Il guardasigilli perde l’occasione di dare un segnale di discontinuità e a capo delle carceri indica un magistrato politicamente più vicino. Ma sarà in linea con il suo programma di riforme sulla giustizia?
Avrebbe potuto dare un segnale di discontinuità politica, magari scegliere una persona affine a sé per pensiero sulla giustizia e sul carcere, proprio come è l’attuale capo del Dap Carlo Renoldi. Invece il ministro Carlo Nordio ha preferito, a quanto pare, restare nell’alveo della tradizione, di destra e di sinistra, e pensare di nominare per l’incarico più ambito del ministero di giustizia, un magistrato contiguo politicamente.
Giovanni Russo è un esponente di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice delle toghe, decisamente più affine a un governo di centrodestra, e in particolare al mondo della premier Giorgia Meloni, il cui partito ha eletto Nordio in parlamento, prima ancora di sponsorizzarlo per il governo. E Renoldi non solo è di sinistra, ma così garantista da aver stuzzicato la sua stessa parte politica proprio su qualcosa di intoccabile come l’antimafia militante, quella che si ricorda di Giovanni Falcone come del quadretto da tenere sul muro dietro la scrivania e metterlo bene in evidenza durante qualche collegamento tv, piuttosto che apprezzarlo per la sua visione di politica giudiziaria. Per esempio sulla separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale.
Ma il guardasigilli con questa scelta di occasioni ne perderà due. La prima è da “peccato veniale”. Perché in fondo l’alternanza sinistra-destra non toglie nulla al valore professionale di ambedue le toghe. Del dottor Renoldi sappiamo che è stato per dieci anni giudice di sorveglianza a Cagliari, che ha fatto parte di una commissione per l’ordinamento penitenziario e che sullo stesso tema ha sollevato questioni di costituzionalità che la Corte ha accolto.
In questi pochi mesi dalla sua nomina, da quando lo aveva scelto la ministra Cartabia il 27 febbraio di quest’anno, non ha avuto modo ancora di mostrare le sue doti di riformatore. Ha anche dovuto affrontare il dramma di una vera strage di circa 80 suicidi all’interno delle carceri. Ma è comunque uno che conosce l’istituzione cui ha dedicato una parte della sua carriera di giudice. Giudice, per l’appunto, non pubblico ministero.
E qui entriamo in area “peccato mortale”. Perché il dottor Russo altri non è se non il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, il braccio destro di Giovanni Melillo. Non è difficile quindi intuirne la mentalità, la cultura. Perché è molto difficile ricoprire un ruolo di tale prestigio e importanza e non avere come proprio orizzonte culturale quello della sicurezza. Intendiamoci, il carcere è un luogo di custodia di circa 60.000 detenuti e con 40.000 agenti di polizia penitenziaria, ovvio che debba essere un luogo sicuro.
Ma la Costituzione non dice questo, dice invece che i soggetti che si occupano di coloro che devono scontare una pena debbano prima di tutto prendersene cura, e rieducarli fino a riuscire a riammetterli nella società civile. Giustizia riparativa, ha sempre sostenuto la ministra Cartabia, e con lei una parte del mondo giuridico, laico e cattolico. Ricucire, dovrebbe essere la parola d’ordine di chi deve gestire le prigioni.
È in grado un pubblico ministero, uno che di mestiere fa l’accusatore, e in particolare un magistrato “antimafia”, di assumere la veste del riformatore, fino a mettere in discussione la funzione rieducatrice del 41-bis? Carlo Renoldi sicuramente lo era, non perché era di sinistra, ma perché conosceva da prima il mondo che era stato chiamato a governare, perché non confondeva il reo con il reato ed era pronto a scommettere sulla realizzazione, in gran parte, dell’articolo 27 della Costituzione.
È una questione di mentalità. Prima ancora che di cultura politica. Infatti proprio da sinistra, oltre che dal Fatto, dai grillini e una parte del centrodestra, erano arrivati i siluri, sempre nel nome di Falcone e Borsellino, ma in realtà dell’antimafia militante. Tanto che Carlo Renoldi era stato costretto, prima ancora di essere nominato a capo del Dap, a una sorta di autodafé che desse garanzie ai dispensatori di purghe di destra e di sinistra.
Ma non sarebbe giusto, e non è nelle nostre intenzioni né abitudini, processare preventivamente il dottor Giovanni Russo, di cui conosciamo per ora solo il curriculum e la storia professionale. Oltre che una parte di quella familiare, perché la stampa più virtuosa e informata ci ha già segnalato che il prossimo capo del Dap è fratello di un ex parlamentare di Forza Italia, ora passato, anche a causa dei suoi legami politici con Mara Carfagna, al partito di Carlo Calenda. Che cosa dovremmo dedurre da questa, secondo noi inutile, notizia? Che anche il fratello potrebbe esser stato marchiato dall’infamia della vicinanza a Berlusconi? O al contrario che questa contiguità potrebbe avergli inoculato il seme del garantismo? Ma i principi dello Stato di diritto dovrebbero essere la stella polare di ogni magistrato, quindi siamo certi che lo siano anche per il dottor Russo. Cui facciamo i migliori auguri di buon lavoro, come avevamo già fatto con il suo predecessore.
Quel che ci preoccupa è invece il nostro vizio della memoria. Che ci riporta alle serate della domenica in cui nelle trasmissioni di Massimo Giletti veniva messo alla berlina il capo del Dap Francesco Basentini, reo non solo di aver emesso una circolare per salvare la vita a un po’ di detenuti nel momento tragico dell’epidemia da covid, ma soprattutto di non essere Nino Di Matteo. Cioè colui cui il ministro Bonafede aveva in un primo momento promesso quell’incarico. Lo stesso guardasigilli era guardato con il sospetto che avesse cambiato idea perché intimorito dalla mafia. Brutti tempi, allora. Ma non sono mai tempi tranquillizzanti quelli in cui si rischia di estendere anche a quel 90% di detenuti che nulla hanno a che fare con le cosche il regime di sicurezza da camicia di forza, quello del 4-bis e del 41-bis.
Perché, anche se formalmente non è così, il pericolo c’è, se gli occhi di chi deve governare le prigioni sono abituati a vedere in un solo modo. Ci dispiace, ministro Nordio, perché noi del Riformista siamo suoi estimatori, e ci dispiace anche per un alto magistrato come il dottor Russo che non conosciamo, ma temiamo che questa scelta possa rivelarsi poco in linea con il suo programma di riforme sulla giustizia. Saremo felicissimi di esserci sbagliati.
fonte: Il Riformista – Ristretti Orizzonti