Dopo la Conferenza nazionale sulla salute mentale del 2021 è andata delusa l’attesa di un piano attuativo della legge 180 in grado di dare riferimenti precisi a tutte le regioni. Si era riparlato della proposta di legge Dirindin sull’organizzazione dei DSM che avrebbe potuto rappresentare un argine rispetto ad un localismo che fa sì che i servizi possano essere rimodulati (e ristretti) a seconda delle decisioni delle singole aziende sanitarie. La concentrazione dei dipartimenti, le riduzione dei servizi, facilitate anche dalla carenze di professionisti, sembrano inevitabili e passano ormai quasi inosservati o al più con qualche rimostranza nelle cronache locali.
L’altro tema finito nell’ombra è quello dei diritti delle persone con disturbi mentali, dati come acquisiti senza cogliere le discriminazioni ancora presenti sia in ambito penale che civile.
L’adeguatezza della legge 180, delle risorse, dei modelli dei servizi, della formazione e della ricerca, tutte critiche in sè fondate spesso non tengono conto che la crisi profonda è quella della Costituzione, del patto sociale, sul quale si basa il welfare pubblico universale. Una situazione che, al di là delle affermazioni, nemmeno una pandemia ha modificato. Lo testimonia la perdita di diritti di tutti i cittadini, prima ancora del PNRR, dove il finanziamento per la sanità e sociale è meno del 10% e del DM 77/2022 nel quale la salute mentale nemmeno è prevista.
In questo quadro, ogni critica dovrebbe partire dalla domanda: abbiamo ancora una Costituzione vivente che sostiene un welfare pubblico universale? O il patto sociale si è irrimediabilmente modificato con un sistema di welfare misto con una parte crescente (il 30% della spesa) a domanda individuale, sostenuta direttamente dai cittadini o tramite assicurazioni? In questo processo, dove pare ampiamente vincente la cultura dell’individualismo (e non della soggettivazione), cosa resta al sistema pubblico? Una rete di emergenza di cui si pretende comunque il buon funzionamento come nella pandemia, o il “sistema dei poveri e anziani come Medicaid e Medicare.… Si è affermata una cultura individualista e regressiva, nella quale è potente lo stigma, che forse aiuta a spiegare come mai anche nelle parti del Paese dove più avanzate sono state le pratiche si pensi al Friuli e a Trieste, queste attività abbiano meno consenso e siano diventate un bersaglio simbolico?
Se questo è lo scenario, i punti chiave della salute mentale in Italia, sui quali si potrebbe concentrare lo scontro politico, sociale e tecnico, sono due: 1) la decisone di fare a meno di Ospedali Psichiatrici civili e giudiziari incentrando tutto il sistema di cura sulla comunità; 2) i diritti delle persone con disturbi mentali che non dovrebbero essere discriminate ma avere pari diritti e doveri rispetto agli altri cittadini.
Punti che vista la portata degli obiettivi ha comportato inevitabilmente insufficienze e sempre nuove contraddizioni che oggi possono diventare pretesto per azioni di controriforma. Si è dimostrato che “l’impossibile è possibile”: si può fare a meno degli OP e OPG e le persone con disturbi mentali possono vivere nella comunità.
Le critiche sono utili per richiamare l’attenzione e migliorare specie se riconosciamo come beni comuni, la Costituzione, il sistema di welfare pubblico universale, un sistema di diritti/doveri condiviso e sostenuto da un patto sociale praticato. Altrimenti, pur nella loro realtà, finiscono per alimentare la richiesta di discontinuità.
La rete di servizi, spesso invisibili, è molto diversificata anche a livello regionale; gli Enti del terzo settore e privato imprenditoriale assorbono quasi la metà delle risorse per fornire una dotazione di circa 28mila posti residenziali; i posti ospedalieri sono ritenuti unanimemente insufficienti, specie nella Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza. Un crescente numero di anziani (stimati in oltre 300mila) vive nelle Residenze.
Le REMS e i servizi di psichiatria forense di recente istituzione vanno completati e migliorati alla luce anche delle condizioni nelle carceri. Le carenze di personale, della sua formazione e di investimenti sono assai note e così i livelli di intensità di cura dei Centri di salute mentale, strutturalmente insufficienti a far fronte alla domanda (15-20% della popolazione soffre di disturbi mentali e i DSM non arrivano al 2% di presa in cura).
