Le riflessioni che hanno portato a una proposta per intervenire sulle narrazioni giornalistiche che accompagnano episodi di sterminio di una famiglia da parte del padre, come è avvenuto nei giorni scorsi all’Aquila da parte del dottor Carlo Vicentini, sono opportune e pertinenti. Il relativo documento elaborato a più mani, redatto a cura di Simona Lancioni e reso pubblico dal Centro Informare un’h (Proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche sui casi di omicidio-suicidio attuati dai caregiver e dalle caregiver ai danni di se stessi e della persona con disabilità di cui si curano, disponibile a questo link e aperto alla sottoscrizione di chiunque ne condivida la finalità), mette in evidenza gli elementi che innanzitutto violano i diritti umani della persona, che ancora stentano ad essere riconosciuti alle persone con disabilità, nonostante la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità sia stata fatta propria dalla legislazione di ben 186 Paesi (il 96,6% degli Stati Membri delle Nazioni Unite) e dal 2009 anche dall’Italia (Legge 18/09). Inoltre, quello stesso documento rende esplicite le forme di lettura che occultano e quasi giustificano atti di violenza estrema – decidere della vita di altre persone solo perché sono persone con disabilità – quasi siano motivazioni ovvie.
Sottoscrivendo il documento stesso, vorrei approfondire un elemento che è alla base di ambedue i fenomeni sopra descritti.
Il trattamento che le persone con limitazioni funzionali hanno subito nei millenni ha prodotto stigma culturali, sociali, tecnici e politici ancora fortemente presenti nell’immaginario collettivo delle società di tutti i Paesi. Allevati come “capri espiatori” da sacrificare in caso di eventi catastrofici per placare l’ira degli dei, abbandonati appena nati sul monte Taigeto a Sparta o soppressi come indicato nelle Leggi delle Dodici Tavole a Roma, le persone con disabilità sono state viste come “espressione del maligno” o quale “punizione divina” nel Medioevo. Poi sono state progressivamente considerate come incapaci di vivere in società e quindi rinchiuse in istituzioni segreganti, ritenute improduttive dalla rivoluzione industriale, ridotte alla loro patologia dalle classificazioni mediche, titolari di una povertà di diritti da welfare che offriva solo assistenza sanitaria e sociale, fino a divenire all’estremo “inquinatori della razza”, come stabilito dall’Aktion T4, che ha portato al loro sterminio durante il regime nazista.
L’insieme di questi stigma negativi ha permeato in profondità le società nei secoli. Spesso ci meravigliamo che in alcuni Paesi in cerca di sviluppo le persone con disabilità vengano abbandonate nella giungla o trattate in maniera disumana come accade alle persone con albinismo in alcuni Stati del Centrafrica. Questi trattamenti – e se ne potrebbero elencare ancora decine di migliaia – sono avvenuti in maniera analoga anche nelle società avanzate e hanno prodotto una visione negativa fortemente radicata nel senso comune.
Naturalmente i processi di cambiamento sono in atto, ma sono lenti e scontano di una forza d’inerzia dell’immagine che accompagna la vita delle persone con disabilità, in modo tale da impedire un cambiamento rapido e efficace. Questo sguardo negativo su chi siano queste persone impedisce di cogliere la loro cittadinanza piena e il diritto alla inclusione e partecipazione ed è ciò che sta dietro alla negazione dei loro diritti umani e alle narrazioni giornalistiche che le accompagnano.
Giustamente, in un articolo di commento di Simona Lancioni, pubblicato su queste stesse pagine, veniva sollevata una lettura più complessa del caso dell’Aquila: il patriarcato, che attribuisce al pater familiae l’idea di poter disporre della vita di tutti i membri della sua famiglia; la narrazione che si concentra su un unico fattore, la sofferenza psicologica del padre per il figlio con disabilità, che lo trasforma da assassino in vittima; la raccolta di testimonianze a senso unico sulle motivazioni della strage in famiglia.
A questi elementi si aggiungono i filtri culturali dei giornalisti, che spesso non hanno gli strumenti – culturali, appunto – per descrivere situazioni di questo tipo e semplificano la descrizione del caso, anche probabilmente in maniera non sempre consapevole, amplificando gli elementi pietistici e giustificativi che ne fanno una notizia/scoop.
Non molto tempo fa, tra l’altro, il linguaggio giornalistico sul tema della disabilità è stato posto sotto accusa da strumenti come la guida Le parole giuste. Media e persone con disabilità, realizzata da Intesa Sanpaolo, insieme all’Ufficio per le Politiche in favore delle Persone con Disabilità e all’Associazione ANFFAS, con la collaborazione dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.], mettendo in evidenza che il sostrato culturale dei giornalisti è permeato dal senso comune stigmatizzante.
A questo punto è sempre più chiaro che a smontare questi stigma negativi devono contribuire anche le persone con disabilità che non sono più oggetto di decisioni prese da altri (importante, in tal senso, sarà l’approvazione dei Decreti Attuativi della Legge Delega in materia di disabilità, Legge 227/21 e in particolare quello dei progetti personalizzati partecipati), ma soggetti del cambiamento, rivendicando il diritto di decidere della propria vita e di essere sostenuti dallo Stato nella loro cittadinanza piena, superando ostacoli, barriere e discriminazioni.