Perché incontrarci a ragionare sulla legge 180, dopo quarant’anni, concentrandoci sui temi della fragilità e della pericolosità?
Credo che la legge abbia in sé un nucleo di incompiutezza che si protende verso il futuro e sollecita la nostra riflessione, come fosse una sfida a realizzare principi irrinunciabili, anche correndo rischi prevedibili, accettati e condivisi.
Siamo qui perché, oggi, noi siamo il futuro della 180 e dobbiamo conoscere e capire che cosa ha significato e significhi per i pazienti e le loro famiglie, per la comunità a cui appartengono, per i servizi e per gli operatori che se ne prendono cura.
Oggi tocca a noi schierarci nell’articolato dibattito in cui è ancora difficile non mettere i matti da una parte e la società dall’altra, a maggior ragione se si tratta di matti ritenuti pericolosi. Così com’è difficile riconoscere il diritto di tutti ad avere voce in capitolo quando si tratta della propria vita.
La 180 nasce durante il dibattito parlamentare sui principi ispiratori del Sistema Sanitario Nazionale, che in una prima versione riconosceva ancora nella pericolosità sociale il criterio ispiratore dell’intervento psichiatrico. Ha il destino di tutte le leggi che raccolgono i fermenti propulsivi di gruppi sociali innovatori, indicando nuovi modelli operativi che concretizzano un’etica nuova e una nuova cultura.
Inevitabilmente, leggi di questo tipo sono il risultato di uno scontro e di una mediazione tra le spinte innovative e quelle conservatrici presenti nella società, nelle commissioni parlamentari e nel parlamento legiferante.
Per la 180 si trattò di una preparazione e di un conflitto lunghi, durati quasi vent’anni, accompagnati dalla lenta diffusione di una coscienza sociale degli orrori del manicomio e dal rifiuto della segregazione che i malati subivano nei manicomi d’Italia, spogliati persino della propria storia e della propria identità,.
La legge fu preceduta da diversi tentativi di umanizzare il manicomio e organizzare il territorio per garantire alternative all’internamento. Dieci anni prima, l’esigenza di un’ampia riforma del sistema ospedaliero, in particolare degli ospedali psichiatrici, si era imposta anche a livello istituzionale traducendosi nella legge n° 132 del 1968, conosciuta come Legge Mariotti.
Tuttavia la 180 riguarda non solo il manicomio ma anche altri temi particolarmente “caldi” e di grande risonanza culturale ed emotiva. “Pericolosi” e utopici a giudizio di alcuni, per altri sono irrinunciabili principi di civiltà: la volontarietà delle cure per i malati di mente, il diritto all’autodeterminazione dei “folli”, la rinuncia alle pratiche restrittive, che tutti vorrebbero eliminare anche se molti le ritengono inevitabili, in casi particolari ma non eccezionali, la liceità e la costituzionalità degli accertamenti e dei trattamenti obbligatori, la distinzione tra cura, normalizzazione e contenimento sociale e il conseguente ruolo della psichiatria, l’attenzione ai bisogni e alle risorse personali prima che ai sintomi.
Perciò, è comprensibile che nessuna delle parti in campo sia stata soddisfatta dal testo della legge e che, in questi 40 anni, siano stati proposti numerosi disegni di legge allo scopo di migliorare, perfezionare, concretizzare, dare attuazione, modificare, abolire la 180, oppure tutelare i diritti personali o la sicurezza sociale. L’ultimo di questi è il DDL 2850 del 13/05/2017.
La legge è uno dei frutti dell’azione e della riflessione clinica, sociale e politica di singoli o di gruppi, attivi in diversi luoghi d’Italia, mossi dal disgusto per situazione presente, accomunati da una formidabile capacità di lavoro in condizioni avverse e animati da una inusuale determinazione a perseguire un principio, etico prima che scientifico. Psichiatri e amministratori che non potevano accettare né l’intrinseca, alienante brutalità del modello manicomiale di custodia e cura – sancito dalla Legge n. 36 del 1904 – né l’identificazione della sofferenza psichica con l’irresponsabilità e la pericolosità sociale, né la violenza insita nei trattamenti, sui quali il malato non poteva negoziare dopo essere stato privato, al momento del ricovero, dei diritti sociali e politici.
