Quest’autunno (nel ponte dei morti!) si poteva fare il bagno in qualsiasi spiaggia italiana. Un pezzo d’estate fuori programma va certamente goduto, perché, come cantava Claudio Baglioni, “la vita è adesso”; tuttavia, nel gioirne, si cade nella trappola di una dissonanza cognitiva per cui i piaceri consentiti dal tempo caldo fanno dimenticare la minaccia che esso nasconde.
«Per quanto si sia bene informati, sicuramente non si è abbastanza allarmati», scriveva David Wallace-Wells, vicedirettore del New York Magazine e collaboratore del Guardian sui temi ecologici, nel suo libro The Uninhabitable Earth: negli ultimi decenni, la nostra cultura si è pasciuta di film fantascientifici apocalittici, ma quando si tratta di contemplare i pericoli del riscaldamento del mondo reale, soffre di un incredibile fallimento dell’immaginazione. A chi scrive, viene in mente Willy Coyote, che continuava a rincorrere la sua preda anche nel vuoto, prima di accorgersene e cadere giù. Sarebbe, invece, imperativo per tutti tenersi informati sul grado di sofferenza del pianeta, così da esigere, da chi governa, di non oltrepassare il ciglio del baratro, nell’insulsa rincorsa dei consumi, degli armamenti, dei profitti.
Il conto alla rovescia di Lancet
Uno strumento per farlo è Lancet Countdown, cui collaborano 51 tra istituzioni accademiche internazionali e agenzie delle Nazioni Unite, che si occupa del profilo sanitario del cambiamento climatico, valutato sulla base di 43 indicatori, periodicamente ridefiniti in conferenze di consenso dai 99 ricercatori che guidano il gruppo consultivo scientifico. Gli indicatori sono incorporati anche nelle valutazioni dell’European Climate and Health Observatory e dell’Istituto superiore di sanità.
Lancet Countdown produce un Global Report aggiornato ogni anno, che viene strategicamente pubblicato a breve distanza dalle COP, contribuendo a evidenziare anche gli effetti sulla salute umana dei cambiamenti climatici. L’edizione 2022 (la settima) è stata pubblicata sulla rivista Lancet in forma concisa, ma dettagli, riferimenti bibliografici, specifiche regionali e piattaforme di visualizzazione dei dati sono consultabili all’indirizzo https://www. lancetcountdown.org/data-platform/.
L’anno 2022 segna il 30° anniversario della firma della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), nella quale i paesi firmatari si sono accordati per prevenire i mutamenti climatici di origine antropica e i loro deleteri effetti sulla salute e sul benessere umano. Nel 2023, l’UNFCCC farà un primo bilancio globale (Global Stocktake) per valutare i progressi collettivi compiuti verso il raggiungimento, tramite l’attuazione dei Nationally Determined Contributions, NDC, degli obiettivi a lungo termine fissati dall’Accordo di Parigi (contenere l’aumento della temperatura media globale sotto i 2°C rispetto ai livelli preindustriali). Si ricorda che i vari Stati non erano tenuti a negoziare i loro contributi e che il raggiungimento degli obiettivi prefissati non è vincolante; gli Stati firmatari si sono, tuttavia, impegnati a sottoporre a una revisione internazionale periodici report sui progressi attuativi dei loro NDC. L’accordo di Parigi stabilisce che eventuali aggiornamenti degli obiettivi dei NDC debbano essere ambiziosi e, comunque, mai inferiori a quelli precedentemente definiti.
Pochi progressi, molti rischi
Tuttavia, a trent’anni dai negoziati UNFCCC, il peso del carbone nel sistema energetico globale è diminuito solo dell’1%, la produzione di elettricità è ancora dominata dai carburanti fossili e le fonti rinnovabili sono relegate all’8,2% del totale, dice il rapporto di Lancet Countdown, la cui pubblicazione cade nel bel mezzo delle crisi internazionali che si sono recentemente accumulate e sovrapposte e della profonda crisi sistemica in cui versa il mondo.
