I rifugiati che non otterranno l’asilo rimarranno per lo più in Italia. Verranno però interrotti percorsi d’integrazione ben avviati, come quelli di chi aveva trovato un lavoro. La scelta del governo non migliorerà la coesione sociale, né la sicurezza.
A chi serve la protezione speciale
Il governo ha motivato la quasi completa abolizione della “protezione speciale” per i rifugiati, affermando che la decisione allineerebbe la legislazione italiana con quella vigente negli altri paesi europei.
La protezione speciale, in precedenza denominata “umanitaria”, era già stata abolita dal governo Conte I nel 2018, con un ruolo determinante dell’allora ministro degli Interni Matteo Salvini, che aveva incluso la misura nei suoi cosiddetti “decreti sicurezza”. Sottoposta a rilievi critici dal Quirinale, era stata reintrodotta nella versione finora vigente dal governo Conte II, con Luciana Lamorgese agli Interni. Si tratta della forma più debole, ma anche più flessibile e inclusiva, di protezione internazionale. Copre persone che non possono dimostrare di essere state perseguitate individualmente per le loro opinioni od origini, e neppure di essere fuggite da paesi devastati da guerre aperte, come la Siria, o da contesti notoriamente oppressivi, come l’Afghanistan dei talebani. Mediante la protezione speciale possono essere accolte legalmente donne incinte, persone ammalate, chi ha legami familiari o affettivi stabili in Italia, e anche, a discrezione delle commissioni prefettizie ed eventualmente dei giudici, persone che hanno intrapreso un serio cammino d’integrazione, avendo imparato l’italiano, seguito un corso di formazione professionale, e soprattutto trovato un lavoro.
In generale, l’Italia non solo riceve meno domande di asilo dei principali partner europei (tabella 1), ma non è nemmeno particolarmente generosa nella concessione della protezione internazionale. Nel 2022 le domande esaminate sono state 52.625: la maggioranza (il 53 per cento) ha ricevuto un diniego (27.385), il 12 per cento il riconoscimento dello status di rifugiato pleno iure (6.161), il 13 per cento la protezione sussidiaria (6.770), il 21 per cento la protezione speciale (10.865). In un quadro complessivamente severo, la protezione speciale è stata effettivamente la formula più utilizzata.
C’è negli altri paesi?
La domanda che ci si deve porre è duplice. Anzitutto, se è vero che la misura rappresenta una peculiarità italiana, inesistente altrove. Secondo, quali possano essere le conseguenze prevedibili della sua (quasi) abrogazione.
Nel primo semestre del 2022 nell’ambito dell’Ue su 303.400 decisioni in primo grado, il 48 per cento è stato positivo, tra cui:
- 72.800 decisioni di riconoscimento dello status di rifugiato
- 47.200 decisioni di riconoscimento dello status di protezione sussidiaria
- 26.800 decisioni di concessione dello status umanitario o di altre forme di protezione, come la protezione speciale italiana (Fonte: Eurostat).
Dunque, un terzo meccanismo di protezione è disponibile anche in altri paesi Ue. Secondo Magistratura democratica, un dispositivo del genere esiste, con varie modalità, in 20 paesi dell’Ue su 27. Secondo Alessandra Ziniti di Repubblica, a prevederla sarebbero 18 paesi su 27, ma poco cambia: una formula più discrezionale e “leggera” di accoglienza legale dei rifugiati è ampiamente diffusa nell’ambito europeo. Il governo non dice la verità.
Cosa succederà
Quanto alla seconda questione, ossia il destino del numero certamente accresciuto delle persone che riceveranno un diniego, è importante considerare l’efficienza del nostro sistema di espulsione. I dati in proposito sono impietosi. Secondo il Dossier Immigrazione 2022, nel 2021 sono state intimate 25.450 espulsioni, più o meno sui livelli degli anni precedenti: 26.243 nel 2020, 23.406 nel 2019, 24.173 nel 2018. Già poche in sé, se si tiene presente che la stima del numero degli immigrati irregolari supera le 500 mila unità, di cui i richiedenti asilo denegati rappresentano solo una parte. Ma soprattutto l’inefficienza del sistema risalta considerando che nel 2021 sono stati realizzati solo 3.838 rimpatri forzati, e nel 2020 3.607, complice la pandemia e le restrizioni della mobilità. Anche negli anni precedenti, i numeri non superavano le 6-7 mila unità. Problemi come la mancanza di accordi con i paesi di origine e la difficoltà di individuare in modo certo identità e origine degli stranieri colpiti da misure di espulsione compromettono l’efficacia dei dispositivi di rimpatrio forzato.