Il gruppo più famoso si forma intorno al prof. Franco Basaglia, direttore del manicomio di Gorizia dal 1961 al 1969. Dopo l’esperienza di Gorizia, i suoi esponenti saranno attivi su tutto il territorio italiano.
Il loro lavoro dentro il manicomio è condotto favorendo in ogni modo l’interazione tra manicomio e mondo esterno (volontari, intellettuali, libri, interviste, programmi televisivi….) ed è parte integrante delle turbolenze, delle conquiste e delle sofferenze della società italiana degli anni ‘60 e ’70 del 1900. In quegli anni, il movimento antiistituzionale rimette in discussione la famiglia, la scuola, l’esercito, la chiesa, le istituzioni politiche e giudiziarie mentre la nuova psichiatria critica radicalmente i principi ispiratori dell’istituzione manicomiale, ritenuti non solo antidemocratici ma anche antiterapeutici.
Da un sistema fondato su:
- gerarchia
- espropriazione: i pazienti erano privati delle proprie cose, dei vestiti, dei capelli, non avevano un armadio o un comodino propri, non potevano decidere nulla che riguardasse la propria vita quotidiana o il proprio futuro
- separazione/segregazione: grate, porte chiuse, reparti femminili e maschili, ricorso abituale alla violenza, contenzione, isolamento
- negazione della soggettività e dell’autodeterminazione
- trascuratezza dei bisogni primari
- cancellazione della storia individuale,
si passa a una gestione nuova: i pazienti sono considerati persone capaci e responsabili, vengono sollecitati all’incontro, alla discussione, alle relazioni interpersonali, alla condivisione delle decisioni in assemblea. Si lavora per ridare loro la libertà e il potere decisionale, ispirandosi al modello della “comunità terapeutica” e inserendosi nel flusso dei cambiamenti teorici e operativi che interessa la psichiatria europea di quegli anni.
Sono “Utopie della realtà” che in Italia diventano azioni concrete di cambiamento, non solo della psichiatria ma della società.
Mentre quello che accade a Gorizia e poi a Trieste assume una risonanza internazionale, ma è preceduto e accompagnato da altre esperienze che contribuiscono al cambiamento della psichiatria italiana.
Si pensi alla spinta innovatrice di Ilvano Resimelli (eletto presidente della Provincia di Perugia nel 1964) e di Carlo Manuali (psichiatra nel manicomio di Perugia) che rivoluzionano l’assistenza psichiatrica a Perugia e in tutta l’Umbria dal 1965 al 1978: umanizzazione del manicomio, dimissione di gran parte dei pazienti, organizzazione di una capillare rete di servizi territoriali, coinvolgimento della popolazione in assemblee e dibattiti, appoggio dell’amministrazione locale. Nel 1968, a Perugia apre il primo CIM italiano, secondo le indicazioni della Legge Mariotti.
Franco Basaglia è in contatto con Sergio Piro che dirige il manicomio Materdomini di Nocera Superiore (SA) dal 1959 al 1969, avvia una comunità interna al manicomio ripetendo l’esperienza di Gorizia e per questo viene licenziato.
Nel 1965, Mario Tommasini, eletto assessore provinciale con competenza nella gestione del manicomio di Colorno, reagisce alla “visione dell’inferno” con un processo di riforma radicale che prevede umanizzazione e svuotamento del manicomio, anche contro il parere del direttore e contro una buona parte degli infermieri; organizzazione di servizi territoriali, reperimento di alloggi, ricerca di opportunità di lavoro.
