La questione da porre seriamente all’attenzione di politici e programmatori non è Se la medicina territoriale ha tenuto o meno, ma piuttosto Di quali e di quante risorse avrebbe dovuto disporre la medicina territoriale per poter far fronte all’onda sciagurata della pandemia.
Nella narrazione della pandemia da Sars-Cov2, la medicina territoriale è stata definita da molti “l’anello debole” del sistema sanitario, la componente “che non avrebbe tenuto” nella prima ondata pandemica e in particolare in quel terribile marzo 2020. Nei giorni della Terza Giornata Nazionale in memoria delle vittime della pandemia è doveroso riflettere su questa affermazione che, ripetuta in svariate occasioni, si è trasformata in convinzione comune. Senza voler nascondere i problemi delle Cure Primarie in Italia, questa appare però una narrazione di comodo, utile soprattutto a chi, responsabile dell’impoverimento delle Cure Primarie e della Sanità Pubblica, vuol negare il fallimento, forse anche inevitabile di fronte a una catastrofe pandemica, di un sistema che per decenni ha concentrato ogni investimento sanitario quasi esclusivamente sull’assistenza ospedaliera. Una narrazione che forse fa comodo anche a coloro che, se si decretasse il fallimento del sistema della Medicina Generale, sarebbero pronti a prenderne il posto.
Con l’affermazione che la medicina territoriale non ha retto, più che riflettere sulle risorse (in particolare delle Cure Primarie), talvolta si lascia anche intendere, in modo più o meno velato, che i medici avrebbero potuto fare di più, non riconoscendo loro il merito di essersi spesi in molti, con tutte le forze possibili, per fare al meglio il proprio lavoro in un contesto drammatico in cui 9 di loro, nella nostra provincia, hanno perso la vita. Per me e per tutti i colleghi che hanno vissuto quei giorni nel Dipartimento Cure Primarie dell’ATS di Bergamo, fare memoria della pandemia significa ricordare i loro volti, gli sfoghi telefonici, l’estenuazione e perfino i pianti di tanti di loro che in quei giorni lavoravano più di 12 ore al giorno, inviavano gli screenshot dei loro telefoni con il numero di chiamate ricevute, raccontavano di non vedere i propri famigliari da giorni per gli orari di lavoro o per l’autoisolamento adottato per timore di contagiarli.
Vorrei provare a raccontare quel marzo 2020 da un altro punto di vista, per aprire una riflessione su questo argomento, cercando di partire dai numeri. Perché proprio i numeri sono stati i grandi assenti di questa narrazione. Iniziamo dai numeri degli operatori sanitari: su quanto personale qualificato si poteva contare per fare fronte alla pandemia nella provincia di Bergamo in quel marzo 2020?
L’esercito delle strutture ospedaliere
È piuttosto difficile avere i numeri esatti del personale sanitario operante nelle diverse strutture ospedaliere della provincia. Tuttavia, possiamo farcene un’idea dai dati ISTAT relativi alla Lombardia nel 2020 (i dati su base provinciale non sono facilmente disponibili) che indicano in 1 su 5 il rapporto tra MMG e medici specialisti e in 1 su 9 il rapporto tra MMG e altre professioni sanitarie. Il calcolo porta approssimativamente a 3500 medici specialisti e 6300 professioni sanitarie. Interessandoci solo l’ordine di grandezza, consideriamo 10.000 operatori sanitari, con a disposizione strutture, spazi, personale di supporto, attrezzature diagnostiche e terapeutiche avanzate.
Le truppe della medicina del territorio
E quanti erano i soldati in forza alla Medicina Generale che – in una visione ancillare delle Cure Primarie – avrebbero dovuto difendere i Pronto Soccorso dall’assalto dei malati di Covid19? A Bergamo in quel marzo 2020 parliamo di 700 Medici di Medicina Generale, con qualche decina di infermieri di studio part time e 150 pediatri. Aggiungendo i Medici di Continuità Assistenziale e i Medici delle USCA non arriviamo 1000 unità. Circa un decimo dei sanitari presenti negli ospedali. Tra i 700 Medici di Medicina Generale l’età media era di 61 anni, molti di loro erano prossimi alla pensione e molti erano a rischio elevato di complicanze o di decesso in caso di infezione da Sars-Cov2, per le condizioni di età e di comorbosità. Non avevano a disposizione tamponi diagnostici (in quei mesi in dotazione solo agli ospedali), non avevano armi terapeutiche specifiche (gli antivirali allora erano di esclusiva prescrizione ospedaliera), inizialmente erano anche privi di adeguati DPI, inacquistabili perché scomparsi praticamente dal mercato: 150 di loro si sono ammalati subito in quel mese di marzo.
I casi gestiti dai medici del territorio
Ma cosa hanno fatto in pratica questi 700 medici (senza voler dimenticare pediatri e MCA e USCA) in queste condizioni? Ebbene, cosa che mai nessuno racconta, hanno gestito la maggior parte dei casi di Covid19 dell’intera pandemia. Cioè circa il 90% dei malati, che sono rimasti al domicilio e non hanno mai visto l’ospedale neanche da lontano.
Ma di quanti casi parliamo?
