Facciamo due conti. Con 5 mila arrivi la settimana per 30 settimane l’anno l’Italia ha a che fare con 150 mila persone. Il nuovo decreto sull’immigrazione per lavoro prevederebbe 70 mila permessi. Palazzo Chigi chiede ricollocazioni in Europa, ma la nostra quota di immigrati è solo del 10,6% della popolazione.
Un recente editoriale del Corriere della Sera, scritto da Goffredo Buccini in elogio della Guardia Costiera Italiana (CdS 15 marzo 2023, “Il dilemma dei nostri marinai”), tornava sul tema del caicco turco affondato nella notte tra il 25/26 febbraio scorso alla spiaggia di Cutro, in Calabria, con almeno 91 vittime. Le vittime erano per lo più provviste di titolo per ottenere l’asilo previsto dalle norme internazionali; provenivano da almeno dieci Paesi diversi, soprattutto dell’Asia: Siria, Pakistan, Afghanistan. L’autore dell’articolo suggeriva un’osservazione importante sulla quale è opportuno riflettere. La riporteremo per esteso. “C’è – scrive Buccini – una domanda retorica posta polemicamente da Giorgia Meloni: ‘Si può davvero pensare che da qualcuno sia partito l’ordine di non andarli a salvare?’” Ovviamente no, si risponde Buccini, che però continua. “Ma il quesito va rovesciato: come mai nessuno ha dato l’ordine di andarli a salvare?” Non proveremo qui a dire la nostra in un dibattito nel quale ciascuno ha ormai una sicura convinzione, ma muoveremo da un altro punto.
In poche parole, il principio “Salvate le vite” potrebbe non essere il primo comando alla marina, ma arrivare solo subito dopo l’altro “Difendete la patria”. Ci sarebbe anche una subordinata: “Arrestate quei bricconi degli scafisti” e poi una seconda subordinata: “Peggio per loro se sono partiti”. Quest’ultimo pensierino rivolto ai migranti è una riflessione caratteristica di ambienti di governo.
La Difesa della Patria e più in generale il principio di garantire la Sicurezza degli Italiani sono caposaldi scritti in lettere maiuscole nel pensiero politico su cui la destra ha fondato la sua alleanza e la vittoria elettorale. Le stazioni, piene di giovani stranieri senza occupazione e in ogni caso perditempo, offendono l’italico amor patrio sopra ogni altra cosa. L’altra idea, contraria, è quella della solidarietà, del sostegno generoso tra le persone: un’idea con un consenso minore, addirittura di lacerata opposizione in Parlamento.
Il Corriere non si è fermato lì, ma ha messo in pagina altri due editoriali, dovuti ad altre due sue prime firme. Martedì 21 marzo è Angelo Panebianco che suggerisce, per ovviare alle difficoltà d’intervento italiane, politiche e logistiche, di rivolgersi a un’Unione Europea per ridurre e così risolvere i problemi della migrazione in Italia (A. P. “I migranti e l’Europa più unita”). Panebianco deve aver generosamente trascurato gli egoismi attuali dei governi amici e avere auspicato una Bruxelles piena di slancio. Così, a stretto giro di Corriere replica Ernesto Galli della Loggia (E. G. d. L. “L’accordo che serve”, giovedì 23 marzo). Egli ritiene che “l’emigrazione si prospetta come un’autentica emergenza nazionale, nei tempi medio-lunghi un vero uragano che minaccia di venirci addosso”. Data l’impraticabilità di un accordo con i paesi di origine e la sicura lentezza di un accordo europeo, non resta che attrezzarci all’accoglienza e all’integrazione. Accoglienza e integrazione – entrambe parole indicate in corsivo, dall’autore, per evidenziarne la sorprendente necessità – che sarebbero però occasioni d’immancabili discussioni e scontri laceranti fra le coalizioni, i partiti e dentro di essi, tali da rallentare o bloccare tutto. L’unica soluzione possibile sarebbe quindi una mediazione del Presidente della Repubblica dall’alto del suo magistero. C’è un uragano “che minaccia di venirci addosso”; procuriamoci almeno un ombrello.
