiver familiare, ancor più oggi diventa esigenza fondamentale, perché non possiamo pensare di tornare agli Anni Settanta e delegare in toto alla famiglia la cura della persona per tutto l’arco della sua esistenza.
Questo è sbagliato perché, in primo luogo, c’è il ruolo educativo di tutto ciò che sta al di fuori del cerchio familiare. La responsabilità sociale della crescita di ogni persona è della comunità, non solo della famiglia, come dice bene il proverbio africano «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio». Altrimenti sarebbe una deresponsabilizzazione della società, che in maniera ipocrita chiederebbe a tutti di partecipare, ma non accoglierebbe la necessità di sostegno. Inoltre, con questa modalità si chiederebbe alla famiglia di rinunciare a ruoli all’interno della comunità e nelle dinamiche familiari, per far prevalere la necessità di accudimento della persona fragile.
Il secondo motivo è che con questo ragionamento priviamo anche la persona con disabilità della propria identità e del proprio ruolo di figlio, identificandola esclusivamente con la propria patologia e con il bisogno di cura.
Negli anni abbiamo imparato a mettere la persona al centro, protagonista della propria esistenza, costruendo anche strumenti tecnologici per raggiungere l’obiettivo. Manca ancora però la definizione di strumenti che permettano la protezione del caregiver, familiare e non, e che garantiscano un equilibrio fra l’espressione di libertà delle persone con disabilità e il riconoscimento della stessa libertà per il caregiver. Questo crea dinamiche complesse dentro le famiglie, che portano a rinunce, anche alla carriera lavorativa da parte di un genitore. Quasi sempre la madre.
Anche l’assistito percepisce di essere solo un peso e non più una persona. Tutto questo ha alimentato lo stereotipo basato sul fatto che la disabilità fosse una colpa da espiare, innescando dei meccanismi psicologici negativi nella famiglia e creando delle barriere anche quando si prospettavano delle opportunità di uscita da quell’equilibrio poco sano. A questo si aggiungono altre fatiche: l’impoverimento economico delle famiglie di persone con disabilità è cosa ben nota.
Siamo giunti a una cultura tale per cui la persona con disabilità è una risorsa e non un peso, creando strumenti per farla vivere al meglio. Questo ora si deve rispecchiare nel riconoscimento del ruolo del caregiver e nella valorizzazione del compito che svolge. È fondamentale fare questo percorso, perché la vita di una persona con disabilità si è allungata e deve recuperare il ruolo di persona e non di semplice accudito. Se questo non va di pari passo con il riconoscimento dell’assistente familiare, abbiamo uno sbilanciamento che porta all’esasperazione della fatica dei genitori, e alla rinuncia di opportunità di vita da parte dell’intero nucleo familiare. E persino il caregiver invecchia. Il peso della quotidianità negli anni logora molto più rapidamente chi si occupa di questo tipo di assistenza, creando un peso sia sulla persona con disabilità attraverso il senso di colpa e anche in chi si occupa della cura, che non riesce a “tenere il ritmo” di una vita piena, voluta dalla persona con disabilità.
È compito delle Istituzioni capire come riportare in equilibrio le situazioni, permettendo alla persona con disabilità di crescere come qualunque altro figlio, recuperando i ruoli di genitori e figli che invecchiando cambiano. Per fare questo bisogna riconoscere il lavoro delle famiglie e supportarlo attraverso lo sviluppo della categoria degli assistenti familiari, che sfocia anche nel riconoscimento professionale e contrattuale. Non possiamo più permetterci di delegare tutto al “badantato”, spesso non contrattualizzato. Serve un cambio di paradigma, dove la centralità della persona con disabilità nel proprio progetto di vita non può essere tale senza il riconoscimento della garanzia di tutti gli strumenti necessari. Se dimentichiamo uno di questi elementi, il progetto di vita e la transizione culturale risultano zoppe.
L’intervento dev’essere immediato, capillare e condiviso con il mondo delle Associazioni. Questo permetterebbe la risposta a una grande domanda che ogni genitore si fa successivamente alla diagnosi: come farà mio figlio a sopravvivere dopo di me? È un’azione culturale necessaria per dare serenità a tutte le persone – portatrici e non – che incontrano una disabilità, ma è altrettanto un obbligo morale che dobbiamo avere nei confronti dei genitori che hanno dedicato la vita ai loro figli, garantendo dignità e prospettiva.
Dobbiamo riconoscere loro il ruolo di genitori in quanto tali, e non solo quello di genitori di persone con disabilità.