Sono accolte sotto un’ottica vittimistica e passivizzante. Non solo. Nonostante siano più istruite degli uomini, le immigrate hanno molte meno possibilità di trovare un lavoro coerente coi propri titoli: è infatti sovra-istruito ben il 42,5% delle occupate straniere, contro il 25,0% dei lavoratori italiani e il 32,8% degli stranieri in generale. Inoltre, esse sono più esposte al part- time involontario, che svolgono nel 30,6% dei casi, ossia in misura quasi tripla degli uomini stranieri (11,6%) e quasi doppia delle italiane (16,5%). Di riflesso, percepiscono una retribuzione media mensile che colloca la metà delle immigrate nel 20% più povero della popolazione.
Questo e altro ancora emerge dal volume “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità”, il primo studio socio- statistico del Centro Studi e Ricerche Idos e dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” che rilegge l’immigrazione italiana dalla parte delle donne e che è stato presentato martedì scorso, 28 febbraio, all’Auditorium di via Rieti a Roma. La presenza e il protagonismo femminile caratterizzano da sempre l’immigrazione italiana. La condizione specifica della donna migrante è stata tuttavia a lungo trascurata. Assimilandone l’esperienza a quella degli uomini o riducendone la rappresentazione a ruoli marginali e passivi, le letture più diffuse hanno faticato a riconoscere la specificità dei percorsi delle donne della migrazione. Di riflesso – si apprende dallo studio condotto dal Centro Studi e Ricerche Idos-, in termini di policy si stenta a distinguere la varietà delle situazioni e a cogliere le molteplici e concrete ricadute che l’appartenenza di genere esercita (anche) sui processi migratori.
I dati rassegnati nel libro “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità” partono dal fatto che con quasi 2,6 milioni di residenti a fine 2021, le donne sono poco più della metà degli stranieri in Italia (50,9%) e quasi il 9% dell’intera popolazione femminile. Il loro numero cresce soprattutto dalla metà degli anni 90, portandole all’inizio del nuovo millennio a superare per numerosità gli omologhi maschi.
I dati mostrano l’estrema varietà delle provenienze geo- culturali e, allo stesso tempo, la preminenza di determinati gruppi: sono 192 le collettività rappresentate, con le prime 10 che raccolgono i due terzi del totale (65,6%). Le prime 5 contano più di 100mila residenti donne: Romania (617mila, 24,1%), Albania (204mila, 8,0%), Marocco (192mila, 7,5%), Ucraina (175mila, 6,8%) e Cina (148mila, 5,8%). Seguono Filippine (90mila, 3,5%), Moldavia (76mila, 3,0%), India (68mila, 2,6%), Polonia (56mila, 2,2%) e Perù (54mila, 2,1%), secondo una graduatoria che ricalca solo in parte quella delle presenze complessive. Sul piano continentale prevalgono le europee (54,9%, quasi un terzo comunitarie: 31,9%), seguite da asiatiche (19,5%), africane (16,9%) e americane (8,7%).
Altra osservazione degna di nota è la visione vittimistisca e passiva della donna che richiede asilo. Il tentativo di ricondurre le richieste d’asilo delle donne all’appartenenza a un “gruppo sociale particolare” – osserva lo studio di Idos – ha finito col veicolare lo stereotipo delle donne in fuga come vittime, statiche e passive, dell’arretratezza (solo) di determinati Stati e culture.
“Un approccio che – viene sottolineato dallo studio -, da un lato, ha portato a sottovalutare la valenza trasversale di logiche di genere che, seppure con diversi gradi di intensità, pongono di per sé le donne in una condizione di svantaggio e a sottovalutare tutte le altre forme di oppressione e persecuzione cui possono essere sottoposte; dall’altro, ha alimentato la tendenza a riconoscere come validi per l’accesso alla protezione solo i percorsi aderenti a tale profilo”. Di riflesso, restano penalizzate le donne che hanno difficoltà a raccontare le violenze e le persecuzioni subite ricostruendo narrazioni coerenti con questa visione.
