Quando il datore di lavoro è una famiglia. di Emilio Reyneri

Le persone che lavorano per le famiglie, per lo più stranieri, sono di gran lunga il gruppo più importante di occupati non regolari. Tra gli impegni del Pnrr c’è la riduzione del lavoro irregolare. Gli interventi per farlo vanno disegnati con attenzione.

I numeri del lavoro domestico e di cura

Dopo Cipro, l’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di lavoratori il cui datore di lavoro è una famiglia, secondo le indagini sulle forze di lavoro Eurostat. Nel 2020 ben il 3,6 per cento dei dipendenti è costituito da lavoratori (o meglio sarebbe dire lavoratrici, perché per quasi il 90 per cento sono donne) che aiutano le famiglie nei lavori domestici o si prendono cura delle persone anziane. Più che agli aspetti culturali, ciò si può attribuire al costo del lavoro molto basso, anche per la diffusissima evasione contributiva, ma soprattutto alla grave carenza dei servizi alle famiglie, pubblici e privati: l’Italia è, dopo la Grecia, il paese dell’Europa occidentale ove minore è la percentuale di occupati nei servizi sociali rispetto alla popolazione.

Figura 1

Per lo più stranieri

Secondo l’indagine Istat sulle forze lavoro, poco meno del 70 per cento di chi dichiara di svolgere un lavoro domestico o di cura non ha la cittadinanza italiana: dei circa 740 mila occupati, quasi 170 mila sono cittadini di un altro paese dell’Unione europea (per lo più dell’Est) e oltre 340 mila hanno la nazionalità di un paese non Unione europea. Per di più il dato è molto sottostimato sia perché parecchie persone che lavorano poche ore o in modo irregolare si dichiarano inattive, sia perché il campione dell’indagine è tratto dalle famiglie registrate nelle anagrafi e quindi non comprende le persone occupate non legalmente residenti, tra le quali moltissime lavorano in nero per le famiglie, come risulta da tutte le sanatorie degli immigrati irregolari. Anche nell’ultima, avviata nel 2020, tra le domande presentate, oltre l’85 per cento riguardava il lavoro domestico.

Una diffusissima irregolarità della condizione lavorativa

Si comprende perché nelle stime di contabilità nazionale, che includono anche gli immigrati che lavorano senza permesso di soggiorno, gli/le occupati/e alle dipendenze da una famiglia ammontino a quasi 1.500.000, con un tasso di irregolarità che supera il 52 per cento. Pertanto, coloro che lavorano in nero per una famiglia costituiscono il 39 per cento dei dipendenti senza un regolare rapporto di lavoro e il 26 per cento di tutti i lavoratori in nero, indipendenti compresi.

Tre le conclusioni che si possono trarre:

a. il fortissimo sfasamento tra le stime di contabilità nazionale e le rilevazioni delle forze di lavoro, non registrato per altri settori, conferma che tra chi lavora in nero per le famiglie molti sono immigrati/e senza permesso di soggiorno (che nel complesso nel 2019 sono stimati in oltre 500 mila, un livello inferiore solo a quello raggiunto negli anni 2000 prima delle grandi sanatorie);

b. coloro che lavorano per le famiglie costituiscono di gran lunga il gruppo più importante di occupati non regolari;

c. escludendo costoro, il tasso di irregolarità del lavoro dipendente in Italia si ridurrebbe di ben 2 punti percentuali, dall’11 al 9 per cento.

Problemi non facili da risolvere

Nella vecchia stagione di lotta al lavoro nero, dal 1999 al 2002, conclusasi con esiti deludenti secondo le stime di contabilità nazionale e i rari studi che ne hanno tentato una valutazione (la riduzione del tasso di irregolarità, infatti, dipese tutta dalle imponenti sanatorie dell’immigrazione), l’accento era posto solo sul lavoro in agricoltura, nelle costruzioni e nella manifattura. Ora, poiché tra gli impegni presi per il Piano nazionale di ripresa e resilienza vi è quello di ridurre di 2 punti percentuali la percentuale di lavoro irregolare (ora oltre il 12 per cento, la più alta dell’Europa occidentale), in un mercato del lavoro sempre più terziarizzato, non è più possibile trascurare interventi sul lavoro per le famiglie. Ma questi interventi devono presentare caratteristiche particolari, poiché l’impossibilità di entrare nelle case impedisce la tradizionale politica di contrasto fondata sulle ispezioni.

1. Molte domestiche e badanti non possono avere un contratto di lavoro perché senza permesso di soggiorno, dunque occorre: a. permettere allo straniero irregolare da un certo periodo di tempo di regolarizzare lo status giuridico in presenza di un datore di lavoro disposto ad assumerlo (una sorta di sanatoria permanente); b. prevedere l’ingresso per ricerca di lavoro grazie a una famiglia-sponsor che offra adeguate garanzie (procedura già prevista, ma abolita dopo un solo anno). Politiche verso l’immigrazione permettendo, cosa non facile nell’attuale situazione governativa.

2. Occorre che l’Inps costruisca un sito dedicato (o meglio ancora una app, come in altri paesi anche non europei), ove una famiglia possa facilmente gestire le assunzioni. Oggi il sito Inps è di difficile accesso e per nulla rivolto all’utente. In particolare, dovrebbe essere di diretto e facile accesso e uso il Libretto famiglia, un sistema di voucher quasi sconosciuto, i cui limiti potrebbero anche essere innalzati per renderlo più simile al modello francese.

3. Non occorre aumentare gli sgravi fiscali, poiché i contributi previdenziali per il lavoro domestico sono bassi e già parzialmente deducibili dalla dichiarazione dei redditi del datore di lavoro, anche se la norma è quasi sconosciuta dalle famiglie. Ulteriori sgravi potrebbero esser previsti in caso di necessità e per famiglie a medio-basso reddito.

4. Chi lavorava in nero rischia di dover pagare al fisco somme elevate per le imposte evase in caso di emersione del rapporto: quel pagamento andrebbe attribuito interamente al datore di lavoro. Così si ridurrebbe il rischio di connivenza tra lavoratore/lavoratrice in nero e famiglia e aumenterebbe la deterrenza.

5. Attualmente l’indennità di accompagnamento in caso di disabilità è erogata alla famiglia senza alcun vincolo di utilizzo. Invece, come in molti paesi europei, potrebbe in tutto o in parte essere vincolata all’assunzione regolare di personale o al pagamento di rette per case di riposo. Una norma simile già vige per alcune erogazioni aggiuntive in Emilia-Romagna.

6. Secondo il modello adottato dall’Agenzia delle entrate, l’Inps dovrebbe applicare una azione di compliance verso le famiglie, identificando quelle con caratteristiche di necessità e di reddito tali per cui potrebbero aver assunto in nero domestiche o badanti e inviando loro lettere di attenzione e di sollecito a mettersi in regola. Ovviamente, norme sulla privacy permettendo.

7. Infine, si può sperare che il Pnrr consenta di aumentare l’offerta di servizi sociali per l’infanzia (asili nido) e gli anziani (case di riposo) e così di ridurre l’abnorme ricorso di parte delle famiglie a personale per il lavoro domestico e di cura.

fonte: lavoce.info

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