Serve quindi un approccio che faccia della salute mentale una componente essenziale della salute e quindi competenza di tutti, in primis i medici e gli operatori sanitari e sociali ma riguarda l’intera comunità, politica inclusa.
La Conferenza della salute mentale 2021 aveva suscitato speranze ma le azioni seguenti sono state deludenti, non strutturali, incentrate sull’obiettivo di abolire le contenzioni, di migliorare l’offerta dei percorsi giudiziari alternativi alle REMS, di sostenere la NPIA e facilitare la psicoterapia con il “bonus psicologi”. Del tutto insufficiente il finanziamento, la dotazione di personale (occorrerebbe assumere almeno 15 mila operatori).
Ora con il nuovo corso politico, cosa succederà?
Torneremo a discutere della 180 per andare oltre o per tornare indietro e riaprire la questione delle istituzioni? Alla luce delle precedenti esperienze di governi di destra nazionali e di quelli regionali dobbiamo pensare a nuove strutture residenziali magari con 40 o più posti? A forme di TSO territoriali/residenziali protratti? A patti di “rifioritura” o altre forme di coercizione “benigna” da estendersi progressivamente tramite amministratori di sostegno o giudici? A bonus psicologi ampliati e altri voucher?
Il tema dei diritti delle persone con disturbi mentali verrà fortemente subordinato al nuovo “patto sociale”? Magari con il sostegno di professionisti, familiari e opinione pubblica che non vuole “disturbanti”? Dalla psichiatria verrà preteso un ruolo custodiale che metta fine al dilemma cura-controllo? Una psichiatria subordinata alla magistratura, più impegnata nell’ordine pubblico che nelle terapie e nella protezione della società dai malati? Per il loro bene, s’intende! Per sollevare le famiglie… E che fare per chi usa sostanze, dopo quasi trent’anni di “guerra alla droga”? Con le carceri sovraffollate…
Preoccupa la sentenza 22/2022 della Corte Costituzionale che al punto 5.3 scrive “La natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico che l’assegnazione in REMS conserva nella legislazione vigente comporta, per altro, la necessità che essa si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dell’altro, in materia si trattamenti sanitari obbligatori”…” “Con conseguente necessità che la legge preveda anche i “modi” oltre che i “casi”, in cui un simile trattamento – che lo stesso articolo 32, secondo comma, Cost. esige d’altronde sia “determinato”, e dunque descritto e disciplinato dalla – può essere eseguito contro la volontà del paziente.”
Le sentenze della Corte Costituzionale hanno spesso anticipato le leggi.
Quindi avremo luoghi per autori di reato dove si realizzano cure coercitive e custodia?
Una simile struttura non rischierebbe di diventare ben presto un nuovo OPG e riferimento di tutta la psichiatria? Perchè le persone con disturbi mentali autori di reato dovrebbero avere meno diritti e meno doveri? Perchè per loro non dovrebbe valere la legge 219/2017 sul consenso informato e la 18/2009 che ratifica la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità? Si vuole riaprire per i gravi e “disturbanti” la via quella della neoistituzionalizzazione magari da far organizzare a privati?
Una recente ricerca DOXA sulla salute mentale per il Festival RO.MENS ha evidenziato che “oltre la metà della popolazione (65%) ritiene le persone con disturbi mentali pericolose per sé, quasi la metà (48%) pericolose anche per gli altri, con la possibilità di diventare facilmente aggressive e violente (55%), non rispettose delle regole sociali condivise (49%)”.
In questo contesto culturale e sociale oscillante tra la richieste custodiali e quelle abbandoniche, operare per l’inclusione diventa molto difficile, specie a fronte di una riduzione dei diritti (al lavoro, minimo vitale, casa) e di un impoverimento sia di mezzi e risorse umane in difficoltà per i limiti del sapere e delle possibilità tecniche a fronte di casi cronici, polipatologici, spesso abusatori di sostanze e resistenti ai trattamenti.
