Dopo la riforma del Reddito di cittadinanza, il diritto di ogni cittadino a una vita minimamente decente non esiste più. Per venire protetti dallo stato sarà necessario appartenere a una famiglia con un minore, un over-60 o una persona con disabilità.
Un passaggio storico
La riforma del Reddito di cittadinanza abolisce il diritto di ogni cittadino – quale che siano la sua età, la condizione lavorativa o altro – a una vita minimamente decente. Questo diritto viene assicurato da tutti i paesi europei, e l’Italia diventerà l’unico a non prevederlo più. Difficile sottovalutare la portata storica di una simile scelta.
In ogni stato europeo chiunque versi in condizioni d’indigenza, con risorse economiche inferiori a una determinata soglia di povertà, è titolato a ricevere con continuità nel tempo, fino a quando il bisogno persiste, un contributo monetario che gli permetta uno standard di vita minimamente accettabile (reddito minimo). Ciò viene garantito a tutti i poveri in quanto tali e non solo ad alcune categorie, come le famiglie con figli o senza componenti occupabili; abitualmente lo si coniuga con il dovere delle persone coinvolte di compiere ogni sforzo per uscire dall’indigenza, attraverso la ricerca di un lavoro o altro. Guardando oltreconfine, il diritto a una vita decente è previsto, ad esempio, in Gran Bretagna dal 1948, in Francia dal 1988 e in Ungheria dal 1993.
L’Assegno di inclusione (Adi) e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl)
La riforma prevede il passaggio dal Reddito di cittadinanza a due prestazioni: l’Assegno di inclusione (Adi), definito nella norma la “misura nazionale di contrasto alla povertà”, e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), una “misura di attivazione al lavoro”.
L’Adi è, appunto, una vera e propria misura contro la povertà: un sostegno continuativo – sino a che ne permane la necessità – i cui importi assicurano agli interessati un livello minimo di sussistenza. Lo ricevono i poveri che vivono in famiglie con minori, persone over-60 e persone con disabilità.
Per tutti gli altri poveri, invece, c’è il Sfl, che non è una misura contro la povertà – come indica lo stesso decreto – bensì un aiuto temporaneo, che dura solo 12 mesi, il cui ammontare perlopiù non permette un’esistenza accettabile, erogato a condizione che l’utente partecipi a corsi di formazione o progetti utili a collettività. Non si tratta di una vera risposta alla povertà, sia perché è a tempo limitato sia per l’inadeguatezza delle somme erogate. Consideriamo, ad esempio, una persona sola senza risorse economiche che vive in affitto: l’Adi le fornisce 780 euro al mese, mentre lo Sfl 350. Il Reddito di cittadinanza, che pure aveva numerosi limiti, assicurava il diritto a una vita dignitosa a tutti i poveri, senza penalizzarne alcuni. Ora, invece, chi non vive in famiglie con minori, over 60 o disabili ne è privo.
Priorità a chi sta peggio o a chi ha figli?
A motivare le scelte dell’esecutivo non sembra essere l’intenzione aiutare chi sta peggio, tutelando le fasce della popolazione dove maggiore è il disagio economico. Ad esempio, i tassi di povertà più bassi in Italia sono registrati nei nuclei con anziani, che rientrano nell’Adi, e i più alti in quelli con capofamiglia tra i 45-54 anni, che non vi rientrano se non hanno figli minori. Non è stato affrontato il nodo dei pochi aiuti ricevuti con il Reddito di cittadinanza dai poveri del Nord, e così via.
Le ragioni delle scelte, invece, paiono di natura valoriale. Risiedono nel diverso status di cittadinanza riconosciuto alle famiglie con specifiche responsabilità legate all’età o alle limitazioni fisiche dei propri componenti, in particolare quelle con figli minori, e al resto della popolazione. Si può provare a riassumerle in due assunti: i) “a meritare aiuto sono esclusivamente queste famiglie”; ii) “non è compito dello stato assicurare il diritto a una vita decente per tutti i poveri”.
In una simile impostazione, le politiche contro la povertà, che si rivolgono a tutti senza distinzioni, scompaiono e diventano un sottoinsieme di quelle per la famiglia, destinate cioè a un target specifico. L’obiettivo non è più assicurare a chiunque cada in povertà il diritto a una vita decente, bensì proteggere le famiglie con figli (o altri carichi di cura) dalla povertà.
L’equivoco del Sfl
Questa impostazione produce l’equivoco del Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl). Il Sfl, infatti, viene presentato come un intervento temporaneo finalizzato a trovare lavoro, rivolto a chi ha maggiore probabilità di riuscirvi (gli occupabili). Gli utenti, tuttavia, vengono definiti esclusivamente in base alla composizione del nucleo familiare (no figli o persone con disabilità, over-60), senza alcuna attinenza con le loro competenze e la loro storia lavorativa. Nessun paese adotta una definizione di occupabilità priva di qualunque riferimento alle caratteristiche dei soggetti interessati.
La ragione dell’incongruenza è presto detta: i percettori del Sfl sono scelti unicamente perché non appartengono al gruppo di persone considerate “meritevoli” di un sostegno continuativo, coerentemente con la logica della riforma; l’occupabilità, a ben vedere, non c’entra niente. In altre parole, i beneficiari del Sfl sono presentati dal governo come “coloro che possono lavorare”, mentre si tratta degli “esclusi dalle categorie “meritevoli” del diritto a una vita decente”.
Ovviamente, è irreale aspettarsi risultati occupazionali significativi da parte di persone che non sono state individuate in base alla loro maggior probabilità di trovare un lavoro.
Tornare all’universalismo
La riforma del Reddito di cittadinanza contiene diversi aspetti positivi ma, inevitabilmente, davanti all’abolizione – unico paese in Europa – del diritto a una vita decente, tutto il resto passa in secondo piano. Per rimediare, basterebbe una mossa: togliere il vincolo che esclude alcune categorie di famiglie dall’Adi, così da renderla una misura nazionale contro la povertà universale, rivolta a chiunque sia in tale condizione. Il Sfl, allora, diventerebbe un programma speciale di intenso rafforzamento di competenze, da destinare, però, a chi ha effettivamente maggiori probabilità di trovare lavoro nel corso dei 12 mesi previsti.
Una simile formula, composta da una misura contro la povertà per tutti e da un programma d’inserimento lavorativo per gli occupabili è, peraltro, presente in diversi paesi vicini al nostro, quali Austria, Francia, Grecia, Portogallo e Spagna.
fonte: https://lavoce.info/archives/101017/riforma-del-rdc-chi-e-protetto-e-chi-no/