Tutti i paesi, infatti, continuano a fare i conti con gli impatti sanitari, sociali ed economici della pandemia di Covid-19 e, come se non bastasse, la guerra russo- ucraina da una parte e la persistente dipendenza dai combustibili fossili dall’altra hanno accentuato la crisi energetica globale. In un simile contesto, il cambiamento climatico non può che intensificarsi, minando, oltre che la sopravvivenza degli ecosistemi, le basi della stessa salute umana.
Eventi estremi e ondate di calore
Negli ultimi due anni, eventi meteorologici estremi (ormai tipici dell’Antropocene) hanno devastato con inondazioni Australia, Brasile, Cina, Europa occidentale, Malesia, Pakistan, Sud Africa e Sud Sudan e con incendi Canada, Stati Uniti, Grecia, Algeria, Italia, Spagna e Turchia; la distruzione delle infrastrutture, dei luoghi di lavoro e degli strumenti di sostentamento ha enormi impatti sulla salute, sia per via dell’interruzione dei servizi essenziali sia per il peggioramento dei suoi suoi determinanti sociali.
Tra il 2017 e il 2021, le ondate di calore con temperature record registrate in Australia, Canada, India, Italia, Oman, Turchia, Pakistan e Regno Unito, hanno prodotto (in collusione con l’epidemia da coronavirus) gravi conseguenze sulle frange più vulnerabili della popolazione, nelle quali i decessi sono aumentati del 68% rispetto al lustro 2000-2004. Anche nel resto della popolazione le conseguenze del caldo estremo sono molteplici: impossibilità di praticare attività fisica all’aperto, riduzione della capacità lavorativa e della frequenza scolastica, destabilizzazione della malattia mentale.
Tuttavia, meno di un terzo dei centri urbani con più di 500.000 abitanti ha una quantità di aree verdi sia pure modesta, e solo un terzo delle nazioni esaminate riferisce di avere sistemi d’allerta precoce per la salute legata al calore. Il maggiore utilizzo dell’aria condizionata e la scarsa implementazione di soluzioni basate sulla natura riflettono una deriva verso risposte non pianificate e disadattive.
Clima e malattie infettive
Le aumentate concentrazioni atmosferiche di gas serra hanno un ruolo preminente anche nell’emergenza delle malattie infettive: il rialzo delle temperature delle acque salmastre costiere ha aumentato la diffusione dei vibrioni colerici e non; sono aumentati i mesi in cui sono più vitali le zanzare Anopheles ed è quindi più facile la trasmissione della malaria; il clima mutato ha favorito anche l’azione di Aedes aegypti e di Aedes albopictus, con maggiore trasmissione di chikungunya, Zika e, soprattutto, di Dengue. Il rapporto fa notare che la metà della popolazione del pianeta vive in paesi in cui quest’ultima malattia è presente e dove la compresenza di COVID-19 ha creato serie difficoltà di diagnosi differenziale e di assistenza.
In alto mare
Il livello medio globale del mare è aumentato di 3,7 mm l’anno tra il 2006 e il 2018 e salirà di 0,28-1,01 m entro il 2100. La stima effettiva varierà in base agli sforzi di mitigazione del cambiamento climatico che saranno messi in atto, all’entità del crollo della calotta glaciale e a fattori locali: se non vi sarà un adattamento sufficiente, i 150 milioni di persone che nel 2020 vivevano a meno di 1 m sul livello del mare saranno a rischio di inondazioni, erosione delle coste e delle sponde fluviali, tempeste, salinizzazione del suolo e dell’acqua, diffusione di malattie infettive e si renderà necessario un loro trasferimento, con un impatto sulla salute che dipenderà dal sostegno economico fornito.
La temperatura superficiale nelle acque costiere di 142 paesi è aumentata in media di quasi 0,7°C nel triennio 2019-21, rispetto a quello 1980-82; l’aumento della temperatura della superficie del mare (e dei bacini idrici interni) riduce la loro ossigenazione con effetti di depauperamento della fauna e della flora acquatiche e di diminuita produttività della pesca. Il mercato si rivolge, così, ai prodotti ittici di allevamento, che hanno una ridotta qualità nutrizionale. La sinergia di fattori diversi, quali il calo dei raccolti, la crisi energetica e le crisi geopolitiche, ha ulteriormente impoverito popolazioni già allo stremo, invertendo i progressi che erano stati fatti verso l’eradicazione della fame e la possibilità di salute: nel 2020, hanno dovuto affrontare la fame 161 milioni di persone in più che nel 2019; il consuntivo del 2022, con la guerra nel cuore dell’Europa e il suo impatto sull’energia e sulle catene di approvvigionamento internazionale, minaccia di aggiungere a questa cifra altri 13 milioni di persone denutrite.
