Le diseguaglianze in salute hanno molte sfaccettature: una di queste riguarda la differenza di genere. Il caso USA.
Potrà stupire, o forse no, che in un Paese come gli Stati Uniti (la maggiore potenza economica mondiale, e riferimento per quanto riguarda l’evoluzione scientifica e tecnologica) le diseguaglianze di genere che riguardano la sfera della salute siano così rilevanti, tanto da dover rappresentare un motivo di preoccupazione. È infatti noto che la mortalità materna delle donne statunitensi è la più alta tra i paesi ad alto reddito (1) e questa è senza dubbio una spia allarmante rispetto alla condizione della salute e dell’assistenza sanitaria delle donne in USA.
Con i dati del Commonwealth Fund’s 2020 International Health Policy Survey e dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) è stato prodotto un documento (2) che mette a confronto l’accesso alle cure delle donne in età fertile, tra 18 e 49 anni, negli Stati Uniti rispetto ad altri 10 paesi ad alto reddito. La prima valutazione è stata fatta sul livello di gradimento delle prestazioni sanitarie del proprio Paese ed è emerso che solo un quarto delle donne americane in età fertile ha dato un giudizio estremamente positivo, mentre negli altri Paesi questa percentuale rappresenta la maggioranza. Questo si riconduce facilmente alla difficoltà di accesso alle cure della popolazione: la maggior parte delle donne in età fertile degli 11 Paesi ha dichiarato di avere un proprio medico di base, ma anche in questo caso gli Stati Uniti hanno la percentuale quasi più bassa (88%) seguiti solo dalla Svezia (87%) contro il 99% e il 100% rispettivamente di Paesi Bassi e Norvegia.
Da considerare correlato alla ridotta propensione delle donne statunitensi a valutare positivamente l’assistenza sanitaria offerta dal proprio paese è sicuramente anche il costo delle prestazioni, che devono essere sostenute direttamente dalla famiglia (out-of-pocket) per tutti quei servizi che non sono coperti dal sistema sanitario o dalle assicurazioni e per le quali il 22% delle donne ha riferito di spendere più di 2000$ all’anno, la percentuale più alta dopo la Svizzera con il 29% e distante anche dalla terza classificata, l’Australia con il 13%. In questa ottica si è visto anche che in USA le donne tra i 18 e i 49 anni sono tra le più propense a ritardare o addirittura non usufruire delle cure necessarie a causa dei costi: si tratta del 49% del campione. Quindi, quasi la metà delle donne pare propensa a rinunciare a un controllo o a ritardare un trattamento oppure salta una visita a causa dei costi. Questo deriva probabilmente dall’alto numero di donne non coperte da un’assicurazione sanitaria o che comunque non può usufruire di altri tipi di rimborso: quota che in USA arriva a circa 10 milioni. Non a caso, ben il 52% delle donne afferma di aver avuto difficoltà nel sostenere i pagamenti delle cure mediche. Ancora una volta, questa percentuale si discosta sensibilmente dagli altri paesi: al secondo e terzo posto troviamo la Francia con il 38% e la Svizzera con il 33%, chiude la fila la Gran Bretagna con il 10%.
L’indagine ci dà anche un altro segnale inquietante, quando ci mostra che il tasso di morti evitabili tra le donne statunitensi raggiunge quasi 200 su 100.000. Si tratta di decessi che si sarebbero potuti evitare con i giusti trattamenti o con cure tempestive, offerte al momento giusto. Questo dato fa riflettere sulle importanti carenze del sistema sanitario nell’erogazione non solo di cure ma anche di interventi di prevenzione e promozione della salute.
Nel 2020 negli Stati Uniti ci sono state quasi 24 morti materne ogni 100.000 bambini nati vivi, legate a complicanze del parto o della gravidanza; inoltre stratificando il dato, questo numero sale a 55.3 per le donne nere contro 19.1 e 18.2 rispettivamente delle donne bianche e ispaniche, e comunque ad anni luce di distanza dal secondo paese della graduatoria che è la Francia con 7.6 morti materne ogni 100.000 nati vivi.