Il Corriere ha fatto un nobile sforzo; ha discusso di problemi e cercato soluzioni. In una prossima occasione potrebbe però rendersi ancora più utile incaricando qualcuno dei suoi a leggere e documentarsi sui numeri dell’emigrazione. L’ultimo studio dell’Onu basterebbe. Esso è stato pubblicato alla fine dell’anno scorso e mostra dati che arrivano fino al 2020. L’anno successivo è reso per ora inaccessibile dalla pandemia del Covid-19 che ha imperversato anche sui dati dell’Onu, oltre che sulle vite, sulle scelte, sugli spostamenti degli umani. Il testo è “Sintesi dell’emigrazione internazionale 2020”. Contiene cinque brevi capitoli:
- Le mete dei migranti internazionali: dove vivono;
- Da dove vengono;
- I loro movimenti quanto a paesi e regioni attraversate e quali siano i gruppi di reddito;
- Le loro caratteristiche demografiche;
- Quali politiche siano possibili per facilitare migrazione e mobilità ordinate, sicure, regolari e responsabili.
L’Onu indica nel suo testo che i migranti sono assai cresciuti di numero tra 2000 e 2010 e ancor di più nel decennio successivo. Nel 2020 hanno raggiunto il numero di 281 milioni di persone; qualcuno all’Onu nota che è un insieme di persone enorme, pari agli abitanti dell’Indonesia, quarta per popolazione tra gli Stati del mondo: un’Indonesia tutta di migranti; il quarto Paese del mondo, pronto a diventare il terzo, raggiungendo in numero gli stessi Stati Uniti d’America. Tutti costoro, i migranti, hanno cambiato il loro luogo di nascita per un altro, di vita, straniero.
Altri numeri consentono di vedere meglio lo stato delle cose: dieci paesi contano per l’esatta metà dell’emigrazione, a partire dagli Usa con 50,6 milioni, e poi la Germania con 15,8, l’Arabia Saudita con 13, la Russia con 11,6; poi gli altri, in parte europei, con la Francia al nono posto e 8,5 milioni e la Spagna al decimo posto e 6,8 milioni di immigrati. L’Italia è undicesima, con 6,4 milioni. Per segnare la difficoltà di “chiedere all’Europa” seguendo il pensiero di Panebianco, serve di più la vista delle percentuali d’immigrazione nella Unione Europea a confronto con le popolazioni. In totale gli immigrati nei paesi europei, UE compresa, sono 86,7 milioni. Il paese più colpito – o favorito – dall’emigrazione in UE è la Svezia con un 19,8%. In altre parole uno “svedese” ogni cinque è immigrato; poi il Regno Unito con il 13%, la Grecia con il 12,9, l’Ucraina con 11,4, Paesi Bassi con 13,8, Francia con 13,1, Germania con18,8, Austria 19,3, Spagna 14,6 e naturalmente, ai confini dell’Italia, c’è la Svizzera con il 28,8 di immigrati. Più di uno svizzero ogni quattro, quasi uno svizzero ogni tre, stando all’Onu, è immigrato.
Sembra difficile che il governo italiano con la sua quota del 10,6% un immigrato ogni dieci, ottenga soddisfazione dai partner europei.
Vari articoli di L’Espresso del 26 marzo 2023 lo ripetono e ripetono. Gli immigrati arrivano in Italia per sbarcare e andarsene appena è possibile. Per rendere più severa la critica alla scarsa accoglienza italiana, lo stesso numero del settimanale offre una copiosa galleria di ritratti di persone diverse, di diversa origine e classe sociale: giovani e meno giovani, maschi e femmine, provenienti da altri mondi, da tutto il mondo. L’autore è Oliviero Toscani che afferma: “Ogni individuo che appartiene alla razza umana è un’opera d’arte unica e irripetibile… Quando gli uomini potranno spostarsi liberamente saremo finalmente una società civile”.
