La costruzione di case e ospedali della comunità è uno degli obiettivi del Pnrr. Il Def appena approvato, però, non prevede risorse per il personale. Ma come potranno erogare servizi strutture senza medici e infermieri? Il ruolo delle lobby della sanità.
La sanità territoriale nel Def e nel Pnrr
Non c’è traccia nel Documento di economia e finanza appena varato dal governo della riforma che, nel silenzio più totale, sta interessando il Servizio sanitario nazionale. Nel Def si parla di payback per i dispositivi medici e di incentivi per rispondere alla carenza di personale nei servizi di emergenza-urgenza ospedalieri, ma non si dice nulla di sanità territoriale e di operatività delle “case della comunità” e degli “ospedali della comunità” previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per il triennio di programmazione 2023-2025, le risorse per il fabbisogno sanitario nazionale standard aumenteranno dai 128,8 miliardi già previsti per il 2023 ai 131,4 miliardi del 2025. Non sorprende che, con le previsioni di crescita del governo, la spesa sanitaria in termini di Pil cali al 6,2 per cento nel 2025, per poi riprendere progressivamente a crescere. Ma il 7 per cento del Pil verrà raggiunto solo tra il 2040 e il 2045, una chiara indicazione che anche per i prossimi anni non ci si potranno aspettare grandi incrementi di risorse per finanziare la spesa corrente del Ssn.
Il tema del finanziamento del fabbisogno sanitario è cruciale per capire se e come il governo vorrà affrontare la riforma della sanità territoriale, una questione che si intreccia con la realizzazione degli obiettivi del Pnrr. Per la sanità, la Missione 6 ha previsto due grandi componenti: la prima (dotata di 7 miliardi di euro) configura una riforma – attesa da decenni – dei servizi territoriali, cioè tutti i servizi sanitari erogati da una pluralità di operatori al di fuori dell’ospedale; la seconda (dotata di più di 8 miliardi di euro) prevede invece investimenti negli ospedali (per ammodernare gli edifici e il parco tecnologico di attrezzature), nella ricerca biomedica e nella formazione del personale del sistema sanitario.
La riforma della sanità territoriale è stata invocata da molti durante la pandemia: una delle ragioni che spiegano perché il Covid-19 abbia picchiato così duro nel nostro paese, soprattutto nella prima ondata, è stata la quasi totale assenza in alcuni contesti delle reti di assistenza territoriale. Pazienti che avrebbero dovuto essere trattati al proprio domicilio sono stati portati dentro gli ospedali con il risultato che tutti ricordiamo. Coerentemente con questa tesi, il Pnrr ha previsto (pescando i progetti dai cassetti del ministero) che si realizzino quelle strutture territoriali che devono servire a sgravare il pronto soccorso e a far funzionare meglio l’ospedale: le case e gli ospedali della comunità.
Edifici e personale
Il primo tipo di strutture (che “innovano” le case della salute già presenti in alcune regioni) dovrebbe diventare il punto di riferimento dell’assistenza primaria per tutti quei pazienti (anziani, cronici, fragili) che non hanno bisogno di un ricovero in ospedale: servono per la “presa in carico” dei pazienti che necessitano di assistenza continua, magari a casa loro, grazie a soluzioni di telemedicina. I servizi offerti non dovrebbero limitarsi a quelli sanitari, ma dovrebbero includere anche i servizi sociali. Questo passaggio richiede team multidisciplinari sempre più integrati, con professionisti (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali) che non stanno seduti dietro a una scrivania, ma si preoccupano anche di seguire a domicilio i pazienti che non possono fare altrimenti. Sembra del tutto ovvio che nei team debbano inserirsi i medici di medicina generale: magari con una nuova formazione, che dia la stessa dignità in termini di specializzazione alla medicina territoriale, attirando così i giovani neolaureati.
Gli ospedali della comunità sono invece strutture intermedie tra l’ospedale e l’assistenza primaria di base: vi dovrebbero rientrare le strutture per la riabilitazione, per affrontare la riacutizzazione di patologie croniche o per quei pazienti che hanno bisogno di assistenza o sorveglianza infermieristica continua. Anche in questo caso, non si parte da zero proprio perché del progetto di riforma dell’assistenza territoriale si parla da anni: diverse regioni hanno già riconvertito alcuni piccoli ospedali locali in strutture che assomigliano molto alla definizione di ospedale della comunità e li stanno già facendo funzionare.
