L’introduzione dell’Assegno unico e universale (Auu) per i figli in Italia ha rappresentato una importante novità nel panorama delle politiche familiari. Tradizionalmente le politiche a sostegno delle famiglie con figli in Italia erano pensate quasi esclusivamente a contrasto della povertà. L’Auu, invece, è stato disegnato come una politica a sostegno delle scelte e delle responsabilità genitoriali. Almeno alcune delle sue caratteristiche vanno, infatti, nella direzione di promozione della fecondità.
In questo contributo vengono esaminati i principali punti di forza e di debolezza dell’Auu, sia come impostazione che nella fase di implementazione. Viene, inoltre, offerta una comparazione internazionale con strumenti simili attivi in altri paesi europei.
Tra i punti di forza si sottolineano gli aspetti di semplificazione e potenziamento dell’insieme delle misure precedenti rivolte alle famiglie con figli a carico, la combinazione tra universalità e progressività e l’impulso all’occupazione delle madri.
In particolare, nell’Auu confluiscono le variegate politiche preesistenti a sostegno delle famiglie con figli, che si configuravano come un sistema di trasferimenti per certi versi iniquo e inefficiente (gli Assegni ai nuclei familiari, le Detrazioni per figli a carico, i vari bonus una-tantum, come il Bonus bebè e il premio alla nascita). Inoltre, rispetto alle precedenti misure che l’Auu va a sostituire, il beneficio viene ora esteso a tutte le famiglie con figli a carico. In altri termini, vengono interessate in questo nuovo strumento anche alcune categorie escluse dai trasferimenti precedentemente in vigore, come gli autonomi e i disoccupati.
La componente «universale» (ovvero indipendente dal reddito) dell’Auu però rappresenta il vero elemento distintivo di questo nuovo strumento. La base universale viene infatti riconosciuta a tutti i bambini/ragazzi dal 7 mese di gestazione a 18 anni (fino a 21 se ancora a carico dei genitori), indipendentemente dal reddito, dalla condizione occupazionale e dalla cittadinanza dei genitori. Tuttavia, l’Auu non si stacca del tutto dall’approccio delle misure (di carattere redistributivo) che ha sostituito. Questo porta a configurare l’assegno come somma di una parte fissa, universale, con una variabile inversamente legata alla ricchezza familiare.
Infine, l’Auu non è solo uno strumento a favore della natalità e a sostegno della genitorialità, ma premia anche, con un supplemento specifico, l’occupazione di entrambi i genitori, di fatto traducendosi in un incentivo all’occupazione delle madri.
Uno dei principali punti deboli è la (attuale) quota universale relativamente bassa: in Germania – dove le recenti politiche familiari sono riuscite a frenare la denatalità e a invertire la tendenza – l’importo della parte universale è 4 volte superiore alla base dell’Auu. Se paragonata poi alla spesa media mensile in Italia per figli a carico, la base universale è da 10 a 15 volte inferiore.
Inoltre, viene meno premiato l’arrivo del primo e del secondo figlio (rispetto a quelli di ordine superiore), questione rilevante visto che la bassa natalità italiana si caratterizza per un accentuato posticipo dell’entrata nella genitorialità e una bassa progressione dalla prima alla seconda nascita.
Infine, la necessità di presentare l’Isee è un’ulteriore complicazione che pesa soprattutto sul ceto medio. Oltretutto, il vincolo dell’uso dell’Isee per ottenere l’assegno a cui si ha diritto, oltre ai limiti che ha l’Isee in sé come criterio, va in direzione opposta al principio di semplificazione, soprattutto se si considera che tale attestazione va ripresentata annualmente per permettere il ricalcolo dell’importo dell’assegno. Seppur con tutti i limiti citati sopra, l’Auu rappresenta una misura necessaria in un contesto, come quello italiano, dove la meno solida posizione nel mercato del lavoro dei giovani italiani, le maggiori difficoltà a conciliare il lavoro di entrambi i membri della coppia con la cura dei figli, e i più deboli e frammentati strumenti di sostegno economico alle famiglie con bambini rendono relativamente più rilevante rispetto alla media europea l’impatto di una nascita sull’economia familiare.
Tuttavia, per essere uno strumento efficace in termini di politiche familiari, come mostrano ricerche ed esperienze europee, non solo andrebbe rafforzata l’effettiva «universalità» della misura, ma andrebbe affiancata da un (necessario) potenziamento dei servizi alle famiglie, come previsto nel Family Act ma ad oggi ancora insufficienti e iniquamente accessibili, sia per il costo (uno dei più elevati in Europa), sia per la loro disomogenea diffusione sul territorio.
Per meglio valutarne i limiti e le potenzialità, gli autori sottolineano la necessità di un attento monitoraggio e una valutazione dell’efficacia rispetto ai risultati attesi, con l’obiettivo di confrontare qual è l’impatto della misura sui progetti familiari dei beneficiari, l’impatto distributivo, i principali problemi di take-up e di implementazione del programma.
Alla valutazione dovrebbe poi corrispondere un progressivo adeguamento, così da attivare un processo in cui chi ha un figlio (la scelta del presente più impegnativa verso il futuro) sa che nasce e cresce in un paese che è impegnato in un percorso di miglioramento continuo delle condizioni di contesto.
Alessandro Rosina è professore ordinario di Demografia presso l’Università Cattolica di Milano, dove dirige il «Center for Applied Statistics in Business and Economics». Francesca Luppi è ricercatrice in Demografia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e fa parte del gruppo di esperti «Demografia e Covid» presso il Dipartimento per le Politiche della famiglia (Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Fonte: RPS La Rivista delle Politiche Sociali
Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 1 2022 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link: https://www.futura-editrice.it/wp-content/uploads/2022/07/RPS-2022-1-10-Rosina-Luppi.pdf