Sulla genitorialità e soprattutto sulla maternità il dibattito pubblico è sempre pronto a dire la propria. Lo abbiamo visto recentemente con la vicenda delle mamme anonime, le cui lettere, destinate ai bambini che lasciavano (con uno dei gesti d’amore, ritengo, più grandi che si possano fare) alle cure pubbliche o agli operatori sanitari e sociali, sono diventate materiale di consumo mediatico e social-mediatico.
D’altronde il nostro diritto sulla questione della maternità e in particolare sulla figura della “mamma” mostra una evidente distonia. Al modello giuridico del “buon padre di famiglia”, parametro secondo cui si valuta la diligenza richiesta nella gestione di una serie di situazioni giuridicamente rilevanti non corrisponde alcuna fattispecie al femminile e anzi, si contrappone lo stereotipo della “cattiva madre” (variamente, potremmo anche dire lombrosianamente, declinata: la prostituta, la tossicodipendente, la detenuta…) fino ad arrivare alla pericolosissima introduzione di categorie pseudo-scientifiche in ambito giuridico (si veda, per tutte, la fantomatica “alienazione parentale”, che punisce le madri allontanando forzatamente i figli da loro).
E invece occorre lavorare per l’elaborazione di una prospettiva culturale che metta in crisi la la retorica della cattiva madre, l’altra faccia dell’icona patriarcale materna.
E così, in un paese che ha costruito il mito socio-culturale della mamma, si sono rafforzate e alimentate le retoriche sulla devianza da quello stesso modello. La recente cronaca politica ha mostrato chiaramente la facilità con cui si costruisce il discorso pubblico e la gogna per le “cattive madri” nel caso delle mamme detenute.
Dopo aver affossato con emendamenti che ne stravolgevano il senso, la proposta di legge a prima firma Serracchiani, volta a ampliare la creazione di case famiglia protette dove le donne con bambini piccoli potessero eseguire la pena, si sono avvicendate dichiarazioni sulla decadenza dalla “patria potestà” (che in Italia non esiste più dal 2013…ah la persistenza dei desideri), dimenticando che esiste già in Italia la pena accessoria della sospensione e della decadenza dalla responsabilità genitoriale e proposte di legge che intaccavano le misure di carattere umanitario volte a tutelare la maternità e introdotte nel nostro ordinamento penale dal legislatore fascista… fino ad arrivare al capolavoro di discriminazione e razzialismo di primo livello (oltre che di estrema malafede e ignoranza dei fenomeni) che è stato tacciare le norme a favore delle mamme detenute come leggi a favore delle donne rom che “usano” le gravidanze e i figli come strumenti per evitare l’esecuzione della pena.
E invece conoscere le storie di vita delle mamme in carcere, sia quelle che vivono insieme ai propri figli e figlie nelle sezioni nido o negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata, ma pur sempre prigioni), i cosiddetti “bambini galeotti”, sia quelle che hanno i figli e le figlie all’esterno (della propria responsabilità, della propria cura), costituisce un argine culturale imprescindibile.
Per questo la campagna “Madri Fuori. Dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine”, promossa da La Società della Ragione (societadellaragione.it/madrifuori) ha previsto incontri e confronti con le donne detenute, che si sono svolti il 14 maggio in moltissimi penitenziari in tutta Italia (fra gli altri Milano, Roma, Firenze, Bergamo, Genova, Reggio Emilia, Bologna, Trieste). La campagna continuerà nei prossimi mesi: è una preziosa occasione, principalmente per i decisori politici, per ascoltare e conoscere la quotidiana lotta delle donne recluse per mantenere le proprie responsabilità, per difendere l’unicità (e privatezza) del proprio affetto, per rivendicare la dignità della propria cura.
Conoscere per legiferare.
fonte: il manifesto Fuoriluogo