Le povere persone naufragate a Cutro provenivano dall’Asia (Siria, Pakistan, Afghanistan) e si erano imbarcate in Turchia, avevano circumnavigato la Grecia, per finire in Italia, come altrettanti Ulisse, reduci tutti di moderne, sanguinose guerre di Troia. Chiuso questo capitolo, messa una pietra sopra il caso di Cutro (non solo per modo di dire), rispedite ai mittenti che ne avessero fatta richiesta le spoglie di ragazzi, donne, uomini affogati, adesso il governo italiano rivolge le sue cure alla difesa contro l’abituale invasione africana. In un recente fine settimana, sono arrivate a Lampedusa tre-quattro-cinquemila persone, in parte provenienti dall’Africa a Sud del Sahara, in parte autentici maghrebini, tunisini soprattutto. Si presume che con la buona stagione gli arrivi si ripetano, sovraffollando Lampedusa, la Sicilia, il resto d’Italia.
L’obiettivo dichiarato del governo, riproposto anche con il prevedibile limitato successo alla recente riunione del Consiglio europeo del 24 marzo a Bruxelles è stato quello di dividere tra i Paesi della comunità europea il carico dei migranti, modificando le regole di Dublino. Il “pericolo” attuale è rappresentato dalla Tunisia e s’immagina di avere dalla nostra il governo francese, per secoli “protettore” del paese del Nord Africa, con il quale spartire oneri ed onori di una autonoma politica tunisina di trattenimento dei connazionali lontano dal mare o almeno lontano dalla Sicilia, isolette comprese. Il governo francese, presidente Emmanuel Macron in testa, ha scarso interesse per l’andirivieni a Lampedusa e dintorni; ritiene però di avere un sufficiente numero di tunisini di prima, seconda, terza generazione a Parigi e nelle altre città francesi; non ne fa un mistero, ma senza gridarlo ai quattro venti, sceglie di fermare gli arrivi di altri ancora all’altezza di Ventimiglia, alla frontiera italiana. Commette così quello che appare ormai a molti (per esempio a L’Espresso) come un errore di previsioni. La Francia pensa di poter fare da sé, di non avere bisogno di altri tunisini. Del caso italiano, ben più sciagurato, si discuterà alla fine di questo articolo.
Dal punto divista dei migranti, un motivo per partire, forse il primo tra tutti, è quello di trovare un lavoro, meglio ancora un lavoro abbastanza pagato. Ma quanto si guadagna, lavorando, in Europa?
Ordine di grandezza di stipendi mensili medi in diversi paesi, più o meno ricchi (dal 2020 in poi, in euro)
Italia | 2.102 | Portogallo | 933 | Tunisia | 250 |
Germania | 2.891 | Romania | 700 | Algeria | 310 |
Regno Unito | 2.613 | Serbia | 516 | Nigeria | 210 |
Spagna | 1.708 | Albania | 302 | Siria | 105 |
Grecia | 1.175 | Polonia | 895 | Bangladesh | 63 |
Francia | 2.369 | Russia | 490 | Vietnam | 320 |
Svizzera | 6.500 | Ucraina | 310 | Filippine | 270 |
L’Italia, intesa come il grande Paese che ha Lampedusa come lucente porto d’approdo, è un obiettivo ben noto ai migranti. Raggiunta Lampedusa, in un modo qualsiasi, in un tempo qualsiasi, con una qualsiasi spesa, comincia la giostra.
Per una ragazza, un ragazzo siriano, con magari dieci anni di scuola sulle spalle, cioè ben capace di leggere scrivere e di conoscere un mestiere e sapere una o più lingue, il passo dall’isola alla terraferma e poi all’Italia del Nord o a qualsiasi altro paese europeo, dipende soltanto dalle conoscenze (parenti, amici) e dall’opportunità e dalle fortune di viaggio. Se si guarda alla nostra povera, imprecisa, tabella, non c’è solo l’Italia a offrire un futuro di venti volte maggiore della Siria, futuro inteso come lavoro e vita pacifica; non vi sono solo altri Paesi ancor più ricchi, raggiungibili dall’Italia (da Lampedusa!) con un viaggio facile o per meglio dire non troppo pericoloso, non fuori portata, ma anche, tra i meno fortunati Paesi della Comunità, la Romania, con uno scarto da uno a sette, rispetto alla Siria, la Polonia con un margine di uno a otto e il Portogallo con un salto ancora maggiore e pari a uno a nove. Un migrante non capisce chi dice che l’Europa non esiste e si lamenti. L’Europa esiste davvero; è la libertà.
