Il movimento della bioetica è riuscito a mettere al centro dell’attenzione il tema della dignità nell’ambito della cura. Ha definitivamente esautorato il paternalismo che autorizzava a definire il bene dell’altro, identificato come tale da qualcun altro, senza ascoltare la persona interessata. La buona cura non può prescindere dal coinvolgimento di chi la riceve: è il principio cardine dell’autodeterminazione
Risparmiamoci l’ardua impresa di definire la dignità. Limitiamoci a evocare le associazioni mentali suscitate dai diversi contesti in cui si fa appello ad essa. L’attenzione si sposta quindi sul suo significato connotativo, piuttosto che su quello denotativo. Se la dignità viene menzionata in un contesto politico-culturale – esemplarmente, l’art. 3 della Costituzione italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”; o la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “L’unico e sufficiente titolo necessario per il riconoscimento della dignità di un individuo è la sua partecipazione alla comune umanità” – l’associamo a diritti esigibili e a rivendicazioni. Diversamente avviene quando si fa appello alla dignità in un contesto di cura: il pensiero corre a trattamenti che sono indiziati di offendere la dignità di una persona.
Ci sono domande trasversali, che sono pertinenti per i diversi contesti in cui si fa appello alla dignità. A cominciare da quella relativa a chi ha il potere di proclamare che cosa promuove o ferisce la dignità di una persona. Definire la dignità di un altro può essere un esercizio di smaccato paternalismo. Soprattutto quando si tratta di un’”altra”, e a tracciare il perimetro della dignità è un maschio. “Vogliamo che le nostre sorelle vivano con dignità”: è il programma proclamato dal Ministero per la repressione del vizio e la promozione della virtù in Iran. Conosciamo le conseguenze di questa missione politico-religiosa nella vita delle donne di quel paese; compreso che cosa può succedere a quelle che lasciano sfuggire una ciocca di capelli dal velo…
Il ricorso alla dignità è adottato anche da visioni etiche di stampo fondamentalista. Quando altri criteri per definire il confine tra ciò che è etico e ciò che non lo è non risultano convincenti (con argomentazioni che fanno ricorso alla volontà di Dio, alla natura umana, alle esigenze della persona…), l’appello alla dignità da difendere è l’abito sociale che riveste l’etica ideologica. Come contrari alla dignità vengono così condannati comportamenti che non si condividono, come – per rimanere in ambito medico – le coppie omogenitoriali, la gestazione per altri, il suicidio medicalmente assistito. In questi casi la dignità, definita unilateralmente, diventa un criterio per escludere determinate scelte inviduali; si presenta come “non negoziabile”, così come i principi nelle visioni etiche fondamentaliste.
Siamo di fronte alla dignità definita dall’alto, per conto terzi, ovvero: “ti dico che cosa è degno o non degno per te”. Un’altra importante dimensione è l’ampiezza dello sguardo che definisce la dignità. Dei problemi complessi possono essere sezionati in parti ridotte, nelle quali si concentra l’attenzione in modo esclusivo: quella che interessa viene identificata come portatrice della dignità, il resto è ignorato. Dave Barnhardt, pastore di una chiesa metodista in Alabama, ne ha fatto l’oggetto di un intervento polemico nei confronti di questa griglia, adottata da non pochi antiabortisti: considerano solo la difesa del feto e si disinteressano di ciò che fa seguito alla nascita (povertà, mancanza di istruzione, carenza di cure sanitarie…). Con le sue parole:
“I non nati sono un gruppo di persone che è comodo difendere. Non ti chiedono mai nulla; a differenza dei carcerati, dei tossicodipendenti o dei poveri, dal punto di vista morale non presentano complicazioni. A differenza degli orfani, non hanno bisogno di soldi, istruzione o assistenza. Ti permettono di sentirti bene con te stesso senza dover fare lo sforzo di creare o mantenere relazioni. E quando sono nati puoi scordarteli, perché smettono di essere non nati. È quasi come se, nascendo, per te morissero. Puoi amare i non nati e difenderli senza sostanzialmente mettere in discussione la tua ricchezza, senza dover ripensare le strutture sociali, senza dover chiedere scusa o risarcire nessuno”.