Emissioni sempre in salita
Intanto, la domanda totale di energia è aumentata del 59%, portando le emissioni antropiche di CO2 del 2021 al loro massimo storico, dopo che, nel 2020, a causa delle restrizioni della circolazione imposte dalla pandemia da Covid-19, avevano avuto la più grande diminuzione degli ultimi 25 anni. Il mantenimento delle politiche attuali esiterà nel catastrofico aumento di 2,7°C entro la fine del secolo: entro il 2030, le emissioni globali potrebbero essere superiori a quelle del 2010, invece che inferiori a quelli attuali, come sarebbe necessario per mantenere le temperature entro i limiti di adattamento e come richiedeva l’accordo di Parigi.
Poiché l’energia residenziale contribuisce al 17% delle emissioni globali di gas serra, la transizione verso l’energia pulita nel settore domestico è essenziale per raggiungere gli obiettivi di mitigazione. Nel 2020, dopo sei anni di diminuzione, il numero delle persone senza accesso all’elettricità è di nuovo aumentato: sono circa 770 milioni le persone che non hanno accesso all’elettricità e, in ben 62 nazioni analizzate, il riscaldamento delle case è ancora prodotto dalla combustione della biomassa, con conseguente inquinamento dell’aria che vi si respira.
Carne e CO2
L’alimentazione umana ha un peso rilevante nell’emissione di gas serra: nel 2019, il 55% delle emissioni agricole globali proveniva dalla produzione di carne rossa e di latticini. Come previsto dal Protocollo di Kyoto, i gas da includere nella dizione “gas serra” sono anidride carbonica (CO2), metano (CH4), protossido d’azoto (N2O), idrofluorocarburi (HFCs), esafluoruro di zolfo (SF6) e perfluorocarburi (PFCs). La carbon footprint è la quantità di gas serra rilasciata nell’atmosfera da un individuo, un servizio, un’organizzazione o un prodotto in seguito ad attività o a processi di natura umana; l’unità di misura scelta per stimarla sono le tonnellate di CO2 equivalente (tCO2e) e il peso delle emissioni degli altri gas viene rapportato al potenziale effetto serra della CO2 (il metano, CH4, per esempio, ha un potenziale 25 volte superiore a quello dell’anidride carbonica). L’impronta carbonica pro capite derivata dal consumo di carne rossa e latticini, nei paesi ricchi è stata il doppio che nel resto del mondo (0,8 tCO2e per persona vs 0,4 tCO2e per persona).
Nel Sud-est asiatico, invece, (principalmente in Indonesia, dove, secondo dati governativi, tra il 1990 e il 2015 sono stati rasi al suolo 24 milioni di ettari di foresta pluviale, per farvi posto) l’indiscriminata espansione delle piantagioni di palma da olio ha fatto crescere le emissioni di CO2 di oltre il 600%.
Nel 2020, le emissioni pro capite di CO2 basate sul consumo nei paesi con un reddito molto elevato erano 1,3 volte superiori alla media globale e 26,3 volte superiori alle emissioni pro capite nei paesi a basso reddito. Le emissioni di PM2,5 pro capite erano invece maggiori nei paesi a basso reddito, il che riflette le scarse misure di controllo della qualità dell’aria e l’uso di combustibili più inquinanti. I paesi con reddito molto elevato hanno le emissioni di CO2 e PM2,5 basate sul consumo più elevate di quelle basate sulla produzione.