Facciamo un po’ di conti. Con cinquemila arrivi la settimana, per trenta settimane l’anno l’Italia ha a che fare con centocinquantamila persone; migliaia di ragazzi, di donne, di uomini, ragazzi piccoli, bimbi ancora al seno. Il problema di tutti loro è di stare un po’ meglio, aver ogni giorno da mangiare, trovare un lavoro, se possibile raggiungere i parenti, farsi raggiungere da loro, avere un po’ di pace, di tranquillità, di libertà; per dirla in una parola, che la destra di governo ama, un po’ di sicurezza. Dai tempi di Cutro pensiamo che ci vorrebbe una sorella gemella della guardia costiera che agisca in terraferma per provvedere a tutte le necessità di chi arriva; in modo ordinato, abile, rapido, efficiente; superando le molte inevitabili complicazioni, l’eccesso di burocrazia. Occorre occuparsi di cinquemila persone la settimana – abbiano preso per buona questa cifra – (e non bastano più i magnifici impermeabili dorati per rivestire chi è in ipotermia) senza che si urtino tra loro, si sentano rinchiuse, ma abbiano tutte da mangiare, curarsi, dormire, studiare, spostarsi in modo adeguato. Soprattutto si sentano libere; l’Europa serve a qualcosa, dopo tutto. Non sono una massa anonima i nuovi arrivati, ma tanti soggetti con esigenze, opportunità, vite diverse. Centocinquantamila vite l’anno, da sistemare tutte per il meglio. Siamo capaci di fare tutto questo, saremo capaci? In fondo è un lavoro molto più semplice di quello praticato con milioni di turisti; forse un po’ più complesso del tran-tran quotidiano, ma degno di rispetto, di vita degna. Alla fine si scoprirà che è perfino vantaggioso. Occorre che qualcuno dei nativi italiani impari una di dieci lingue, dieci storie antiche, diverse da quella dei sette re di Roma, ma altrettanto coinvolgenti. Per ora ci siamo dati da fare per insegnare a tutti i nuovi la lingua italiana. Uno sforzo generoso ma in fondo miope; adesso però occorre molto di più: imparare cibi, abitudini, religioni, memorie, la Storia per dire una parola, di decine di altri popoli, come ce li insegnano migliaia di altre persone migranti che abbiamo conosciuto o intercettato o che Toscani, tra gli altri, ha fotografato.
Il governo italiano, per ora i migranti li conta e li respinge, per quanto può. Cerca talvolta anche di nasconderli, per mandarli a disperdere oltre i confini: in Africa, in Asia, di là delle Alpi. Se il governo attuale lo fa con più arroganza e pressapochismo, quelli precedenti, in forme più gentili, talvolta, hanno fatto lo stesso; su questo punto hanno ragione i governanti attuali. È peggiorata solo la buona educazione, non altro. I migranti, venuti dall’Africa nera soprattutto, sono stati pensati come un disturbo, un pericolo, una difficoltà maggiore dai governi che si sono succeduti. In vent’anni tutti i governi hanno fatto propria la legge cosiddetta Bossi-Fini. Tutti temevano una disfatta elettorale cancellando Bossi-Fini; in altre parole era opinione corrente che la popolazione italiana fosse prevalentemente contraria agli arrivi, lamentando un disagio immancabile, per il disordine, il peggioramento dei servizi già carenti (sanitari, trasporti, qualità urbane) e soprattutto livello dei salari. Gli immigrati si sarebbero accontentati di certo di paghe inferiori, orari più lunghi e disagevoli e condizioni di lavoro più scadenti. Tutto vero, tutti aggrappati alla Bossi-Fini.
La Bossi-Fini, una legge del 2002 (la 189, luglio 2002), è rimasta su per giù la stessa, ma il mondo, intorno, è cambiato. Perfino in Italia è cambiato.