A marzo 2020 a Bergamo furono accertati un numero di casi dell’ordine di 10.000, tutti presso gli ospedali, dove i tamponi diagnostici erano disponibili, e si registrò un numero di decessi perr Covid19 di circa 3500 (l’eccesso di morti rispetto al marzo dell’anno precedente è più vicino a 5000). I casi da diverse fonti ancora oggi non coincidono, ma anche qui ci interessa solo l’ordine di grandezza. Se i casi reali fossero stati solo i 10.000 accertati con tampone, la malattia avrebbe dovuto avere una letalità impossibile, superiore al 35%. In realtà si sapeva già allora che la letalità generale della malattia era tra l’1 e il 2%. Questo significa che il numero reale dei casi superava di oltre 10 volte quello degli accertati con tampone molecolare (i soli che comparivano nelle statistiche). In pratica nel mese di marzo 2020 nella provincia di Bergamo possiamo stimare un numero di casi dell’ordine di 100.000 – 150.000. Tolti i 10.000 assistiti in ospedale, questo significa che a marzo ognuno di quei 700 medici ha avuto circa 200 casi di Covid tra i suoi assistiti. Circa 6 nuovi casi al giorno, che ogni giorno andavano a sommarsi a quelli dei giorni precedenti. Considerando una durata media della malattia di 8 giorni, per ogni medico c’erano ogni giorno circa 50 malati di Covid19 da seguire a domicilio.
Naturalmente, nell’unico modo possibile: anamnesi al telefono, rilevazione dei parametri e prescrizioni a distanza, visite solo se assolutamente indispensabile (talvolta anche ricorrendo alle USCA). In aggiunta c’erano il tracciamento dei contatti stretti da identificare e segnalare, le istruzioni per l’isolamento e la quarantena da dare, le segnalazioni di malattia infettiva, la burocrazia dei certificati di malattia, le prescrizioni di farmaci e di ossigeno…
Tra quei pazienti ve n’erano molti che, secondo tutte le linee guida del mondo, avrebbero dovuto essere ricoverati in ospedale, perché già con insufficienza respiratoria grave. Ma il numero 112 dell’emergenza non rispondeva, le ambulanze non arrivavano, i Pronto Soccorso erano saturi con lunghe code di lettighe all’esterno e i posti letto dei reparti ospedalieri erano tutti occupati.
Perché sì, bisogna ammetterlo, in quello sciagurato marzo 2020 anche gli ospedali non hanno tenuto. Anche il sistema dell’emergenza-urgenza non ha tenuto. E dove andavano tutti i pazienti che avevano bisogno di cure ospedaliere e che non trovavano posto in ospedale? Rimanevano a casa, tra quei 50 pazienti che ogni Medico di Medicina Generale avrebbe dovuto seguire ogni giorno. In quel mese ognuno di quei medici riceveva 90-100 contatti telefonici al giorno. Abbiamo raccolto i loro sfoghi e la loro disperazione, perché erano esausti e non sapevano per quanto tempo avrebbero potuto continuare così, alle prese con pazienti e parenti terrorizzati. Quei medici che non potevano dire “qui non c’è più posto”, non potevano rimandare il caso a qualcun altro. Molti di loro dopo essersi ammalati, hanno continuato a lavorare al telefono finchè le forze lo hanno permesso. Anche questo merita di essere raccontato.
50 malati di Covid19 al giorno da seguire. Con questi numeri davvero qualcuno si stupisce che i telefoni dei medici erano sempre occupati ed era difficile contattarli? E davvero qualcuno si stupisce se qualche medico malato (1 su 4 si è ammalato nei primi 2 mesi), dopo inutili tentativi di trovare un sostituto, ha smesso di rispondere al telefono per qualche giorno, magari perché anche lui a letto con il fiato corto e la febbre? Sì, è anche accaduto che qualche paziente abbia dovuto cavarsela (o anche morire) da solo. La pandemia è stata anche questo, al di fuori di ogni retorica.
Un paragone scorretto ma necessario
Nel marzo 2020 le strutture ospedaliere provinciali nel loro insieme hanno diagnosticato e seguito 10.000 casi di Covid. In media 320 nuovi casi al giorno. Hanno svolto un lavoro titanico, hanno riconvertito in brevissimo tempo interi reparti alla gestione dei pazienti Covid19. Hanno trattato i casi che necessitavano di maggior intensità di cure e, nonostante la disponibilità di risorse umane, hanno subito uno stress che nessun operatore potrà mai dimenticare. Il paragone è scorretto per tanti motivi, ma se, nonostante gli sforzi eroici, queste strutture sanitarie che potevano contare su 10.000 operatori sanitari sono andate in crisi con 320 nuovi pazienti Covid19 al giorno, come si poteva pensare che il sistema delle Cure Primarie, con 1000 operatori, praticamente senza strumenti né personale di supporto, avrebbe potuto gestire più di 4.000 nuovi casi al giorno (alcuni dei quali con necessità di cure ospedaliere)?
La questione da porre seriamente all’attenzione di politici e programmatori non è Se la medicina territoriale ha tenuto o meno, ma piuttosto Di quali e di quante risorse avrebbe dovuto disporre la medicina territoriale per poter far fronte all’onda sciagurata della pandemia. Farsi la domanda corretta e rispondere con investimenti conseguenti è l’unica possibilità per evitare che la prossima pandemia ci trovi ancora nelle stesse condizioni.
Marco Cremaschini ha lavorato come Medico nel Dipartimento Cure Primarie dell’ATS di Bergamo durante la Pandemia. Da giugno 2022 è Medico di Medicina Generale nella provincia di Bergamo
fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2023/03/quel-marzo-2020-col-covid-19-a-bergamo/