Franca Beccaria, sociologa, istituto di ricerca Eclectica+, scrive sulle avvertenze nelle etichette sul vino per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto
La Commissione Europea ha dato il via libera all’introduzione in Irlanda delle etichette che avvertono il consumatore sui rischi legati al consumo di bevande alcoliche. Tornerò più avanti sulla questione etichette che, confesso, non mi appassiona in modo particolare. Ciò che invece sta attirando la mia attenzione sono i toni terroristici sui rischi del basso o moderato consumo.
È ormai consolidato a livello scientifico che il rischio zero non esiste, e io non intendo assolutamente mettere in discussione questo assunto.
Le mie perplessità stanno invece tutte nei toni e nei contenuti della comunicazione sui rischi. Quante sono le attività rischiose nella nostra vita? Salire in auto la mattina, sciare, vivere o lavorare a Torino e respirare ogni giorno l’aria di una delle città più inquinate d’Italia? Quanti i rischi di sviluppare malattie importanti, come il cancro, legati alle bevande gassate, cibi processati, carne?
Possiamo immaginare una società i cui tutti i prodotti siano identificati con warning più o meno terrificanti? Quando il mio treno entra in stazione a Torino, la voce gentile del conduttore dovrebbe salutarmi così: “Ben arrivata a Torino, ricordati di indossare la mascherina oppure respira di meno perché rischi di contrarre il cancro”?
Nel dibattito in corso, gli esperti fanno a gara a elencare i danni che l’alcol può provocare all’uomo, in una rincorsa a chi fa più citazioni dotte. Sono andata alla fonte a leggerne alcune.
L’affermazione “l’alcol danneggia il cervello” è suffragata da uno studio inglese che ha rilevato gli effetti che il consumo di bevande alcoliche ha sul volume cerebrale e sulla microstruttura della materia bianca. Lo studio evidenzia come anche un consumo basso o moderato riduca la massa cerebrale, ma nessuno degli autorevoli esperti entra nel dettaglio dei risultati: rispetto al cervello di un astemio di cinquant’anni, chi consuma un bicchiere al giorno ha un cervello invecchiato di 6 mesi e di 2 anni se i bicchieri sono due.
Questa informazione è cruciale. Quanto per me sono importanti 6 mesi di “invecchiamento” in più? E come si concilia tutto ciò con le evidenze scientifiche sulla riduzione dei rischi di demenza tra i bevitori moderati?
L’altro rischio riguarda la cancerogenicità dell’alcol. È ormai assodato che non esista una soglia di sicurezza. Ma come trattiamo in termini di comunicazione il rischio infinitesimale? Uno studio ha stimato il numero di tumori causati in Europa ogni anno dal consumo basso e moderato di alcol: due bicchieri al giorno provocherebbero lo 0,62% di tutti i tumori. È un rischio accettabile?
Nessuno si interroga però sugli effetti che una ridondanza di messaggi terroristici sui rischi può avere sulla vita sociale e relazionale delle persone. Mangiare e bere non sono azioni che si compiono in un vacuum, ma sono azioni fortemente sociali.
Se prendiamo dunque in considerazione tutti gli aspetti legati al bere, i rischi e il piacere che un bicchiere di vino o un boccale di birra possono dare per il gusto o per il contesto di consumo, credo non siamo in grado a oggi di dire da che parte penda la bilancia. Ciò che possiamo fare è prendere atto che la bilancia è composta dai due piatti ed evitare di essere strabici e dunque di vederne solo uno.
Eccomi così arrivata all’“appassionante” dibattito che sta mobilitando le lobby per la difesa del nostro prodotto nazionale di eccellenza, il vino. Personalmente non avrei difficoltà ad accettare alcune avvertenze e penso che neppure molti produttori siano nel profondo contrari.
Tuttavia, visto che le evidenze sull’efficacia delle warning labels sono deboli, sarei propensa ad affiancare a etichette informative un messaggio meno terroristico: “se ti fa piacere bere, bevi meno e meglio”.
La versione estesa dell’articolo nel podcast di Fuoriluogo
fonte: il manifesto – Fuoriluogo