Per ammodernare il Sistema sanitario nazionale, in modo da renderlo adatto ai bisogni di oggi e di domani, va attuato bene quanto prevede il Pnrr. Ma serve il contributo di tutti coloro che, a vario titolo, hanno responsabilità nella sanità.
La sanità nell’agenda di governo
Il governo si è scordato della sanità: sono state unanimi le reazioni e i commenti agli interventi in Parlamento del presidente del Consiglio da parte dei molti attori del settore – dai rappresentanti delle varie sigle che raggruppano le diverse categorie di medici, infermieri e altri operatori, alle associazioni di categoria dei farmacisti e dei dirigenti ospedalieri.
In realtà, più che sull’aver dimenticato di parlare della sanità (o di parlarne solo per strizzare l’occhio all’elettorato allergico alle politiche contro la pandemia, vaccini inclusi, come notato da alcuni), la lamentela non troppo velata si appunta sul fatto che il governo si sia già scordato della necessità di “investire in sanità”: sono i soldi da dedicare al Servizio sanitario nazionale nei prossimi anni quelli sui quali Giorgia Meloni non si è sbilanciata, nemmeno nella replica al Senato. Resta quindi ancora un mistero cosa farà il nuovo governo sul fronte del finanziamento al Ssn, atteso che la Nadef presentata dal governo Draghi ha solo descritto l’evoluzione della spesa e del finanziamento a legislazione vigente, senza tracciare il quadro programmatico, un compito che spetta chiaramente al nuovo esecutivo. Il finanziamento per il 2023 è quindi ancora tutto da definire.
Lo stato delle cose
Vediamo dunque qual è il quadro a legislazione vigente disegnato dalla Nadef. Dal lato della spesa, la previsione per il 2022 è a circa 134 miliardi di euro, in aumento di 6 miliardi sul 2021. Dal 2022 in avanti, la spesa a legislazione vigente è prevista in riduzione a 131,7 miliardi di euro nel 2023, 128,7 nel 2024 e 129,4 nel 2025; variazioni che, in percentuale del Pil, dovrebbero bruscamente riportare la spesa sanitaria dal 7,1 per cento del 2022 al 6,1 per cento del 2025. Le ragioni delle variazioni sono da rintracciare nei “minori oneri connessi alla gestione dell’emergenza epidemiologica” (queste le parole del governo uscente), a sostegno della tesi che il Covid-19 ha rappresentato una emergenza per la quale si sono mobilitate tutte le risorse che servivano (anche perché si sono sospese le regole fiscali europee). Poi, però, in tempi normali, si torna al passato, cioè alla politica di stabilizzazione della spesa in rapporto al Pil su valori un po’ sopra il 6 per cento.
Sul fronte dei finanziamenti, per il 2022, si certificano 1,483 miliardi di finanziamenti aggiuntivi per coprire, per esempio, i maggiori costi delle fonti energetiche e per il perdurare degli effetti della pandemia. Non è una novità: come mostra la Figura 1, negli ultimi anni il finanziamento è stato rivisto costantemente al rialzo per rispondere alle necessità che si sono presentate sul fronte della lotta al Covid-19. A legislazione vigente, per il 2023 e per il 2024 sono previsti rispettivamente 126 e 128 miliardi, cui si sommano circa 0,5 miliardi per anno destinati ai farmaci innovativi e ai contratti di specializzazione medica. Difficile parlare di tagli in questa situazione.
Figura 1 – Fabbisogno nazionale standard
Certo, in termini reali (e, quindi, in percentuale del Pil), i finanziamenti si riducono. Ma non è una novità, visto che la dinamica era già chiara lo scorso anno, nonostante il plauso nel dibattito pubblico ai 2 miliardi in più al Ssn. Ed è altrettanto ovvio che si possa spendere ancora di più: inutile dire che, per il settore, i finanziamenti dovrebbero crescere ancora, se l’obiettivo fosse quello di portare il paese a spendere quanto spendono in percentuale del Pil i nostri partner europei, in particolare Francia e Germania. Però andrebbe anche osservato che Francia e Germania dedicano circa un quarto della loro spesa pubblica alle pensioni, noi circa un terzo; e che il nostro welfare sia sbilanciato in questo senso non lo scopriamo oggi. A questo dovremmo aggiungere, tanto per fare un altro esempio, che le differenze nello stock di debito con Francia e Germania ci portano a dedicare 3,5 punti di Pil per coprire la spesa per interessi, contro lo 0,6per cento della Germania e l’1,4 per cento della Francia; che i disavanzi ripetuti sopra il 10 per cento del Pil degli anni Ottanta stiano condizionando il presente non è certo una novità.
L’emblematica crisi del pronto soccorso
Il tema quindi è quanto oggi (e domani) vogliamo e possiamo realmente permetterci di spendere per il Ssn. La crescita del Pil è certamente una precondizione perché si possa spendere di più e questo, di per sé, dovrebbe convincere tutti (anche gli stakeholder della sanità) che è fondamentale la buona realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (anche nella parte delle riforme e degli investimenti che riguardano la sanità). È per questo che occorrono idee chiare di dove si voglia andare.
La crisi del pronto soccorso e della medicina d’urgenza, affiorata sui giornali in questi giorni, dice almeno due cose risapute. La prima è che non è vero che manca il personale, mancano specifiche figure professionali, tra le quali, proprio quelle della medicina d’urgenza: si riesce a fare programmazione senza cadere preda delle lobby delle diverse specializzazioni? Si riesce a convincere, anche con appropriati incentivi economici, i neo-laureati in medicina a puntare su quelle specialità dove c’è reale carenza di personale? Si riesce ad affermare che, più che i medici, dovremmo cercare di rafforzare la componente degli infermieri, altra categoria per la quale sempre meno giovani iniziano il percorso formativo con la prospettiva quindi di competere sul mercato internazionale per attrarre queste figure professionali?
La seconda è che la crisi del pronto soccorso è la crisi della medicina territoriale: ci dimentichiamo periodicamente che larga parte degli accessi, quelli che aspettano ore, in pronto soccorso non dovrebbero neanche andarci. Il problema, noto da decenni, è che non ci sono alternative reali. Si riesce a superare la preferenza per lo status quo della lobby dei medici di medicina generale? Si riesce ad affermare senza pregiudizi ideologici che il privato, spesso nonprofit, è fondamentale per costruire la rete territoriale dei servizi residenziali e semi-residenziali, che andranno rafforzati per evitare che gli ospedali svolgano la funzione impropria di assistenza a costi improponibili per la società?
Il pronto soccorso è solo un esempio, che però tocca tanti temi. La questione di fondo è se e come si voglia realmente ammodernare il Ssn per renderlo adatto ai bisogni di oggi e di domani sfruttando l’occasione del Pnrr. Ma senza il contributo degli stakeholder del settore e la rinuncia a qualche loro rendita sarà molto difficile riuscirci.
fonte: lavoce.info
Gilberto Turati è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. E’ membro del Comitato Direttivo della Società Italiana di Economia Pubblica (Siep). Fa parte della redazione de lavoce.info, del comitato di redazione di Politica Economica – Journal of Economic Policy e del comitato scientifico del Journal of Public Finance and Public Choice. E’ external affiliate dell’Health, Econometrics and Data Group del Centre for Health Economics della University of York. Ha diretto per diversi anni il Master in Economia e Politica Sanitaria del Coripe Piemonte e dell’Università di Torino (dove è stato prima ricercatore, poi professore associato). E’ stato membro del Board della European Public Choice Society (EPCS) per il term 2012-2015 e dell’Organismo Indipendente di Valutazione della Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino.