Il 18 di novembre ricorreva la Giornata europea degli antibiotici, indetta dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (European Centre for Disease Prevention and Control, ECDC) nell’ambito della più ampia World Antibiotics Awareness week (18-24 novembre) promossa da OMS, FAO, UNEP e OIE (Office International des Epizooties): il tema dell’edizione 2022 era la diffusione della consapevolezza per frenare l’antibiotico resistenza.
La specie umana è sicuramente debitrice della sua longevità allo sviluppo (nella seconda metà del XX secolo) degli antibiotici, ma il loro uso protratto ha finito per selezionare l’emergenza, la moltiplicazione e la diffusione di ceppi batterici che producono enzimi in grado di vanificarne l’azione. Il fenomeno dell’antibiotico resistenza (AMR, Antimicrobial Resistance) è via via aumentato, soprattutto a livello ospedaliero ma anche nelle comunità, fino a richiedere la messa a punto di interventi istituzionali per monitorarlo, tra i quali nel 2010, in Europa, la rete di sorveglianza EARS-Net (European Antimicrobial Resisitance Surveillance Network) e, a livello planetario, il progetto GLASS (Global Antimicrobial Resistance Surveillance System), lanciato dall’OMS nel 2015 e che ora coinvolge 109 paesi.
Dal 2017, l’Unione Europea combatte l’antibiotico resistenza con un approccio “One Health” che considera in modo integrato la salute degli umani, degli altri animali e dell’ambiente e i cui intenti sono reperibili sul sito dell’ECDC, alla pagina Surveillance Atlas of Infectious Diseases.
In Italia, il “Piano nazionale di contrasto dell’antimicrobico-resistenza” (PNCAR) si avvale di una rete di laboratori ospedalieri di microbiologia (attualmente, 153 in 20 regioni), coordinata dall’Istituto superiore di sanità (ISS), che sorveglia il comportamento di un gruppo selezionato di batteri isolati da infezioni clinicamente rilevanti acquisite sia in comunità (come Streptococcus pneumoniae) sia in ambiente di ricovero, dove causano ogni tipo di infezioni, comprese endocarditi, infezioni di ferite e sepsi (come Staphylococcus aureus, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa, Escherichia coli, Acinetobacter baumannii, Enterococcus faecium ed E. faecalis).
Questa mole di iniziative ha portato qualche frutto: il consumo di antibiotici (misurato in “Defined Daily Dose”, DDD, ossia dose media giornaliera presunta per adulti) che per il 90% avviene in comunità, tra il 2011 e il 2020 è diminuito di un quinto, grazie sia al miglioramento della cultura prescrittiva dei medici, sia alle misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19, che hanno evitato la circolazione anche delle altre malattie virali che, impropriamente, inducevano l’assunzione di antibiotici. È però allarmante l’aumento relativo dell’uso di antibiotici ad ampio spettro, diventato 3,5 volte superiore a quello degli antibiotici a spettro ridotto, indicati come terapia di prima linea.
Negli animali d’allevamento, il consumo di antibiotici è diminuito del 43% e, nella prospettiva One Health, il regolamento l’UE richiede di ridurlo del 50% entro il 2030, sostituendo i farmaci, ove possibile, con vaccini, probiotici, prebiotici, batteriofagi e acidi organici.
La portata del fenomeno dell’antibiotico resistenza a livello globale resta, però, consistente: una Review on Antimicrobial Resistance, commissionata nel 2016 dal governo britannico, ha stimato che entro il 2050 potrebbero morire fino a 10 milioni di persone l’anno per inefficacia degli antibiotici nelle sindromi infettive batteriche. Tale previsione, seppure non unanimemente condivisa, ha indotto L’OMS a definire l’antibiotico resistenza batterica un’emergenza globale.
Perché le previsioni siano accurate (permettendo la messa a punto di misure per scongiurarle) è necessario avere informazioni precise sul fenomeno della resistenza in un’ampia gamma di agenti patogeni e di combinazioni tra agenti patogeni e farmaci, in tutte le regioni del mondo, che finora non esistevano. I Centers for Disease Control and Prevention (CDC) avevano pubblicato nel 2019 un rapporto sulle infezioni e sui decessi da antibiotico resistenza negli Stati Uniti per 18 batteri e, in anni precedenti, studi simili erano stati condotti per la regione europea, la Thailandia e, limitatamente a Klebsiella pneumoniae, per 193 paesi, ma erano scarsamente disponibili dati di alta qualità su malattie infettive, agenti patogeni e resistenza antimicrobica nei paesi a basso reddito. Di questi paesi, erano anche pressoché ignoti persino i dati di mortalità per infezione batterica.
Assume, quindi, grande importanza la pubblicazione su Lancet di due studi, finanziati dalla Bill & Melinda Gates Foundation, da Wellcome Trust e dal Department of Health and Social Care britannico, il più recente dei quali rimedia a questa carenza informativa con un’indagine su 33 patogeni batterici (sensibili e non sensibili agli antibiotici) responsabili di 11 sindromi infettive e di una morte ogni sette in 204 paesi e territori. Dalla rilevazione emerge che, nel 2019, cinque di questi batteri (Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa) sono stati responsabili di più della metà dei decessi per infezione batterica. Dal computo è stato escluso il micobatterio della TBC, che costituisce un’emergenza a sé stante.
