Esistono frasi fatte, e perfino semplici parole, che sento ripetere a mo’ di litania senza che – lo confesso – io ne comprenda fino in fondo il senso. Se riferite all’autismo, argomento di cui mi occupo avendo un figlio autistico che seguo da quarantuno anni, un esempio può venire da vocaboli come “orgoglio”, “speciale”, “inclusione”, e altri, utilizzati sempre più spesso, con una certa discutibile disinvoltura, aggiungerei.
Avendo la responsabilità di curare una pagina Facebook che conta più di 36.000 follower, mi succede ogni giorno di ascoltare familiari disperati che mi parlano o scrivono dei loro tormenti e del dolore che provano nel non riuscire a fronteggiare adeguatamente la realtà drammatica connessa all’autismo dei propri cari. Sono familiari provati da mille battaglie, lacerati da una lotta impari, lasciati soli, mandati allo sbaraglio da uno Stato che si dimentica completamente di loro e vive di promesse destinate immancabilmente, e trasversalmente ad ogni schieramento politico, ad essere tradite.
Siamo davanti ad un problema che è innanzitutto di matrice culturale: nei Servizi e tra le Istituzioni domina l’ignoranza, manca la minima percezione della sofferenza che vivono i nostri figli, ritenuti addirittura incapaci di possedere una sfera emotiva. Per tale ragione i loro comportamenti dirompenti sono banalmente catalogati alla voce “comportamenti problema”, con l’inevitabile deriva psichiatrica del ricorso a massicce dosi di psicofarmaci che ne annientano la mente e devastano il corpo.
E allora, fatte salve le dovute eccezioni, come si concilia, ad esempio, l’uso (l’abuso?) della parola “inclusione” con una realtà, penso ad esempio alla scuola, che non di rado racconta ben altro, segnata da emarginazione ed esclusione al punto da costringere tante famiglie a ritirare i figli a distanza di pochi mesi dall’avvio dell’anno scolastico, pur di sottrarli alla mortificazione e all’isolamento di grigie aule “dedicate” solo a loro? E se usciamo fuori dal perimetro scolastico cosa c’è di inclusivo in un contesto sociale che non perde occasione di stigmatizzare le persone autistiche, ritenendole incontrollabili e inconsapevoli? Che ha paura di loro? Che li aggredisce con violenza fisica e psicologica? Che non offre opportunità di inserimento lavorativo? Che li denigra e ne affossa i diritti, anche quando sono proclamati solennemente da istituzioni sovranazionali come l’ONU?
Cosa fa dire a tanti genitori che i loro figli sono “speciali”, senza comprendere che questa definizione è già di per sé fortemente discriminante? Io amo mio figlio, ma, lo dico senza vergognarmene, non trovo… niente di speciale in lui. Lo ritengo una persona come tante, a cui non è colpevolmente riconosciuto il rispetto e la dignità che merita (circostanze contro cui lotto ogni giorno).
Mio figlio non è affatto speciale, per lo meno non lo è nel senso che quei genitori attribuiscono alla parola, perché come me è una persona sensibile e possiede un’intelligenza emotiva pari alla mia, pur se espressa – con tutta evidenza – con caratteristiche e modalità diverse. Esiste intorno a lui, e a tutte le persone autistiche come lui, un alone di diffidenza e un livello di ignoranza tale per cui il più delle volte si rinuncia a comprendere il motivo e i disagi sottesi alla difficoltà che queste persone incontrano di esprimere volontà, sentimenti ed emozioni. È questa rinuncia, spesso aprioristica, che io trovo sgradevole; ritengo rivoltante l’idea di abdicare di fronte ai bisogni di una persona fragile che chiede inutilmente aiuto e supporto. Speciale non è mio figlio, ma la discriminazione che è costretto a vivere. E speciali, in senso negativo, sono proprio (e solo) le persone che gliele fanno subire.
Quante volte a mio figlio è capitato di affidare a comportamenti che “non riesce” a controllare stati d’animo che vanno ben oltre le parole che “non riesce” ad esprimere… Anche di recente l ’ho visto abbandonarsi a scoppi di rabbia che solo superficialmente (e ancora una volta in modo ignorante) possono apparire improvvisi e non motivati, mentre in realtà la causa che ne è alla base esiste eccome, e sta tutta nello stress fisico ed emotivo che si è accumulato dentro di lui, fino ad essere percepito come minaccia, pericolo, dolore.
Le sue reazioni, in certi momenti di crisi (che a volte sono durate ore) in cui l’ho visto esplodere in una vera e propria furia cieca e incontrollabile, sono state sempre l’espressione di una manifestazione di difesa traumatica ed estrema, da quel sovraccarico sensoriale, emotivo e cognitivo che non riusciva a gestire. Quante volte ho assistito a scene di violenza fisica verso se stesso o verso gli oggetti, e a scene di violenza verbale, alternate a grida e pianto che hanno lasciato lunghi strascichi di sfinimento fisico, vergogna, senso di colpa, annientamento dell’autostima e della fiducia personale…
Quante volte, quando finalmente tutto è finito, l’ho visto correre da me e abbracciarmi forte… Quante volte l’ho visto piangere a dirotto come se volesse farsi perdonare per qualcosa di cui certamente non aveva nessuna colpa… Quante volte io stesso ho dovuto trattenere le lacrime per non ammettere la mia disperazione e impotenza…
È partendo da questa realtà, purtroppo così maggioritaria, che mi chiedo, quasi sgomento, come facciano alcuni a parlare di “orgoglio autistico”, fino a celebrarlo addirittura in giornate simbolo cerchiate in rosso sul calendario. Cosa c’è che rende orgogliosi in uno spettacolo così drammatico, chiamato tecnicamente meltdown?
Meltdown, voglio ricordarlo, è un termine informatico che attiene alla vulnerabilità hardware di alcuni microprocessori. Quella che ho sintetizzato nel mio racconto è la vulnerabilità di un essere umano (e di un genitore) che sono alla mercé non di un microprocessore, ma di qualcosa di molto più grosso e complesso, che suscita ribrezzo e orrore, e che si chiama autismo. Quello vero, però, quello gravoso e gravissimo con cui la maggioranza delle famiglie fa quotidianamente i conti. Non quello quasi “fiabesco e rococò” di cui altri, più fortunati, discettano amabilmente nei salotti, ammiccando addirittura “all’orgoglio” di vivere questa condizione.
Personalmente, mi interessa qui ribadirlo, sono molto orgoglioso di mio figlio; non lo sono affatto del suo autismo, di cui volentieri avrei fatto, e certamente lui con me, a meno.
Non lasciamoci fiaccare da questo nemico subdolo, ma lottiamo perché un giorno i diritti universali dei nostri cari siano non solo riconosciuti a parole, ma soprattutto applicati. Solo allora potremo usare in modo appropriato la parola “orgoglio”, nel senso che ci sentiremo orgogliosi di avere combattuto e vinto, in nome loro, una battaglia nobile e giusta!