E’ una questione molto concreta, vicina alle persone, alle loro condizioni di vita, fatte spesso di solitudini e povertà di ogni tipo. Basta passare un giorno in un Centro di Salute Mentale per vedere quale umanità li frequenta, quale dignità viene espressa, quanta umanità, sofferenza e dolore li attraversa.
Nelle prassi reali degli operatori, spesso competenti e umani, la visione olistica evidenzia la rilevanza e l’interazione reciproca di fattori biologici, psicologici, sociali, culturali e ambientali. Agire su di essi, sui determinati sociali della salute è assai complesso e gli strumenti della psichiatria sono limitati… In questa situazione, pur con tutti i “patti sociali”, portare avanti le buone pratiche e coltivare i principi e le culture della 180 è diventato difficile e faticoso e la via della neoistituzionalizzazione o dell’abbandono potrebbe apparire la più semplice e rassicurante. Una vera controriforma della 180.
Uno scenario che si può e si deve evitare in quanto la rete dei servizi, anche se indebolita, riesce a tenere un livello significativo di presidio del territorio. Malgrado tutto gli operatori della salute mentale, in questa nuova stagione politica, anche a fronte di un ricambio generazionale, impegnano egregiamente le loro intelligenze, competenze e patrimonio etico e sono in grado con orgoglio di mediare tra le diverse istanze, di tenere il dialogo aperto, di infondere speranza e costruire percorsi di recovery.
Prendiamo atto delle difficoltà ma dicendo senza esitazioni che la 180 è un patrimonio comune, una conquista basilare della nostra società. La psichiatria è una pratica di cura e ne vanno difese le condizioni, anche di fronte alla politica e alla magistratura. Pur con tutte le attenzioni, i sostegni necessari ad un prendersi cura “sufficientemente buono”, carico di una “preoccupazione terapeutica primaria”, lo psichiatra grazie al “privilegio terapeutico”, deve essere messo nelle condizioni di poter accogliere, ascoltare in modo non giudicante e tenere conto della maturata posizione degli utenti espressa dal “nulla su di me senza di me” e dal loro empowerment. Va riconosciuto a tutti pienezza di diritti e doveri. La libertà, la responsabilità e la speranza sono terapeutiche, se indivisibili e sempre rispettate. Anche la questione del consenso e della coercizione va risolta a favore del rispetto del primo con una revisione in senso più garantista del TSO. L’assenza di insight e di adesione alle cure è molto ampio in medicina, dove il 50% dei pazienti cronici non assume le terapie. Perché lo psichiatra dovrebbe avere la “posizione di garanzia” a fronte di 4mila suicidi all’anno e di circa 300 omicidi, dei quali solo in piccola parte sono attuati da pazienti in cura? Lo stigma è ancora molto forte e riguarda contemporaneamente psichiatri e pazienti.
La diagnosi può essere stigmatizzante, specie se è solo categoriale, ed omette tutti gli altri elementi della sofferenza. Non dice nulla sulla condizione economica, familiare, sociale, lavorativa. Cioè sui determinanti sociali della salute: povertà, solitudine, violenze, abbandono in una società competitiva e talora rifiutante se non ostile e razzista. Non sono le persone ad essere un pericolo, ma come le accogliamo, ci prendiamo reciprocamente cura, come le storie diventano comuni, come la sofferenza non più solo privatizzata diviene, nella relazione, forza di cambiamento. Non basta l’epoché, il mettere tra parentesi la malattia per incontrare la persona, se questa non è nella comunità, non ha pienezza di diritti e doveri in ambito penale e civile, non è titolare del suo progetto di vita, di una sua autodeterminazione seppure sostenuta dalla presenza dell’altro e da strumenti nuovi come il budget di salute. La psicopatologia evolutiva indica chiaramente traiettorie sulle quali intervenire fin dall’infanzia, e consente una nuova lettura dei disturbi mentali e di quale oggi è la carriera del malato mentale. Quindi una psichiatria nel welfare di comunità che non incontra più i pazienti nel manicomio, ma nei servizi, a casa delle persone, con i medici di medicina generale, con tutti i supporti educativi e sociali. La salute mentale è parte essenziale della salute e quindi è un diritto e un bene comune di tutti i cittadini. Questa è la sfida per realizzare la 180 e poi andare oltre.
l’Autore: Pietro Pellegrini
Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma