I rischi di affossare la sanità pubblica, e con essa il diritto universale alla salute e alle cure, sono sempre più gravi. Ci avviciniamo a un punto di “non ritorno”, come ricordano Rosy Bindi e Nerina Dirindin in un recente articolo su “La Stampa”.
Alle conseguenze delle decisioni assunte con l’ultima legge di bilancio dal nuovo Governo: il definanziamento del Fondo sanitario nazionale per i prossimi anni (nel 2025 è previsto che la spesa sanitaria in rapporto al PIL crolli ai livelli prepandemia), il perdurare del blocco delle assunzioni per tutto il personale sanitario pubblico, la contemporanea carenza e fuga dei professionisti dal SSN, e alla sciagurata proposta di introdurre l’autonomia differenziata, si aggiunge in ordine di tempo l’Atto di indirizzo del comitato di settore della conferenza delle regioni per il rinnovo del contratto di lavoro dei medici (ACN) di medicina generale (MMG) e i pediatri di libera scelta (PLS).
Per chi ha redatto questo Atto, la pandemia, le difficoltà emerse nella sua gestione e le necessarie reazioni, sembrano non esistere, a partire da una medicina territoriale rivelatasi a dir poco inadeguata (tanto più di fronte allo sforzo individuale di tanti professionisti), fino alle conseguenti azioni previste dalla Missione 6 del PNRR con la riforma per il potenziamento dell’assistenza territoriale. Tutto questo è come se non esistesse. Vero che questo Atto di Indirizzo è riferito all’ACN del periodo 2019-2021, ma le omissioni su ciò che è accaduto in questi due anni sono clamorose.
Il ruolo dei MMG e dei PLS nell’ambito dell’assistenza primaria territoriale è fondamentale, entrambi sono una delle porte di accesso al Servizio Sanitario pubblico. Ma è del tutto evidente che è indispensabile rivedere l’assetto organizzativo e funzionale della medicina generale, alla luce di quanto è successo in questi anni e di quanto previsto dal DM 77 (la riforma del PNRR per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel SSN).
Non è in discussione il ruolo fiduciario con gli assistiti, né il dibattito può “avvitarsi” sul rapporto giuridico con il SSN (per quanto importante). Occorre piuttosto ridefinire le loro funzioni e il modello organizzativo sulla base delle mutate esigenze epidemiologiche, del progressivo invecchiamento della popolazione e dell’aumento delle patologie ad essa correlate che comportano cronicità e non autosufficienza (un quadro che l’OMS descrive come l’”altra epidemia”, che sommata alla pandemia da Covid sappiamo aver provocato i danni più gravi). Una situazione epidemiologica, demografica, sociale che coinvolge milioni di persone, per lo più anziane, che esprimono bisogni plurimi e complessi, di natura sociale non solo strettamente sanitari, che implica una sanità di iniziativa, una presa in carico individuale, continuità assistenziale, integrazione socio sanitaria organizzativa e professionale: quindi tutto ciò che esige l’adozione di un modello di cure primarie che non può più essere affrontato in solitudine dal Medico di MG. La risposta minima è l’aggregazione dei medici di base oltre gli studi medici individuali. Ma è insufficiente: Serve una maggiore e strutturale integrazione con la rete dei servizi territoriali, anche nelle Case della Comunità, con tutti gli altri professionisti della salute (sociali e sanitari) e più in generale con l’intero sistema (socio) sanitario regionale. Un orientamento innovativo e chiaro viene ad esempio dalla campagna Primary Health Care sorta intorno alle proposte del “Libro Azzurro delle cure primarie”.
Ma la questione cruciale è che questi sono problemi oggettivamente presenti su tutto il territorio nazionale e che quindi debbono essere concordati e poi normati nell’ambito del contratto nazionale. E invece il comitato di settore, in modo del tutto anacronistico e burocratico li demanda alle singole regioni:
“, In tale ottica l’assetto organizzativo dell’assistenza territoriale è espunto dalle materie oggetto di contrattazione ed è naturalmente rimesso, unitamente al sistema informativo, alle prerogative regionali nell’ambito del quadro normativo nazionale”.
Non si comprende la ratio di questo modo di procedere – che non c’entra nulla con la legittima autonomia organizzativa posta in capo alle regioni – ma quello che è certo è che è giunto il momento di cambiare pagina: oggi serve una convenzione nazionale che preveda funzioni e compiti della medicina generale chiari certi e definiti soprattutto da un punto di vista organizzativo. Solo così si rafforza e consolida quale porta di accesso ad un servizio equo ed universale.
La contrattazione regionale, come del resto avviene per tutte le contrattazioni di 2° livello deve riguardare aspetti effettivamente derivanti da scelte e condizioni territoriali come ad esempio la premialità rispetto agli obiettivi definiti.
Diversamente continueremo ad avere una situazione come quella odierna, parcellizzate e a macchia di leopardo nelle singole regioni (e all’interno delle stesse), lasciata alla disponibilità dei singoli professionisti, frutto dell’assenza di norme nazionali chiari e vincolanti tipiche per ogni lavoratore contrattualizzato di questo Paese. Norme nazionali, indispensabili nel caso di chi lavora per la salute delle persone, per assicurare il rispetto dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, come prescrive la Costituzione.
Gli autori Stefano Cecconi e Giorgio Cerquetani qui intervengono per “SOS Sanità”