Il secondo studio ha calcolato, negli stessi paesi e nello stesso anno, l’eccesso di rischio di morte o di durata dell’infezione (il cosiddetto “carico di malattia”) associato alla resistenza agli antibiotici per 23 agenti patogeni batterici e per 88 combinazioni patogeno-farmaco. L’indagine si è basata sulle stime d’incidenza, prevalenza e mortalità 1990-2019 di 369 malattie del Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study, oltre che su revisioni sistematiche della letteratura, reti di sorveglianza di aziende farmaceutiche e di laboratori diagnostici, database di istituti di ricerca con sede in paesi a basso e medio reddito e sistemi di sorveglianza specifici per microrganismi quali Mycobacterium tuberculosis e Neisseria gonorrhoeae. Sono stati così raccolti centinaia di milioni di report individuali, poi disaggregati per età, genere e regione del mondo, che hanno permesso di stimare il carico di malattia connesso alla resistenza microbica per 12 principali sindromi infettive batteriche: respiratorie inferiori, ematologiche, peritonali, intra-addominali (in ordine decrescente di letalità) e, a seguire, le altre (urinarie, di cute e sottocute, del sistema nervoso centrale, del cuore, delle ossa e articolazioni dell’apparato riproduttivo, tifo, paratifo e diarroiche). L’antibiotico resistenza dei batteri mina la salute e la sopravvivenza in misura pari (o, forse, maggiore) di HIV e malaria, in tutto il pianeta: nel 2019, circa 4,95 milioni di decessi erano “associati” alla resistenza batterica e, di essi, 1,27 milioni erano “direttamente attribuibili” a essa.
Il carico di malattia da antibiotico resistenza differiva, però, tra le nazioni: in quelle ad alto reddito, circa la metà dei casi era legata a S. aureus e a E coli, mentre, nell’Africa subsahariana, era più omogeneamente distribuita. Va notato che quest’ultima regione, a fronte di una prevalenza relativamente bassa di resistenza batterica, aveva, nel 2019, un tasso di decessi per cause infettive talmente elevato (230 per 100.000 abitanti versus 52,2 per 100.000 abitanti dei paesi ad alto reddito) da renderla, insieme all’Asia meridionale, il luogo del mondo con i tassi di mortalità più alti.
Il maggior consumo di antibiotici in contesti con risorse elevate non corrisponde a un più alto carico di malattia per resistenza batterica; questa apparente incongruenza è spiegata dal fatto che il carico di malattia è funzione sia della prevalenza della resistenza batterica sia della frequenza di infezioni critiche, che è maggiore nei paesi poveri, nei quali incidono anche la mancanza di infrastrutture di laboratorio, che rende difficili i test microbiologici, l’accesso inadeguato ai servizi di secondo livello e agli antibiotici di terza linea, la scarsa igiene e l’uso di antibiotici contraffatti o scadenti.
La resistenza antimicrobica è, perciò, un problema globale, ma che richiede un’azione di risposta personalizzata a livello nazionale. Limitare l’accesso agli antibiotici non è una risposta adeguata alla resistenza antimicrobica in tutti i contesti: in alcuni luoghi (come l’Africa subsahariana occidentale), in cui gli antibiotici mancano, un aumento della loro disponibilità salverebbe molte vite, mentre una loro limitazione sarebbe vantaggiosa nell’Asia meridionale, dove l’uso eccessivo o improprio di antibiotici è una delle principali cause della resistenza antimicrobica. Le strategie per contrastare la resistenza batterica sono varie. La prima di esse è la prevenzione primaria (o, almeno, il controllo) delle infezioni tramite la fornitura generalizzata di acqua potabile, fognature, servizi sanitari e igienici. In secondo luogo, la prevenzione delle infezioni passa dalle vaccinazioni: è disponibile il vaccino solo per uno dei sei principali agenti patogeni (Streptococcus pneumoniae), ma sono in fase di sviluppo vaccinazioni per Staphilococcus aureus, Escherichia coli e altri; va tenuto conto che anche i vaccini contro i virus (influenza, rotavirus, ora SARS-Cov-2), prevenendo le malattie febbrili, possono far diminuire la prescrizione di antibiotici e contribuire a ridurre la resistenza di batteri per i quali i vaccini non esistono ancora.
In terzo luogo, va ridotta l’esposizione agli antibiotici usati in agricoltura e nell’allevamento animale, che probabilmente contribuisce alla resistenza antimicrobica negli esseri umani.
In quarto luogo, dovrebbe essere prioritario scoraggiare l’uso di antibiotici nel trattamento delle infezioni virali; per questo scopo, è fondamentale che i medici possano diagnosticare la causa dell’infezione in modo accurato e rapido. Infine, è essenziale investire nello sviluppo di antibiotici nuovi e dare accesso diffuso agli antibiotici di seconda linea ai paesi a basso reddito.
fonte: scienzainrete
Simonetta Pagliani, medico di medicina generale dal 1981, è nata a Milano, dove ha studiato al liceo classico Berchet e poi all’Università Statale. È impegnata della didattica e nella formazione in medicina e collabora da molti anni con l’Agenzia editoriale e giornalistica Zadig.