La disciplina degli standard, sia per quanto riguarda le case che gli ospedali della comunità, c’è già: è il Dm 77 del 23 maggio 2022. A distanza di quasi un anno, si tratta di applicare davvero il decreto, con l’eventuale flessibilità richiesta da un territorio ricco di aree interne. Si prevede almeno una casa della comunità hub ogni 40-50 mila abitanti, cui sono collegate case della comunità spoke e ambulatori dei medici di base. Nell’hub dovrebbero operare tra i 7 e gli 11 infermieri, un assistente sociale e 5-8 unità di personale di supporto, socio-sanitario e amministrativo. Per quanto riguarda gli ospedali della comunità, si prevede una struttura da 20 posti letto ogni 100 mila abitanti, con 7-9 infermieri, 1-2 unità di altro personale sanitario con funzioni riabilitative e un medico per 4-5 ore al giorno, 6 giorni su 7.
Il punto è: cosa ne pensa realmente il governo? Le regioni – coerentemente con quello che c’è scritto nel Pnrr e nei contratti di sviluppo che sono già stati firmati – dovrebbero realizzare 1.350 case della comunità e 400 ospedali della comunità. Per il momento, l’approccio sembra essere molto pragmatico e si cambiano solo le insegne: laddove c’erano case della salute, adesso ci saranno case della comunità; laddove c’era l’ospedale X avremo l’ospedale della comunità X.
Dei progetti non si sa molto, come del resto avviene su buona parte del Piano. Ma sarebbe folle costruire gli edifici senza pensare a come far funzionare queste strutture per erogare i servizi.
Molto di quello che si riuscirà a fare dipende da cosa pensano realmente le lobby degli operatori della sanità, tutte rappresentate in qualche modo nel governo e in Parlamento: dai medici di medicina generale agli ospedalieri, dagli infermieri ai farmacisti (che sono parte in causa per il progetto della farmacia di comunità, un altro soggetto dell’assistenza territoriale, potenzialmente in concorrenza con le case della comunità). I vantaggi saranno collettivi, ma è inevitabile che dalla realizzazione del modello della casa e dell’ospedale della comunità, tra gli operatori, qualcuno guadagnerà qualcosa e qualcuno perderà.
Sul fronte dei vantaggi collettivi per i cittadini non sembra esserci alcun dubbio. In Emilia Romagna, dove le case della salute sono già attive, una indagine regionale ha messo in luce che dove opera una struttura di questo tipo si riducono del 16,1 per cento gli accessi inappropriati al pronto soccorso, percentuale che sale al 25,7 per cento quando nella casa della salute opera il medico di medicina generale; calano i ricoveri ospedalieri (2,4 per cento in meno) per patologie croniche come il diabete o lo scompenso cardiaco; aumenta (9,5 per cento) l’assistenza medica e infermieristica a casa del paziente. Questi risultati non potranno che essere rafforzati quando il modello funzionerà a pieno regime.
Sul fronte degli operatori della sanità la situazione è meno chiara. Ad esempio, l’introduzione di una nuova figura di medico di medicina generale con una specializzazione universitaria potrebbe spostare le risorse per la formazione (adesso nelle mani dei medici di base) verso le università; che potrebbero essere chiamate a rimodulare la loro offerta formativa restringendo un po’ (almeno in termini relativi) lo spazio per le specializzazioni tipiche degli ospedali. Ci potrebbero perdere qualcosa alcune specializzazioni e gli attuali formatori nella medicina generale; ma da una programmazione adeguata delle figure professionali (incluse le diverse specializzazioni ospedaliere) ne guadagnerebbero tutti i nuovi medici. Altro esempio: il modello della casa della comunità potrebbe restringere gli spazi per il progetto della farmacia di comunità (quindi per i farmacisti) a favore delle altre figure che si troverebbero a operare dentro le case; fra questi, ad esempio, gli infermieri. Questi conflitti distributivi spiegano perché per decenni sia prevalso lo status quo.
Ma adesso, con il Pnrr, la situazione è radicalmente diversa perché c’è già un piano per costruire edifici che vanno popolati. Il governo dovrebbe tenerne conto e indicare chiaramente cosa vuole fare.
fonte: https://lavoce.info/archives/100860/per-la-sanita-del-territorio-non-basta-costruire-gli-edifici/
l’Autore:
Gilberto Turati è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. E’ membro del Comitato Direttivo della Società Italiana di Economia Pubblica (Siep). Fa parte della redazione de lavoce.info, del comitato di redazione di Politica Economica – Journal of Economic Policy e del comitato scientifico del Journal of Public Finance and Public Choice. E’ external affiliate dell’Health, Econometrics and Data Group del Centre for Health Economics della University of York. Ha diretto per diversi anni il Master in Economia e Politica Sanitaria del Coripe Piemonte e dell’Università di Torino (dove è stato prima ricercatore, poi professore associato). E’ stato membro del Board della European Public Choice Society (EPCS) per il term 2012-2015 e dell’Organismo Indipendente di Valutazione della Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino.