Il decreto anti-Ong del governo Meloni non risolve il tema dei migranti, destinati a vivere maggiori difficoltà. Diciamolo per quello che è. Il decreto migranti – che è più esatto definire il decreto Ong – licenziato dal Consiglio dei ministri – è una misura di bandiera ed è, per giunta, una misura odiosa. Nel metodo e nel merito.
Un governo privo anche solo di un semplice straccio di disegno politico utile a fronteggiare una vicenda epocale e complessa come quella dei flussi migratori dal Sud del mondo, sceglie infatti la scorciatoia autarchica di ridurre la questione a un regolamento di conti con le Organizzazioni non governative, già additate a feticcio di campagna elettorale. E, per farlo e per giustificare il ricorso allo strumento della decretazione di urgenza, trasforma le attività di soccorso umanitario nel basso Tirreno in potenziale minaccia all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale.
Anche a dispetto del dato oggettivo che le vuole responsabili soltanto di un modesto 11 per cento del totale degli arrivi di migranti nel nostro Paese. Di più: nel farlo, impone per legge norme di comportamento e relative sanzioni che hanno una funzione esclusivamente afflittiva. Non dunque quella – ragionevole – di incardinare il soccorso umanitario in una cornice più ampia di coordinamento del soccorso in mare. Ma, più crudelmente, di rendere quell’attività umanitaria sempre più difficile. Se non impossibile. Con un unico risultato: svuotare il Mediterraneo di occhi e orecchie in grado di testimoniare o anche solo di provare a impedire che il nostro mare continui ad essere un immane e silenzioso cimitero di innocenti.
Né è utile a ripulire il decreto dall’odioso cinismo che lo ispira l’affermazione, ripetuta dal governo dal giorno uno del suo insediamento, che le nuove norme siano necessarie a colmare un vuoto regolamentare di cui le Ong avrebbero abusato nelle loro operazioni di soccorso. Per un semplice motivo. Che un codice di comportamento “pattizio” tra Stati e Ong esiste da tempo, è stato adottato dai 27 Paesi dell’Ue ed è regolarmente richiamato in ogni summit dedicato al tema dei migranti.
Il ministro dell’Interno sa bene che il decreto che rende impossibile la vita agli equipaggi delle navi delle Ong non solo non risolve il tema dei flussi e degli sbarchi (la cui geografia si è per altro modificata nel tempo, come testimonia l’aumento degli approdi sulle coste calabresi). Ma, soprattutto, sa bene, per esperienza, che non esiste una “via italiana” alla questione migratoria. Mettere dunque la faccia e il suo nome su questa misura non solo non gli renderà il lavoro più agevole ma, se possibile, glielo renderà ancora più complicato.
Il messaggio che, da ieri sera, Meloni torna a mandare all’Europa è infatti quello di un Paese, l’Italia, la cui supponenza autarchica è pari solo al suo isolamento. Introdurre la possibilità di chiedere asilo politico al Paese la cui bandiera batte la nave Ong, battezzare come “porto sicuro” l’approdo possibilmente più lontano dal punto di primo salvataggio, serve infatti solo a riproporre un’idea infantile, coatta, dei rapporti tra Stati partner in Europa. Per altro, dimostrando di non aver imparato nulla dalla crisi con Francia e Germania del mese scorso. Quando il braccio di ferro con Parigi e Berlino è servito solo a non ottenere alcunché in sede europea e a ricacciare in fondo all’agenda di Bruxelles il tema dei migranti.
È quello che accade a chi, come Meloni, si illude che il vuoto pneumatico di visione, progetto e ascolto di un governo, possa essere riempito, appunto, da qualche norma di bandiera da agitare di fronte agli occhi della propria base elettorale. Soprattutto se accompagnata da qualche indecente spin da veicolare sui social. Sarebbe confortante sapere che qualcuno, a Palazzo Chigi, abbia la voglia e la forza di bucare la bolla di devozione narcisista in cui la premier è assisa per interrompere questa drammatica coazione a ripetere. Che oggi misuriamo sui migranti e, da domani, misureremo con la minaccia che il Covid torna a portare alle nostre esistenze. Ma questo presupporrebbe la consapevolezza che un governo, per quanto politico, ha il dovere di rispondere anche e soprattutto a chi non lo ha scelto ed opera in un quadro che non è delimitato soltanto dalle nostre acque territoriali o dai nostri confini terrestri.
Evidentemente, non accadrà. Nel frattempo, potremo addormentarci ogni sera sapendo che abbiamo reso la roulette russa con la vita di chi prende il mare fuggendo dalla disperazione una sfida ancora più impari. Che poi saperci feroci non ci avrà reso più forti è naturalmente un dettaglio.
fonte: La Repubblica su Ristretti Orizzonti