Se volessimo essere buoni, si potrebbe dire che si tratta di una manovra confusa che dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Da un lato abbassa l’iva su alcuni beni di prima necessità e dall’altro allarga la platea della flat tax fino a 85.000 euro. Questo è uno degli interventi più iniqui di questa manovra, che è chiaramente squilibrata a favore dei lavoratori autonomi e, aggiungo, dei lavoratori autonomi abbienti. Spostando il tetto dell’aliquota del 15 per cento da 65 a 85mila euro si introduce una fortissima iniquità dal punto di vista della tassazione a seconda di come ti guadagni il reddito: se sei un dipendente hai un’aliquota massima del 41%, che scatta già a 50 mila euro, se sei un autonomo hai una tassa al 15 per cento fino a 85mila euro. L’altra misura che dà il segno alla manovra, e che trovo assolutamente scandalosa, è l’aumento del tetto al contante che di fatto è un incoraggiamento a pagare in nero. E non mi riferisco soltanto al lavoro manuale: a chi non è capitato di sentirsi chiedere dal medico “con o senza fattura?”. Per non parlare poi di coloro che pagano in nero i lavoratori con i cosiddetti “fuori busta”. Aumentare il tetto al contante facilita questo tipo di transazioni.
Fra gli interventi più discussi e rilevanti di questa manovra ci sono quelli sul Reddito di cittadinanza, che il governo vuole di fatto demolire. Una delle critiche più diffuse rivolte al Reddito, è che esso faccia concorrenza ai salari, inducendo molti percettori a preferire prendere il reddito di cittadinanza anziché cercare un lavoro.
Ecco, questa è una colossale balla! Ci sarà pure qualcuno che prende l’importo massimo del Reddito che, con la quota dell’affitto, può arrivare a 780 euro, ma l’importo medio è 550 euro a famiglia. Ripeto: 550 euro al mese a famiglia. Ora, che salari abbiamo in mente per pensare che 550 euro al mese possano davvero reggere il confronto con un salario, per quanto basso? Però è vero che non il reddito in sé ma i meccanismi di erogazione del reddito in qualche modo disincentivano la ricerca di un lavoro.
In che senso?
Se mentre prendo il reddito di cittadinanza trovo un lavoro, magari pagato poco ma in maniera regolare, io per ogni euro guadagnato con il lavoro perdo subito 80 centesimi di Rdc, per poi perdere l’euro intero quando farò l’Isee. In altri termini, tutto quello che guadagno con il lavoro viene decurtato dal Reddito. È questo meccanismo, non il reddito in sé, che disincentiva l’occupazione regolare.
Incentivando di riflesso quella in nero…
Certo, perché se io lavoro in nero quello che guadagno non mi viene ovviamente decurtato dal Reddito. Naturalmente questa scelta è piuttosto miope, perché impedisce di accumulare contributi pensionistici, indennità di malattia eccetera, ma comunque le persone in una situazione di necessità preferiscono avere un po’ di più in tasca subito.
E come si scardinano questi meccanismi perversi?
Ci sono due strade. Una, ovvia ma centrale, è quella dei controlli. E non mi riferisco solo ai controlli sui percettori di reddito – attualmente fra le categorie di cittadini più controllate in assoluto, se controllassero così gli evasori avremmo risolto molti problemi… – ma soprattutto controlli sui datori di lavoro. Io insisto moltissimo poi sul fatto che i controlli debbano venire non solo dallo Stato – questo è ovvio – ma anche dalle associazioni di categoria, per rompere la complicità interna che fa chiudere tanti occhi perché tutti guadagnano qualcosa. L’altra strada è la modifica la norma di cui parlavo prima in modo da consentire a chi percepisce il reddito ma nel frattempo ha trovato un lavoro di cumulare (fino a una certa soglia naturalmente) i due redditi, in modo che diventi conveniente per i percettori di reddito lavorare regolarmente. Non dimentichiamo che le persone che percepiscono il reddito sono per la maggior parte persone con basse qualifiche che difficilmente trovano un lavoro, e quando lo trovano è spesso pagato poco e precario. Se a questo aggiungiamo pure che quel poco salario non lo puoi per nulla cumulare con il Reddito, naturalmente il disincentivo è massimo.
Questa è una delle proposte di modifiche al Reddito contenute nella relazione finale del Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza, che lei ha presieduto. Quali sono le altre più rilevanti che andrebbero fatte?