C’è in questi giorni un gran parlare del nuovo decreto sull’immigrazione per lavoro che prevede di dare permessi a un insieme di settantamila arrivi all’anno. Le domande, nel corso della prima ora di apertura della gara – di questo si tratta – per ottenere un permesso, sono state quattro volte più numerose. Il risultato alla fine sarà deludente come quello delle volte scorse: disagio per tutti, cattivo lavoro, prevaricazione nei confronti dei pochi fortunati.
Le frontiere aperte sarebbero in primo luogo una forma di democrazia e libertà umana, di riconoscimento di un diritto alla terra inalienabile ma sempre dimenticato, sottoposto alle regole vigenti, all’esosa avarizia dei luoghi e delle persone. Le frontiere aperte, l’invito a collaborare alle navi Ong che praticano i salvataggi in mare, invece di spedirle in assurdi approdi, lontani giorni di navigazione, impedendo loro di partecipare al salvataggio di vite di naufraghi, povera gente scappata di casa. Le concrete promesse di un altro modo di agire, in tema di documenti, cure, cittadinanza dei nati in Italia, permessi di soggiorno più generosi potrebbero consentire a un paese ben governato di ovviare al suo destino di mediocrità nell’Europa futura.
Qui tutti, non solo i maestri giornalisti del Corriere della Sera, dovrebbero studiare i grafici dell’Istat, l’istituto nazionale di statistica. Soprattutto quelli che mostrano con quattro curve il nostro avvenire, l’avvenire di figli e figlie, dei miei nipoti, delle mie nipoti. Le curve mostrano l’andamento probabile della mortalità, della natalità in Italia e poi quelli dell’immigrazione e dell’emigrazione, da oggi in poi, dal 2021 al 2070. Le curve che contano sono quelle centrali di ogni grafico. Segnano la popolazione che lascia il campo comune; quella che subentra, senza pareggiare il conto, anzi non raggiungendo, a un certo punto, neppure la metà della curva dei decessi; la curva degli immigrati e quella opposta degli emigrati; i primi sono molti di più dei secondi, ma nel periodo e soprattutto a fine periodo non riescono certo a coprire il vuoto delle tante morti e delle poche nascite, dell’invecchiamento della popolazione italiana in cui ben presto il numero di chi è in età di lavoro – convenzionalmente tra 14 e 64 anni – sarà numericamente pari a quello degli altri, cioè della popolazione che dipende dai primi essendo troppo giovane o troppo vecchia per lavorare.
Un ultimo invito per facili, piane letture. Il Sole 24 Ore del 29 marzo aveva un articolo sulla Germania e gli immigrati. (Isabella Bufacchi, “La Germania cambia le regole sugli immigrati”) Il governo di un grande Paese sembra dunque avere capito che occorre una riforma, subito. Non basta più badare soltanto a esportare magnifiche merci. Bisogna imparare anche a importare persone, povera gente dell’Ucraina, ragazzi e ragazze da mettere a scuola, case da costruire per tutti e tutte; e poi permessi di vita, cittadinanza più facile ai nati in Germania – una specie di ius soli per chi se ne ricorda – ecco la vera concorrenza dei tedeschi agli altri europei. Noi italiani dobbiamo rispondere. Essere più accoglienti, imparare a trattenere i nostri fratelli, le nostre sorelle, che arrivano dal mare.
FONTE: sbilanciamoci.info
l’Autore Guglielmo Ragozzino scrive attualmente sul manifesto e cura l’edizione italiana di Le Monde diplomatique e dei testi collegati, come gli Atlanti su geopolitica e ambiente. E’ stato redattore di Problemi del socialismo, la rivista di Lelio Basso, ha poi diretto Fabbrica e stato, rivista della sinistra sindacale e in seguito Politica ed Economia. Ha curato la pubblicazione di “Cent’anni dopo”, dialogo sulla Cgil tra Vittorio Foa e Guglielmo Epifani (edizioni Einaudi, 2006) e inoltre ha scritto insieme a Gb Zorzoli un libro sul petrolio, “Un mondo in riserva” (Franco Muzzio Editore, 2006).
Fonte foto di copertina: Catanzaro informa