Le emissioni del sistema sanitario
La pandemia di Covid-19 ha notevolmente alterato, in tutto il mondo, i modelli di utilizzo dell’assistenza sanitaria e, di conseguenza, le emissioni a essa associate. Se, da un lato, sono state necessarie notevoli spese per i dispositivi di protezione individuale, i test diagnostici e le terapie intensive, sono, dall’altro, inizialmente diminuite le cure elettive non Covid-19. Alla ripresa di queste ultime, si prevede che le emissioni di gas serra associate all’assistenza sanitaria torneranno ad aumentare. I paesi a maggior reddito sono quelli con sistemi sanitari a più alta emissione di gas serra: dei 37 analizzati, il sistema sanitario statunitense è quello responsabile della maggiore emissione pro capite (50 volte superiore a quella indiana, per esempio), a dispetto del fatto che gli USA abbiano la sestultima aspettativa di vita alla nascita (66,7 anni). Le emissioni pro capite nei 10 paesi con la più alta aspettativa di vita variano dai 1.065 kg CO2 della Corea del Sud ai 321 kg CO2 della Francia, evidenziando che è possibile avere un’assistenza sanitaria di alta qualità con emissioni (relativamente) basse.
Cercare di risolvere gli aspetti della crisi uno alla volta, senza rilevarne le interconnessioni, non produrrà benefici duraturi e reali. È un esempio di ciò la risposta alla pandemia: a livello locale, 239 città su 798 (il 30%) hanno riferito che il COVID-19 ha ridotto i finanziamenti disponibili per l’azione per il clima e, a livello globale, è probabile che meno di un terzo dei 3,11 trilioni di dollari stanziati per la ripresa economica del COVID-19 sarà destinato a ridurre le emissioni di gas serra o l’inquinamento atmosferico, con l’effetto netto di un probabilmente loro aumento.
Il lungo addio ai fossili
Al contrario, in questo momento cruciale, una risposta alle crisi attuali incentrata sulla salute umana dovrebbe vedere i paesi allontanarsi prontamente dai combustibili fossili, ridurre la loro dipendenza dai fragili mercati internazionali del petrolio e del gas e accelerare la transizione verso fonti di energia pulita. È necessario reindirizzare il sostegno dei governi dai sussidi ai combustibili fossili alla produzione di energia a basse emissioni di carbonio, alla protezione della salute, alla promozione della salute pubblica e all’assistenza sanitaria. Certo, realizzare la transizione verso emissioni nette zero richiederà ingenti investimenti di capitale; il denaro sarebbe disponibile ma, disgraziatamente, è concentrato in relativamente pochi paesi che, pur avendo gran parte della responsabilità storica del cambiamento climatico causato dall’uomo, hanno una vulnerabilità geografica moderata o più mezzi e strumenti per decarbonizzare e adattarsi al clima.
Al contrario, i paesi a più basso reddito, che meno hanno contribuito alle emissioni cumulative di CO2, sono più vulnerabili ai rischi climatici e hanno meno risorse per decarbonizzare, adattarsi e riprendersi dai danni da clima. L’India, in cui vive il 18% della popolazione del pianeta ma che produce solo il 3% del gas serra globale, incarna il paradosso della crisi climatica: poiché non è mai stata pienamente industrializzata, non ha rilasciato le stesse emissioni dei paesi ricchi occidentali, ma, poiché non è pienamente industrializzata, ha poche risorse per adattarsi ai cambiamenti climatici.
Finanza climatica
Per sostenere i paesi del Sud del mondo nella transizione verso fonti energetiche sostenibili sono, quindi, necessari meccanismi di finanziamento internazionale. Da ormai una generazione, sono gli stessi paesi vulnerabili al clima a proclamare che è giunto il momento per il mondo ricco di pagare. La sostanza è uguale, anche se la forma cambia: il sostegno preteso si chiama, di volta in volta, “finanza per il clima”, “perdite e danni”, “riparazioni” e, ora, “sgravio del debito”. In riconoscimento di ciò, nell’Accordo di Copenaghen del 2009, i paesi sviluppati si erano impegnati a «raggiungere l’obiettivo di mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per soddisfare le esigenze dei paesi in via di sviluppo».