Considerazioni analoghe si potrebbero fare sul versante del fine vita. La condanna morale del suicidio medicalmente assistito, in quanto offende la dignità della persona, è confinata solo in ciò che avviene nello scenario sanitario, ignorando i suicidi in carcere, a causa dell’invivibilità delle condizioni di detenzione. Adottando il punto di vista del pastore Barnhardt, quando il richiamo alla dignità isola una piccola parte e deliberatamente rifiuta la visione d’insieme, è associabile all’ipocrisia morale. Quanto meno il procedimento può essere indiziato come un espediente per andare a letto con buona coscienza e fare sonni tranquilli…
La promozione onesta della dignità richiede anzitutto la rinuncia a concepirla come un esercizio di potere su un’altra persona. In secondo luogo esige che i comportamenti siano collocati nel contesto ampio – e non di rado contraddittorio – in cui la vita reale ci viene incontro. Dobbiamo riconoscere che il movimento della bioetica è ampiamente riuscito a introdurre l’attenzione a questi aspetti nell’ambito della cura. Ha definitivamente esautorato il paternalismo che autorizzava a definire il bene dell’altro, identificato come tale da qualcun altro, senza ascoltare la persona interessata. La buona cura non può prescindere dal coinvolgimento di chi la riceve: è il principio cardine dell’autodeterminazione. Ricevere la cura in modo passivo – a meno che questa non sia un’esplicita opzione della persona stessa – è contrario alla dignità di chi è curato.
Questa visione schematica si scontra con la complessità delle situazioni che danno vita all’intreccio delle relazioni personali. Il modello della doppia informazione – una accomodata e rassicurante al malato, un’altra veritiera al familiare – anche se delegittimata dalle revisioni più recenti del codice deontologico dei medici, socialmente è ancora praticata. È richiesto talvolta dai caregiver stessi al curante. Le informazioni e le decisioni cliniche gestite alle spalle del malato, che sia in grado e voglia essere protagonista attivo del suo percorso di cura, sono da considerare un’offesa alla sua dignità. Significa trattarlo come un bambino o come un demente, svalutando il suo stato di persona responsabile.
Dal punto di vista giuridico la condizione della persona malata nel segmento finale della vita è stata, almeno formalmente, sancita dal riconoscimento del valore delle disposizioni anticipate di trattamento. Molto più complessa è la condizione dei minori. Proprio lo stato di minorità li predispone a essere destinatari delle decisioni che altri prenderanno per loro, interpretando il loro miglior interesse (best interest). Purtroppo anche in questo scenario può aver luogo una specie di “eterogenesi dei fini”: misure prese per amore, con le migliori intenzioni, possono di fatto recar danno al minore, oggetto della cura.
Queste considerazioni ci hanno condotto nel terreno delle decisioni cliniche, dove è necessaria una visione larga e complessa. È il secondo apporto della bioetica rispetto all’etica medica tradizionale: ci confronta con una buona cura tridimensionale. Per dare un giudizio positivo non è più sufficiente, come in passato, che l’intervento produca un beneficio di salute. La buona cura deve essere contemporaneamente misurata con tre parametri. Si tratta dei tre principi di beneficialità (il trattamento non deve essere nocivo e deve in ogni caso produrre un beneficio di salute, valutato con i criteri della più solida scientificità), di rispetto dell’autonomia personale (parametro più delicato da considerare, quando si tratta di persone che per età non hanno ancora raggiunto il diritto all’autodeterminazione o per il decadimento cognitivo abbiano perduto questa facoltà) e di giustizia ed equità sociale nell’allocazione delle risorse. La tridimensionalità è stata fatta propria dal codice deontologico dei medici italiani, quando esplicita il compito del medico: “Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse” (versione del 2006). I tre principi: beneficialità, autonomia e giustizia sono qui allineati e ugualmente rilevanti per valutare eticamente la qualità della cura.
Da questa complessità nasce la consapevolezza che le situazioni difficili, che coinvolgono più protagonisti – i clinici, il malato, i caregiver, gli amministratori sanitari – richiedono un approfondito confronto. Ancor più: esigono una “competenza comunicativa”, come l’ha definita la conferenza di consenso dell’Istituto Superiore di Sanità: “Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale”. Da tempo i comitati per la pratica clinica sono stati individuati come luoghi ideali per questo confronto costruttivo e per un percorso verso una decisione condivisa. Di recente il Comitato Nazionale per la Bioetica con il documento Vulnerabilità e cura nel welfare di comunità. Il ruolo dello spazio etico per il dibattito pubblico (10 dicembre 2021) ha rilanciato la necessità di strutture che si profilino come luogo di ascolto, di incontro, di scambio di esperienze. Solo questa modalità di confronto può salvare la dignità delle persone che si confrontano in ambito clinico.
fonte: saluteinternazionale.info