Matteo Furlan (nome di fantasia) è seguito dal dipartimento di Salute mentale di Trieste e ha le idee ben chiare su quello che sta succedendo alla psichiatria in Italia: carenza di fondi e personale rischiano di ridurre i servizi offerti a chi si trova in condizione di maggiore fragilità e bisogno d’aiuto. Intervista di Veronica Rossi
«Per ora resistiamo, ma non possiamo andare avanti a resistere, bisogna inventarsi qualcosa di più efficace!». Matteo Furlan (nome di fantasia) è seguito, fin dal 1994, dal dipartimento di Salute mentale di Trieste. È, quindi, un diretto testimone dei cambiamenti che negli ultimi 30 anni sono avvenuti nella presa in carico di chi vive una condizione di disagio mentale. E la situazione attuale non gli piace affatto. Perché per lui è evidente che i soldi investiti in psichiatria sono sempre meno e gli effetti si vedono: i Centri di salute mentale – Csm, per esempio, stanno progressivamente perdendo il loro ruolo di punto di riferimento – non solo medico – per la persona e gli operatori, sempre più stremati, non riescono a seguire nel modo migliore chi viene a cercare aiuto.
Ci racconterebbe la sua storia?
La mia storia è simile a quella di molti altri nella mia situazione. Nel 1994 ho iniziato a essere seguito a San Giovanni (sede del dipartimento di Salute mentale, dove un tempo sorgeva l’ospedale psichiatrico, ndr) e nel 1995 ho avuto anche bisogno di un ricovero. Quando il tuo problema diventa pesante, infatti, non puoi rivolgerti solo a uno psicologo o a uno psichiatria privato: c’è bisogno di una presa in carico, di essere seguiti.
Cosa significa essere seguiti?
Significa che, al Centro, quando fanno delle riunioni parlano anche di te e di tutti coloro che si fanno vedere e sentire. Seguire vuol dire farsi carico della vita dell’utente, fin dove si può, perché un servizio non può sostituirsi ai genitori, deve lasciare autonomia. Per esempio, quando ero più giovane, mi chiamavano e mi chiedevano se volevo partecipare a un’uscita o andare da qualche parte. Poi seguire vuol dire anche somministrare dei farmaci e vedere come uno reagisce. Insomma, significa tante cose: osservare la persona nel suo complesso e mettere in campo le strategie giuste per migliorare la sua salute mentale.
Che cambiamenti ha visto nei servizi negli ultimi 30 anni?
Io so quello che accade a Trieste, ma sono consapevole che in altre parti d’Italia è molto peggio. Nella mia città vedo che il budget dedicato alla salute mentale si è progressivamente ridotto nel corso degli anni 2000. Allo stato attuale, sembra che basti solamente per i farmaci e gli interventi essenziali. A via Gambini, il Csm da cui sono seguito, una volta davano il pranzo e la cena; oggi solo il pranzo, da portare via. Il dipartimento di Salute mentale, poi, col nuovo atto aziendale pare verrà accorpato a quello delle Dipendenze: così, però, potrebbe venire offuscato, perdere di importanza. Il rischio è che i Centri – non solo quelli di Trieste – diventino degli ambulatori o poco più. Non è una bella situazione quella di oggi. È pesante.
A essere pesante, anche il pregiudizio che grava su chi vive una malattia mentale. Cos’è secondo lei lo stigma?
Lo stigma è come ricevere un timbro che ha un significato negativo. Le persone ti vedono entrare in un Csm e pensano: «Quello è un matto». Il timbro sta nelle parole che vengono dette, è virtuale, non c’è ma è come se ci fosse per davvero. Perché il disagio mentale è difficilmente comprensibile se non l’hai provato o studiato: è facile arrivare a un giudizio negativo. Poi ci metti un po’ di cattiveria e il gioco è fatto.
Il disagio mentale è difficilmente comprensibile se non l’hai provato o studiato: è facile arrivare a un giudizio negativo. Poi ci metti un po’ di cattiveria e il gioco è fatto.
E questo può avere cattive conseguenze anche sulla percezione di sé.
In questo caso c’è un «autostigma». Sei tu che ti svaluti, che pensi che certe cose non le puoi fare perché hai delle caratteristiche che te lo impediscono. Insomma, ti dai un «autotimbro». Non succede a tutti, ma chi è più fragile e non è tanto consapevole può cadere in questo meccanismo. È dovuto anche al giudizio degli altri: può essere che tu risenta socialmente di uno stigma e non pensi che la genti sbagli, pensi che magari è vero. Emotivamente senti come le persone ti vedono, vieni buttato giù e poi finisci per buttarti giù da solo.
Come dovrebbe essere, secondo lei, un servizio di Salute mentale?
Innanzitutto il budget dovrebbe essere maggiore, almeno tornare al livello di 15 o 20 anni fa, perché si riesca di nuovo a seguire veramente le persone. Io vedo quanta fatica fa il personale, perché c’è stato anche un blocco del turnover: gli operatori vanno in pensione, ma non vengono sostituiti da giovani. Poi penso che sia importante non fare sempre le stesse cose, perché man mano che si va avanti la conoscenza progredisce. Però non è automatico.
Come mai?
La psichiatria non è una branca della medicina come le altre, non ce n’è una sola, ce ne sono diverse, a seconda di come ragionano gli specialisti. Che poi è strano, viene da pensare, se all’università ricevono tutti le stesse conoscenze. Invece non è così, perché ciascuno si fa le sue idee, in base alla propria sensibilità. Per esempio, in vari dipartimenti permettono di legare le persone ai letti: evidentemente là comandano degli psichiatri che pensano sia giusto. Anche qua a Trieste, in positivo, Franco Basaglia non ha applicato solo quello che gli hanno insegnato all’università, ma ha portato avanti una sua idea.
Quindi Trieste è un baluardo della deistituzionalizzazione.
Una persona appartenente al mondo basagliano ha detto: «Se cade Trieste cadiamo tutti». Questo per me significa che la nostra è l’esperienza più importante perché è quella da cui discendono le altre che si ispirano allo stesso modello. Se si disgrega il nostro sistema, possiamo solo immaginare cosa accadrà ad altri luoghi che vedono Trieste come un punto di riferimento. Diventerebbero più deboli. E, a ben vedere, è quello che sta già succedendo.
fonte: Vita