L’impostazione dei percorsi di accoglienza appare a sua volta improntata a una visione della donna richiedente asilo o rifugiata vittimistica e passivizzante, che ne disconosce l’autonomia e rischia di limitarne l’agency invece di alimentarla, a partire da percorsi individuali co- costruiti.
Alla luce di tali considerazioni, anche la ridotta rappresentanza femminile tra i migranti forzati appare sotto una luce diversa. A livello comunitario, tra il 2008 e il 2021 sono state quasi 8 milioni le domande di asilo presentate, di cui circa 1 ogni 3 da parte di una donna, con un picco del 37% nel 2019. L’Italia, con 117.075 richieste, si distingue per una incidenza femminile nei flussi di protezione ancora più bassa: si va dal 14,6% del 2008 al 17,2% del 2021, con un aumento tra il 2018 e il 2020, quando si registrano percentuali superiori al 20%.
Sul piano statistico, la prima evidenza che caratterizza oggi le donne straniere in Italia è il loro sottodimensionamento nel mercato del lavoro rispetto alla presenza sul territorio. L’Istat certifica che nel 2021 le donne, pur essendo oltre la metà dei residenti stranieri, scendono al 42% tra i lavoratori (949.000 su 2.257.000) per risalire al 52,5% tra i disoccupati. Se il tasso di occupazione femminile totale in Italia è già tra i più bassi d’Europa (49,9% a fronte del 64,5%), quello delle straniere è in assoluto il peggiore: 45,4% a fronte di 58,2% tra gli occupati complessivi, 71,7% tra i maschi stranieri e 49,9% tra le italiane.
Mentre le italiane hanno un tasso di occupazione inferiore di 16,7 punti percentuali rispetto ai maschi, per le straniere il divario è di 26,3 punti rispetto agli uomini stranieri e di 4,5 rispetto alle italiane. Il tasso risulta, dunque, fortemente correlato al genere e alla cittadinanza e si abbassa passando dagli autoctoni ai cittadini stranieri e alle donne straniere. Se occupate, inoltre, le donne straniere restano concentrate in poche e specifiche occupazioni: per la metà lavorano in sole 3 professioni (collaboratrici domestiche, addette alla cura della persona e alle pulizie di uffici ed esercizi commerciali), a fronte di 12 professioni tra tutti gli stranieri e 45 tra gli italiani.
Più in generale, le donne straniere lavorano per l’87,1% nei servizi (16,8% commercio, alberghi e ristoranti e 70,3% altre attività dei servizi), per il 9,7% nell’industria e per il 3,2% in agricoltura. Dagli archivi Inps risulta che sono il 42,1% tra i lavoratori stranieri, il 54,1% tra i pensionati (per il più antico radicamento in Italia) e il 62,0% tra i percettori di prestazioni di sostegno al reddito (disoccupazione e mobilità). Nel lavoro dipendente l’incidenza delle donne tra gli stranieri è del 44,0%, ma si differenzia fortemente per settore: 25,7% nel settore privato agricolo, 35,1% in quello privato non agricolo e 84,6% nel lavoro domestico (dove circa il 70% degli addetti è straniero).
Insomma – emerge dal volume redatto da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” – le immigrate hanno meno opportunità di occupazione degli uomini e sono perlopiù destinate a mansioni di bassa qualifica e alla cura e assistenza domestica, ambiti caratterizzati da una forte esposizione al sommerso e da basse retribuzioni (in media le dipendenti percepiscono 897 euro al mese, il 29% in meno delle italiane e il 27% in meno degli stranieri maschi).
Ne discende che la metà delle immigrate rientra nel 20% più povero della popolazione. Nonostante le donne straniere siano mediamente più istruite degli uomini hanno, dunque, meno possibilità di trovare un lavoro (o di trovarne uno coerente con i propri titoli). Ed infatti, il 32,8% degli stranieri è sovra-istruito, ha cioè un titolo di studio superiore al lavoro che svolge, condizione che tra gli italiani riguarda il 25,0% e che, viceversa, tra le donne straniere è del 42,5%.
fonte: Il Dubbio su Ristretti Orizzonti