Quando Franco Basaglia diventa Direttore dell’Ospedale S. Giovanni di Trieste, nel 1971, la sua azione è guidata dalla riflessione critica sull’esperienza di Gorizia dalla quale origina la convinzione che qualunque tentativo di migliorare la vita all’interno del manicomio l’avrebbe forse trasformato in una gabbia dorata, che però rimaneva pur sempre una gabbia, isolata in un contesto sociale e politico ostile. L’obiettivo diventa la chiusura del manicomio e il potenziamento dei servizi territoriali, per evitare che la dimissione si trasformi in un abbandono.
Il progetto è portato a termine dal 1971 al 1980. Dal 1971 al 1978 i ricoverati non volontari passano da 1182 a 87 e il 21/04/1980 l’Amministrazione provinciale di Trieste dichiara ufficialmente: “L’ospedale psichiatrico di Trieste può cessare le sue funzioni ed essere soppresso”. Trieste diventa la prima città al mondo in cui il manicomio viene chiuso.
Questa azione comportò una lotta politica durissima contro la magistratura, la stampa e le forze politiche più conservatrici.
Il timore della pericolosità sociale dei pazienti fu un’ombra, un fantasma che ha accompagnato costantemente il cambiamento in corso.
Fin dall’inizio Basaglia era consapevole che il nodo della pericolosità costituiva un’insidia: sarebbe bastato un “incidente” per frenare il processo:
“In una realtà in rovesciamento […] un passo falso o un errore possono confermare – agli occhi dell’opinione pubblica – l’impossibilità di un’azione” (F. Basaglia e F. Ongaro, 1968)
E gli incidenti, tragici, ci furono e diedero forza alle voci che si opponevano alla trasformazione in corso. Gli attacchi furono durissimi: “Questo pugno di contestatori e sovversivi mette in circolazione gli assassini” (da un manifesto dell’epoca)
Rimane la domanda di Basaglia:
“Possiamo, per uno che uccide condannare alla morte civile migliaia di uomini, possiamo rinunciare alle pratiche che vogliono guarire, possiamo tornare ad essere carcerieri implacabili di gente fragile, per conto di un metodo che non vuole problemi?” (F. Basaglia, 1971)
Tra questi contrasti si arriva alla promulgazione della legge 180, in un precipitare di eventi che accellerarono il processo: votata in venti giorni, sotto la pressione del Referendum Radicale abrogativo della legge del 1904; firmata dal Capo dello Stato il 13/05, è pubblicata su G. U. n. 133 del 16/05/1978, neppure discussa in Parlamento ma solo nelle commissioni di Camera e Senato, frutto di intesa e compromesso tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista in cui nessuno, tantomeno Basaglia, vede accolte integralmente le sue tesi.
Primo firmatario e promotore è On. Bruno Orsini , democratico cristiano ed esponente dell’AMOPI (Associazione Medici ospedali psichiatrici italiani) molto più moderata di Psichiatria Democratica.
Il clima sociale e politico in cui la legge viene promulgata è drammatico, dominato dall’angoscia nazionale per la morte del Presidente del Consiglio Aldo Moro, ucciso dalla Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia, il 09 maggio.
F. Basaglia, insieme a Pschiatria democratica, espresse un giudizio severo sui limiti e le ambiguità della legge:
“E’ una danza di principi vecchi e nuovi evidente risultato di un lavoro di compromesso, che rischia di lasciare le cose come sono, con tutto il potere delegato ai medici e ad altri personaggi che non hanno nulla a che fare con la cura dei malati. Inoltre la legge presuppone un’organizzazione sociale completamente diversa e assolutamente democratica , e ciò non è” (1978)
Nella legge non sono definiti i tempi del cambiamento, la natura dei servizi, la loro organizzazione; la misura in cui si può ricorrere al TSO viene lasciata alla discrezione delle singole amministrazioni locali, dei medici, dei giudici.
Non sono previsti i finanziamenti per trovare alloggio e impiego alle migliaia di ex-pazienti; non si affronta il problema dei lavoratori che perdono il posto con la chiusura degli ospedali psichiatrici
Dopo la legge, la riforma si è affermata in modo disomogeneo nei tempi e nei modi: ci sono voluti vent’anni per arrivare alla chiusura definitiva dei manicomi, con grandi differenze tra una regione e l’altra.
