Preoccupa e sconforta la presa di posizione del ministro dell’Interno e della ministra per la Famiglia riguardo al mantenimento della dicitura “padre – madre” nelle carte d’identità.
Lo scorso mese il Tribunale di Roma si era pronunciato, accogliendolo, sul ricorso di due donne, madri di una bambina, che chiedevano il ripristino della dicitura “genitori”, così come previsto prima del 2018 e del decreto del ministero dell’Interno del primo governo Conte: la dicitura che fa riferimento al genere dei due genitori costringe infatti i genitori stessi (e l’ufficiale di stato civile) a un’alternativa tra il commettere un falso ideologico o rinunciare al documento d’identità, con conseguente limitazione del diritto del minore e dei suoi genitori alla libera circolazione.
Due principi, quello dell’interesse superiore del minore alla vita familiare e a veder riconosciuti entrambi i genitori e quello alla libera circolazione nello spazio europeo, richiamati sia dalla Corte Costituzionale in recenti sentenze che dalla Commissione europea nella sua proposta di Regolamento che prevede che il riconoscimento dello status di “genitori” e “figlio/a”, nello Stato di nascita comporti l’acquisizione di tale status in tutti i paesi dell’Unione.
Avevamo dunque salutato con estremo favore la sentenza del Tribunale che imponeva il ritorno alla dicitura pienamente inclusiva di “genitori”, mettendo fine a una posizione soltanto ideologica e lesiva dei diritti del minore e dei genitori coinvolti.
La precisazione, di cui apprendiamo da un’intervista rilasciata dalla ministra per la Famiglia, lascia interdetti sia per la mancata presa in carico del principio generale a sostegno della sentenza, assumendo che quella pronuncia riguarda esclusivamente il caso di specie e che non verrà dunque modificato il software per il rilascio delle carte d’identità elettroniche, che per l’esplicitazione disinvolta e inequivocabile delle conseguenze di una posizione di tal fatta. La ministra nella stessa intervista invita infatti chi si sentisse leso nei suoi diritti da quella dicitura a promuovere a sua volta un ricorso.
Siamo di fronte da un lato a un palese tentativo di dissuasione e dall’altro a un’inaccettabile violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge: considerato che il costo per promuovere un’azione legale di questo tipo va dai 6 ai 12 mila euro, è evidente che moltissimi genitori saranno costretti a rinunciare e che il riconoscimento dei diritti del minore avverrà dunque in maniera diseguale sulla base della ricchezza familiare.
Riteniamo irricevibile una posizione di questo genere. Auspichiamo un ripensamento che si faccia carico in maniera piena e uguale per tutte e tutti del principio contenuto in quella pronuncia e nelle richiamate sentenze della Consulta: quel che deve essere tutelato è il superiore interesse del minore alla vita familiare e al riconoscimento di entrambe le figure genitoriali, oltre al diritto alla libera circolazione suo e della sua famiglia.
Sandro Gallittu è responsabile dell’ufficio Nuovi diritti della Cgil nazionale