I controversi Cpr (centri di permanenza per il rimpatrio) non sono soltanto strutture detentive soggette a molte critiche sotto il profilo dei diritti umani. Non essendo tecnicamente delle carceri, non dispongono dei servizi e delle misure che nelle carceri alleviano le condizioni dei detenuti: opportunità di formazione, lavoro, uscita in semi-libertà.
Sono però, sotto il profilo tecnico, anche pochi e poco efficienti. Nel 2020, infatti, sono transitati dai Cpr 4.387 migranti che lo stato italiano aveva deciso di trattenere per identificarli ed espellerli: solo la metà (2.232, pari al 50,9 per cento del totale), però, è stata effettivamente rimpatriata. Non sono diversi i risultati ottenuti nel 2021: 2.520 rimpatri effettuati per 5.147 persone transitate dai Cpr (49,0 per cento del totale). Qui il governo intende intervenire aumentando il numero dei Cpr e allungando la permanenza nei centri, ma anche questa strada era già stata tentata in epoca Salvini, quando la detenzione era stata portata a 180 giorni, senza produrre risultati apprezzabili.
Oltre a tutto questo, bisogna tenere conto dei costi delle espulsioni, stimati in media in circa 10 mila euro a persona. Per aumentare le espulsioni, bisognerebbe togliere risorse ad altri capitoli di spesa per destinali ai rimpatri, senza peraltro garanzie di successo: molti immigrati espulsi, per esempio verso la Tunisia, il paese che collabora di più, ricevendo due voli charter la settimana, ritentano la traversata, anche più volte, come fanno i messicani espulsi dagli Stati Uniti. Le poche espulsioni rischiano di essere in molti casi delle porte girevoli.
I richiedenti asilo denegati, dunque, rimarranno per la massima parte sul territorio, tranne coloro che con altri perigliosi spostamenti riusciranno ad attraversare le Alpi, attuando i “movimenti secondari” biasimati dai nostri partner europei. Percorsi d’integrazione ben avviati verranno interrotti, chi aveva trovato un lavoro o seguito un corso con la prospettiva di un’assunzione verrà buttato per strada, proprio quando si lamenta la carenza di manodopera in vari settori. Persino i legami familiari saranno lacerati. Non miglioreranno di certo né la coesione sociale, né la sicurezza urbana, né il decoro delle nostre città. Il governo alza una bandiera identitaria e raccoglierà il consenso dei propri tifosi, ma non agisce per il bene del paese.
fonte: https://lavoce.info/archives/100823/cosa-cambia-dopo-labolizione-della-protezione-speciale/
l’Autore: Maurizio Ambrosini (Vercelli 1956) è docente di Sociologia delle migrazioni nell’università degli studi di Milano. Insegna inoltre da diversi anni nell’università di Nizza e dal 2019 nella sede italiana della Stanford university. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova, dove dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Collabora con Avvenire e con lavoce.info. Dal luglio 2017 è stato chiamato a far parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione. È autore, fra vari altri testi, di Sociologia delle migrazioni, e (con L. Sciolla) di Sociologia, manuali adottati in parecchie università italiane. Suoi articoli e saggi sono usciti in riviste e volumi in inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese e cinese. Ha pubblicato ultimamente Famiglie nonostante (Il Mulino, 2019); Irregular immigration in Southern Europe (Palgrave, 2018); Migrazioni (EGEA, 2019, nuova ed.). È tra i curatori del volume Il Dio dei migranti (Il Mulino 2018).