Tuttava una cosa è chiara, come scrive Franca Ongaro Basaglia, pochi mesi dopo la promulgazione della legge:
“Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza”
(F. Ongaro Basaglia, 19/09/1978)
Il dibattito sulla legge, e sulla psichiatria da cui è nata e che ne deriva, continua perché essa prospetta modelli dell’agire psichiatrico realizzati solo parzialmente nella normale operatività dei servizi pur essendo ormai parte della cultura condivisa dalla comunità scientifica nel campo della salute mentale:
- la realizzazione nella pratica clinica del diritto del paziente di esprimersi liberamente, di muoversi liberamente, di manifestare i propri bisogni e avere un reale potere contrattuale anticipa di 40 anni quello che oggi chiamiamo empowerment;
- sollecitare il paziente a riappropriarsi della vita, degli affetti, del proprio ruolo sociale, recuperando potenzialità e aspettative anche se i sintomi non scompaiono del tutto, è uno stile di lavoro orientato alla recovery, con quarant’anni di anticipo, prima che il modello biologico e le terapie farmacologiche mostrassero i loro limiti nei trattamenti cronici e rendessero la recovery una necessità, prima che un diritto;
- L’accento sull’eccezionalità dei trattamenti coercitivi/obbligatori, sempre attuati “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura” e sempre “accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”.
Infine,
- la valorizzazione delle variabili sociali, relazionali e psicologiche nel favorire il decorso positivo o negativo dei disturbi mentali e il superamento del riduzionismo biologico, che s concentra sulla malattia e trascura la persona. Riguardo a questo orientamento, lo stesso Basaglia ebbe un ripensamento:
“Penso che abbiamo commesso un grosso errore quando abbiamo creduto di dover attaccare il manicomio per far emergere il vero volto della malattia e di conseguenza ci siamo detti che, in pratica, avremmo dovuto mettere la malattia tra parentesi” (F. Basaglia 1979)
Eppure, esso assume oggi maggior fondatezza scientifica di quanto non ne avesse allora, grazie agli innumerevoli studi di genetica, epigenetica, neuromaging funzionale e allo sviluppo delle neuroscienze, che avvalorano l’ipotesi di un legame strettissimo tra esperienze personali, relazionali, culturali, psicoterapeutiche ed espressività genica, funzionamento cerebrale, modificazione dei sintomi e della sofferenza psichica. Per non parlare dell’importanza dello stress cronico o degli abusi in età infantile sullo sviluppo cerebrale.
E’ sempre più verosimile che lo slogan “La libertà è terapeutica” diventi una verità scientifica.
Oggi più di allora ci sono valide motivazioni scientifiche per costruire servizi territoriali forti e articolati, vicini ai luoghi in cui vivono i pazienti, connessi alla comunità e agli enti locali, dotati di risorse umane ed economiche senza le quali un progetto così ambizioso non può realizzarsi.
Noi, con infinite contraddizioni, raccogliamo questa eredità e ci interroghiamo:
- a proposito di empowement: come gestire i servizi in cui il potere decisionale sia condiviso con i pazienti o i familiari: quali poteri ha davvero un “ospite” di un gruppo appartamento o di una casa famiglia o di una residenzialità leggera. Chi decide chi entra in casa e quando? Che poteri di autodeterminazione ha un utente del centro diurno? Che cosa può scegliere contro il parere degli operatori? Ma anche: è garantita la libertà e l’autonomia dei curanti nel proporre il trattamento migliore sulla base delle evidenze scientifiche senza sottostere alle pressioni sociali e ideologiche?