Finora, sono stati impegnati solo 79 miliardi di dollari, due terzi dei quali sotto forma di prestiti, con la maggior parte del resto equamente suddiviso tra sovvenzioni pubbliche e finanziamenti privati. Alla COP26 è stato riconosciuto che, anche a causa dell’emergenza Covid-19, l’obiettivo di 100 miliardi di dollari non sarebbe stato raggiunto fino al 2023; il ritardo non solo mette a repentaglio gli obiettivi di mitigazione, ma lascia anche i paesi a reddito più basso più esposti ai danni dei cambiamenti climatici. Gli odierni conflitti geopolitici mettono ulteriormente fuori portata l’obiettivo.
Sarà importante vedere cosa sono disposti a fare i paesi del sud del mondo se le loro richieste non vengono soddisfatte. Un editoriale della rivista Polycrisis offre una risposta, descrivendo un mondo in cui le alleanze degli stati sottosviluppati potrebbero mettere le nazioni ricche l’una contro l’altra: l’emergente alleanza di non allineamento costruita intorno a Brasile, Russia, India e Cina (BRIC) si avvale di una “nuova merce di scambio”, lasciando intravedere la possibilità che un nuovo gruppo di “stati elettronici” possa succedere ai petro-stati del secolo scorso e mediare in modo aggressivo l’accesso alle proprie risorse minerarie.
Dal canto suo, il report di Lancet Countdown stigmatizza il ritardato e incompleto pagamento di questa sorta di risarcimento morale agli stati a basso reddito, ricordando che, in risposta alla pandemia Covid-19, oltre 15.000 miliardi di dollari sono stati annunciati per le spese di salvataggio dai governi a livello globale nel 2020-2021 e altri 3,11 miliardi di dollari sono stati promessi per la spesa per la ripresa (concentrati pesantemente nei paesi dell’OCSE, più la Cina). Di questo denaro, meno di 1 trilione di dollari è stato stanziato per ridurre l’inquinamento atmosferico; è, anzi, probabile che la spesa per il recupero si traduca in un aumento delle emissioni, attraverso investimenti diretti o indiretti in attività ad alta intensità di carbonio.
La risposta al Covid-19 ha, comunque, dimostrato quali ingenti risorse possano essere mobilitate dai decisori nei paesi a reddito più elevato per affrontare un pericolo percepito come chiaro e presente per la salute della loro popolazione e della loro economia. La scarsità dei finanziamenti internazionali per arrestare il cambiamento climatico, a fronte delle ampie prove sui suoi gravissimi pericoli e sull’ottimo rapporto costo-efficacia dell’azione per contrastarli, significa che la crisi non è ancora percepita come reale dai decisori che potrebbero affrontarla nel modo più efficace.
Segnali positivi
Dopo decenni di azioni insufficienti, però, emergono alcuni (pochi) dati positivi: l’impegno individuale sulle dimensioni sanitarie del cambiamento climatico è aumentato dal 2020 al 2021 e la sua copertura nei media ha raggiunto un record nel 2021. Questo impegno si riflette anche nella maggior attenzione sui legami tra cambiamento climatico e salute nel dibattito generale delle Nazioni Unite del 2021 e con l’86% dei NDC aggiornati o nuovi che fanno riferimento alla salute. Segnali di cambiamento stanno emergendo anche nel settore energetico. Sebbene la produzione totale di energia pulita rimanga gravemente insufficiente, nel 2020 sono stati raggiunti livelli record. Le fonti a zero emissioni di carbonio hanno rappresentato l’80% degli investimenti nella produzione di elettricità nel 2021 e le energie rinnovabili hanno raggiunto la parità di costo con le energie fossili. Alcuni dei paesi con le emissioni più elevate tentano di ridurre la loro dipendenza da petrolio e gas in risposta alla guerra in Ucraina e all’aumento dei prezzi dell’energia e molti si stanno concentrando sull’aumento della produzione di energia rinnovabile.
Gli indicatori di Lancet Countdown mostrano che anche l’occupazione sta lentamente passando dai combustibili fossili all’energia pulita e che il disinvestimento dai combustibili fossili è in aumento: più di 12 milioni di persone sono state impiegate direttamente o indirettamente dall’industria delle energie rinnovabili nel 2020, con un aumento del 5% rispetto al 2019. Per la prima volta, l’occupazione diretta e indiretta nel settore delle energie rinnovabili ha superato l’occupazione diretta nel settore dell’estrazione di combustibili fossili (che ha registrato un calo del 10% di dipendenti rispetto al 2019), riaffermando che le energie rinnovabili potrebbero sostenere la sicurezza del lavoro, oggi e in futuro.
