Un recente studio indaga le dinamiche spazio-temporali che caratterizzano le specie invasive marine nelle nostre acque, confermandone una diffusione sempre maggiore e un aumento sempre più rapido a causa del cambiamento climatico, che riscalda e modifica i parametri fisico-chimici del mare.
Il Mar Mediterraneo detiene il triste primato di essere uno dei bacini più ricchi di specie aliene invasive: sono quasi un migliaio quelle censite. E, come mettono in evidenza alcuni studi, il tasso di arrivo e insediamenti di nuove specie ha subito un’impennata in tempi recenti, complici i cambiamenti climatici che, contemporaneamente, rendono queste acque sempre meno idonee ad alcune specie native.
Su Global Change Biology, uno studio recente ha indagato, per la prima volta, le dinamiche spazio-temporali che caratterizzano le specie aliene del Mar Mediterraneo, basandosi su una vasta mole di dati provenienti dalla letteratura scientifica. I risultati di quest’ampia analisi non solo confermano un trend in aumento di specie esotiche, ma evidenziano anche che le barriere biogeografiche che un tempo si ritenevano dei limiti per la diffusione di queste specie si stanno indebolendo, contribuendo ad aumentarne la diffusione.
Dal Mar Rosso al Mediterraneo
Molte delle specie aliene marine vengono trasportate involontariamente dalle imbarcazioni, altre arrivano attraverso il Canale (artificiale) di Suez, e sono quindi organismi tropicali ben adattati alle alte temperature. Un esempio è il pesce coniglio, un pesce tropicale che è attualmente molto numeroso nella porzione sudorientale del bacino. Questi voraci erbivori stanno provocando la desertificazione dei fondali, perché a differenza dei pesci nativi, brucano non solo le alghe più sviluppate ma anche quelle più giovani, impedendo quindi la rigenerazione. Scomparendo le alghe, scompaiono le specie a esse connesse, ed ecco che, come rivela uno studio condotto in un tratto costiero tra Grecia e Turchia, nelle regioni con alta densità di pesci coniglio la copertura algale è ridotta del 65% e si osserva una diminuzione del 40% della ricchezza di specie. Un altro pesce tropicale che ormai è diventato un abitante del nostro mare, in Turchia, Grecia, Cipro, Israele e Libano, ma anche in Italia, è il pesce scorpione, predatore dotato di aculei velenosi pericolosi anche per le persone. E soprattutto ghiotto di stadi giovanili di pesci autoctoni e privo di predatori che ne regolino la numerosità.
«Abbiamo analizzato le osservazioni geo-referenziate accolte in un periodo di oltre 120 anni, dal 1896 al 2020, per 188 specie. Queste informazioni ci hanno permesso di fornire una descrizione accurata del fenomeno in termini di nuove introduzioni, velocità di diffusione e aree occupate per specie; possiamo anche utilizzare questi dati per costruire dei modelli previsionali», spiega Ernesto Azzurro, primo autore dell’articolo di Global Change Biology e senior researcher all’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine (IRBIM) del CNR. Per avere un colpo d’occhio della situazione si può consultare il portale ORMEF, messo a punto proprio dal CNR-IRBIM, che raccoglie appunto le osservazioni delle specie ittiche invasive.
«Negli ultimi vent’anni abbiamo osservato un aumento significativo del numero delle nuove introduzioni e una maggior capacità invasiva delle specie introdotte. Infatti in questo periodo, le nuove specie introdotte hanno dimostrato una capacità di dispersione significativamente più alta rispetto alle altre. Il fenomeno nel suo complesso non mostra segni di rallentamento né di saturazione», continua Azzurro. Si potrebbe osservare che, nel corso del tempo, è aumentata anche l’attenzione da parte del mondo scientifico e politico per il problema delle specie aliene invasive, e che la mole e la qualità dei dati raccolti sia migliore oggi rispetto che alla fine dell’Ottocento. Tuttavia, precisa il ricercatore, questo non basta a spiegare l’aumento osservato – e, soprattutto, non spiega la maggiore e più rapida diffusione delle specie in nuovi areali.