Due in particolare. Innanzitutto, bisognerebbe renderlo più equo per le famiglie numerose con figli minori, che attualmente a causa della scala di equivalenza adottata a parità di Isee sono penalizzate. In secondo luogo, bisognerebbe modificare l’accesso per gli stranieri regolarmente residenti in Italia. Attualmente è necessario essere residenti legalmente in Italia da almeno dieci anni per poter accedere al Reddito, un criterio che taglia fuori moltissimi stranieri regolarmente residenti. Ora, tenendo conto che le famiglie numerose con figli minori e le famiglie di stranieri sono fra le categoria a più alto rischio povertà, si capisce come sia piuttosto insensato che proprio queste categorie siano tagliate fuori o comunque penalizzate da una misura che ha come scopo proprio il sostegno alla povertà.
Ma la coperta è corta e così si amplierebbe la platea dei percettori…
Sì, ma noi avevamo proposito di rimodulare gli importi, abbassando l’importo massimo per una persona sola che, in confronto agli altri Paesi, è piuttosto alto. Insomma, si tratta di spalmare meglio e in maniera più equa i soldi che già sono investiti nel Reddito. Attualmente persino la quota per l’affitto, che è di 280 euro, è data senza tenere conto dell’ampiezza della famiglia. Se nei hai diritto, sia che vivi da solo o sia che siete in cinque in due stanze prendi la quota intera.
Il Reddito di cittadinanza è un sacrosanto sostegno alle persone in difficoltà. Ma il cinico potrebbe chiedere: perché dobbiamo pagare tutti per queste persone? Cosa ci guadagna la collettività?
Innanzitutto ci guadagna in termini di coesione sociale, perché se lasci così tante persone in povertà dopo un po’ la crisi sociale esplode. In secondo luogo, c’è un guadagno in termini di consumi, perché queste famiglie consumano tutto il loro reddito. Infine, c’è un guadagno in termini di risparmi per esempio per il Sistema sanitario nazionale: alcuni studi qualitativi hanno rilevato che alcune famiglie nel Mezzogiorno hanno portato i loro figli dall’oculista o dal dentista per la prima volta grazie al Reddito. Ricordiamo poi che al Rdc si dovrebbero accompagnare serie politiche attive del lavoro che aiutino le persone che possono lavorare a rientrare nel mondo del lavoro. Un intervento tempestivo e ben fatto può impedire che una situazione di povertà si cronicizzi. Interventi malfatti, micragnosi e squalificanti invece facilitano ne facilitano l’incancrenimento.
Il governo sta lavorando anche ad alcune modifiche alla cosiddetta “opzione donna”, la misura che consente alle donne a certe condizioni di andare in pensione prima. Che ne pensa?
Io sono sempre stata contraria a “Opzione donna” perché è una misura pensata attorno all’idea che la donna a un certo punto della sua vita ha bisogno di tempo per fare la nonna e la badante, dovendosi occupare dei nipoti e dei genitori non autosufficienti. Io sono sempre stata a favore del riconoscimento del lavoro di cura, ma se questo lavoro di cura lo fa un uomo perché non riconoscerlo ugualmente? Misure come queste, anziché incentivare la condivisione del lavoro di cura, rafforzano la sua divisione. Peraltro, opzione donna è un meccanismo profondamente punitivo, perché chi ne usufruisce va sì in pensione prima, ma con una pensione ridotta di circa il 30 per cento (cosa che non avviene con quota 100 o 103). Una pensione che già di norma è più bassa di quella degli uomini. Le modifiche a cui sta pensando il governo non mettono in discussione l’impianto di fondo, ma anzi lo rafforzano. Se si vuole davvero aiutare le donne con figli, per esempio, il tempo bisognerebbe darglielo prima, quando i figli sono piccoli, e non dopo quando sono già cresciuti, facendo loro pagare pure un prezzo in termini di riduzione della pensione. Altro provvedimento utilissimo sarebbe quello di introdurre dei contributi figurativi generosi per ogni figlio, che consentirebbe di arricchire un po’ la futura pensione.
Tornando all’impianto della manovra nel suo complesso, possiamo dire che è una manovra classista?
Direi proprio di sì, certamente è una manovra contro i poveri. Anzi peggio, è una manovra che divide i poveri in poveri “buoni” – le famiglie con figli, gli ultrasessantenni e gli invalidi – e i poveri “cattivi” che sono tutti gli altri.