L’International Energy Agency (IEA) ritiene che la guerra russo-ucraina sia un punto di svolta verso la conversione alle fonti rinnovabili di energia, anche se questo passaggio presumibilmente non avverrà in tempi abbastanza brevi da evitare il già previsto surriscaldamento del pianeta di 2-3 °C.
Peraltro, il direttore esecutivo dell’IEA, Fatih Birol, ha fatto notare, dalle pagine del New York Times, che il motore di questi cambiamenti non è quasi mai la mitigazione dell’emergenza climatica, ma l’affermazione di una nuova politica industriale: molti paesi vogliono essere all’avanguardia delle industrie energetiche del futuro.
Quando era primo ministro, Boris Johnson ha parlato di rendere il Regno Unito «l’Arabia Saudita dell’energia eolica» e gli USA hanno scritto l’Inflation Reduction Act, una legge che prevede 750 miliardi di dollari di investimenti per l’assistenza sanitaria e il clima, per potenziare la competitività americana sull’energia verde. La Cina, che sta già mostrando quasi la stessa capacità rinnovabile del resto del mondo messo insieme, sta anche producendo l’85% dei pannelli solari del mondo (e vendendo circa la metà di tutti i veicoli elettrici acquistati nel mondo).
Il processo di cambiamento è (e sarà sempre più) guidato dalla tecnologia: quasi nessuno, al di fuori degli addetti ai lavori, si rende conto di quanto sia stato drastico e rapido il calo dei costi delle tecnologie rinnovabili. La storia del loro sviluppo ha molte affinità con l’invenzione in poche settimane e il lancio entro pochi mesi dei vaccini a mRNA per combattere una pandemia, sostiene David Wallace-Wells.
Le nuove sfide dell’adattamento
Dal 6 al 18 novembre, alla conferenza delle Nazioni Unite sul clima a Sharm el Sheikh, in Egitto, nota come COP27, i leader mondiali affronteranno il tema dell'”adattamento”. Poiché la maggior parte delle infrastrutture del mondo è stata costruita per condizioni climatiche che ci siamo già lasciati alle spalle, proteggerci dalle nuove condizioni richiederebbe un progetto di ricostruzione globale: si parlerà, quindi, di metodi di irrigazione sostenibili, centri di raffreddamento e colture resistenti alla siccità, stoccaggio regionale delle colture, sostegni finanziari per l’agricoltura dei piccoli proprietari, coperture assicurative per il loro lavoro e sistemi di allerta precoce per gli eventi meteorologici che potrebbero danneggiare le colture o aumentare la trasmissione di malattie infettive. Contro le inondazioni, dovranno essere previste e allestite difese, sia naturali, come il ripristino delle mangrovie e delle zone umide, sia artificiali come argini, dighe e porte marittime (New York City sta valutando un sistema di paratie per le mareggiate, al prezzo di 52 miliardi di dollari). Occorreranno materiali da costruzione più resilienti e pianificazioni urbane più attente alle intemperie, linee ferroviarie e asfalto resistenti al calore, migliori previsioni con sistemi di allarme universali, gestione dell’acqua più oculata, anche in regioni agricole molto grandi come l’ovest americano. Forse, però, gli interrogativi più profondi riguarderanno la distribuzione: «Chi riesce a costruire quelle dighe? chi è esposto quando non vengono costruite?» si interroga David Wallace-Wells.
Le risposte orbitano attorno a una questione definibile “giustizia climatica”: fino a che punto il cambiamento climatico aumenterà livelli già inconcepibili di disuguaglianza globale? E fino a che punto i paesi del Sud globale potranno uscire dalla loro condizione di “colonialità climatica”?
fonte: Scienza in Rete
Simonetta Pagliani, medico di medicina generale dal 1981, è nata a Milano, dove ha studiato al liceo classico Berchet e poi all’Università Statale. È impegnata della didattica e nella formazione in medicina e collabora da molti anni con l’Agenzia editoriale e giornalistica Zadig.