A tal riguardo, alcuni mesi fa e precisamente il 24 giugno, la Corte Suprema ha rovesciato la sentenza del 1973 “Roe v. Wade“ che riconosceva una protezione costituzionale all’aborto all’interno del diritto alla privacy. Il giudice Samuel Alito, estensore della sentenza, afferma che “l’aborto rappresenta una profonda questione morale sulla quale gli americani hanno opinioni fortemente contrastanti” e per questo “l’autorità di regolamentare l’aborto deve essere restituita al popolo” (3). Con la pubblicazione della decisione della Corte Suprema sono entrate in vigore leggi che vietano o restringono fortemente il diritto all’aborto in 13 Stati fra cui Oklahoma, Texas, Utah, Louisiana. Altri Stati si preparano a introdurre restrizioni, mentre New York, California e altre realtà lungo le due coste intendono proteggere il diritto all’aborto, ospitando se necessario donne provenienti anche da quelle parti d’America che ha messo fuorilegge il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. La sentenza firmata da Alito, insieme ai giudici Barrett, Gorsuch, Kavanaugh e Thomas, ritiene che la sentenza “Roe v. Wade” del 1973, è stato un esercizio di “crudo potere giudiziario” non basato su fondamenti storici e costituzionali. Questo ragionamento mal si adatta alla realtà statunitense dove ogni anno si verificano circa 2,8 milioni di gravidanze indesiderate, pari al 45% delle gestazioni totali. Un tasso significativamente più elevato rispetto a molti dei Paesi sviluppati e che presenta importanti disparità razziali. Il 42% delle gravidanze indesiderati si conclude con un’interruzione volontaria di gravidanza (4).
Pertanto, il divieto per legge non fermerà di certo tutti gli aborti, ma solo quelli sicuri.
Viceversa, gli Stati che sicuramente non aboliranno la possibilità di abortire, si stanno già attrezzando aumentando il personale medico e per accogliere le donne bisognose e provenienti da Stati nei quali sta per essere negato questo diritto (5).
Gli ultimi due dati dell’indagine riguardano le patologie croniche e la salute mentale: le donne in USA (e in Canada) hanno la più alta probabilità di soffrire di malattie croniche (20%) e di avere necessità di supporto sanitario per problemi di salute mentale (58%).
Quello che emerge da questa indagine mostra ancora una volta e in maniera ancora più marcata come negli Stati Uniti non ci sia stata la volontà di investire nella salute primaria e in questo contesto le donne hanno sempre maggiori difficoltà di accesso all’assistenza medica. La tendenza si può certamente invertire anche concentrandosi sull’obiettivo di appianare queste differenze di genere. Quello che però sembra chiaro, alla luce delle ultime notizie, è che c’è una parte del Paese che mira ad inasprire ulteriormente queste difficoltà, mettendo per esempio in discussione il diritto all’aborto rendendolo una procedura sempre più difficile da eseguire, sicuramente più di quanto non sia per un diciottenne americano acquistare un fucile.
Giulia Ciardi, Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università degli Studi di Firenze
Bibliografia
- Eugene Declercq and Laurie Zephyrin, Maternal Mortality in the United States: A Primer (Commonwealth Fund, Dec. 2020)
- https://www.commonwealthfund.org/publications/issue-briefs/2022/apr/health-and-health-care-women-reproductive-age
- “Why Roe v. Wade must be defended” – The Lancet – 14.05.22 http://doi.org/10.1016/S0140-6736(22)00870-4
- https://www.guttmacher.org/fact-sheet/unintended-pregnancy-united-states
- Arianna Farinelli, “Il diritto all’aborto negli Stati Uniti: non lasciamo sole le donne”, 04.05.22,https://www.repubblica.it/commenti/2022/05/04/news/aborto_stati_uniti-348140139/
fonte: saluteinternazionale.info