Inoltre, osserva lo studio, anche le barriere che un tempo sembravano poter “trattenere” le specie aliene entro certi confini appaiono indebolite. «Fino agli anni ‘90 si pensava che lo Stretto di Sicilia e il Mar Egeo Settentrionale fossero i limiti ultimi per la diffusione di specie provenienti dal Mar Rosso, tanto che era stata ipotizzata la presenza di una nuova provincia biogeografica. Nel tempo, però, diverse di queste specie hanno iniziato a spingersi oltre, sconfinando nel Mediterraneo Occidentale o nel Nord dell’Egeo: è il caso per esempio del pesce flauto (Fistularia commersonii), del pesce palla maculato e della sardina del Mar Rosso (un tipo di aringa)», spiega ancora Azzurro. «Il Canale di Suez è aperto da oltre 150 anni e nuove specie continuano a percorrere questo corridoio artificiale e a invadere il nostro mare».
Quando il mare si scalda: la tropicalizzazione del Mediterraneo
Tanto per l’aumento del numero di specie invasive quanto per l’aumento della loro diffusione, i ricercatori individuano una ragione comune: i cambiamenti climatici. Secondo i dati preliminari rilasciati da ISPRA, il 2022 risulta essere l’anno più caldo di tutta la serie dal 1961, con una marcata anomalia della temperatura media di +1,12°C. Una anomalia a cui non è immune nemmeno il nostro mare: le temperature del Mediterraneo stanno infatti aumentando il 20% più rapidamente rispetto alla media globale, come indica il report pubblicato da MedECC, network indipendente che riunisce più di 80 scienziati esperti nei cambiamenti climatici e ambientali dell’area mediterranea. Questo innalzamento delle temperature rende il mare nostrum un habitat ideale per molte specie tropicali.
E, al contempo, molte specie native faticano a sopravvivere in un ambiente così diverso da quello in cui si sono evolute. La fauna mediterranea, infatti, è quella tipica di acque temperato-fresche e ha una origine atlantica, che risale a cinque milioni di anni fa, durante la crisi del Messiniano. Il Mar Mediterraneo ha naturalmente un gradiente di temperatura che va da Ovest a Est: la parte orientale ha sempre avuto, in tutto l’Olocene, temperature più elevate rispetto al bacino nordoccidentale, e ora si sta scaldando molto più rapidamente. Le specie mediterranee che vivevano già in acque con temperature al limite delle loro necessità fisiologiche si ritrovano ora 1-3 gradi in più e quindi alcune popolazioni iniziano a collassare, altre sono già scomparse da tempo da determinate aree geografiche. A essere influenzate in modo particolarmente negativo sono le specie ittiche adattate a climi temperati o boreali, come il merluzzo o la salpa. Così, il Mediterraneo Orientale ha ormai una fauna di origine tropicale dominante; non a caso, alcuni ricercatori definiscono il fenomeno “de-mediterraneamento” o “tropicalizzazione”, in riferimento alle specie tropicali provenienti dal Mar Rosso attraverso il Canale di Suez, uno dei principali imputati per l’arrivo di queste specie invasive.
Questo si vede anche dal mondo della pesca: non a caso, in tutto il Mediterraneo orientale, molte specie ittiche invasive vengono utilizzate come risorse commerciali destinate a scopo alimentare al posto delle specie native.
«Questo progressivo aumento di nuove introduzioni mette in luce la crescente importanza della problematica nel prossimo futuro: stiamo infatti accumulando un crescente “debito di invasione”, termine che si riferisce a specie che sono già entrate in Mediterraneo ma che ancora non hanno sviluppato popolazioni invasive. Questo accadrà inevitabilmente per un certo numero di nuove introduzioni in un lasso temporale non facilmente prevedibile. Per il futuro ci aspettiamo quindi un mare ancora più invaso da specie esotiche», spiega Azzurro. «Purtroppo, se la gestione e il contenimento delle specie invasive pone enormi problemi sulla terraferma, in mare la questione si fa ancora più complessa. Infatti, nella maggior parte dei casi, non possiamo intervenire in modo specie-specifico e l’eradicazione, ovvero la rimozione di tutti gli individui della specie invasiva, non è un obiettivo perseguibile. Mancano, insomma, strumenti “pronti all’uso”, anche se la collaborazione con il settore pesca e le stesse scelte dei consumatori, possono rappresentare formidabili alleati per la gestione della problematica».
fonte: Scienza in Rete