- come recuperare l’unità e l’identità di una psichiatria che si colloca tra le scienze naturali, le scienze sociali, quelle psicologico/umanistiche, per riattribuire unità all’esperienza della sofferenza psichica e della persona che la vive? Come rispondere ai giudizi cui siamo continuamente esposti, tanto autorevoli quanto contraddittori e discutibili? Nel 2012 la prestigiosa rivista Lancet (2012) afferma che la percezione comune nell’ambito della professione medica è che la psichiatria non sia abbastanza scientifica e che sia troppo distante dal resto della medicina. Che sia necessario un suo riallineamento ad un modello biomedico della salute mentale. Più recentemente il Rapporto Speciale dell’ONU del 2017 esprime il seguente giudizio: “per decenni, i servizi di salute mentale sono stati governati da un paradigma biomedico riduzionista che ha contribuito all’esclusione, alla trascuratezza, ai trattamenti coercitivi e agli abusi nei confronti delle persone con disabilità intellettive, cognitive e psicosociali” Esposti alla complessità dei problemi che dobbiamo affrontare, a giudizi generici e contraddittori a cui siamo sottoposti e alle innumerevoli richieste che ci vengono rivolte non è facile mantenere la consapevolezza della nostra identità e una pratica clinica basata sulle evidenze scientifiche e sul rispetto, la dignità e i diritti della persona.
- Come conciliare la complessità degli obiettivi e degli interventi, la prossimità e continuità assistenziale, i percorsi di cura individualizzati, la presa in carico di pazienti e famiglie, l’attenzione ai bisogni e l’orientamento alla recovery con DSM spesso troppo ampi e personale sempre più ridotto? Sono significativi i risultati di un recente studio multicentrico italiano, presentato dalla pf.ssa Galderisi durante il congresso della SIPS, tenutosi a Napoli nel gennaio scorso. Sono stati studiati i programmi terapeutici territoriali di più di 1000 soggetti affetti da disturbi psichici gravi (spettro schizofrenico) seguiti in diversi servizi italiani: il 73% riceve esclusivamente un trattamento farmacologico; il 27% un trattamento integrato, definito con una soglia molto bassa: Farmaci + gruppi di auto aiuto; farmaci + CD; farmaci + interventi riabilitativi generici. Solo una piccola minoranza usufruisce d’interventi riabilitativi di riconosciuta efficacia.
- Come affrontare il rifiuto delle cure, dei comportamenti aggressivi e violenti e della pericolosità di alcune persone affette da un disturbo mentale,? Come regolamentare ASO e TSO? Come affrontare il tema della contenzione e come conciliare il rispetto della libertà e il diritto alla volontarietà dei trattamenti, stabiliti dalla Costituzione, con la posizione di garanzia a cui è tenuto l’operatore sanitario? Come accettare la libera scelta del paziente e ottemperare nello stesso tempo all’obbligo di impedire eventi avversi che ne minaccino l’integrità e la vita o comportamenti che potrebbero compromettere l’integrità altrui?
- Come affrontare comportamenti esplosivi, impulsivi, o strumentalmente e consapevolmente minacciosi e violenti, dispotici e antisociali, forse rari ma non eliminabili con dichiarazioni di principio e certo non sempre attribuibili all’imperizia degli operatori?
- Come lavorare con pazienti che commettono i reati, la cui pericolosità è cancellata per legge ma continua ad essere presente nel codice penale?
- Come restituire i diritti di cittadinanza ai pazienti riconoscendo, nello stesso tempo, i diritti agli operatori, e come costruire relazioni terapeutiche fondate sulla condivisione di diritti, doveri e responsabilità, nelle quali il rispetto per la dignità del paziente sia perseguito nel rispetto della dignità di chi si prende cura di lui?
Qualunque sia la risposta a queste sfide deve essere chiaro che il pensiero e il lavoro di Basaglia – e la legge 180 che ne costituisce l’approdo (anche se certo mai immaginato come definitivo né in sé risolutivo) – vanno letti come la prosecuzione di un pensiero lungo, che ha la sua origine nella Costituzione e che tenta di portarne lo spirito nel territorio del manicomio e della follia da cui era stato escluso per trent’anni.
D’altra parte lo stesso Basaglia definì la 180, ormai confluita nella 833, «soltanto l’inserimento nella normativa sanitaria di un elemento civile e costituzionale che sarebbe dovuto esservi implicito».
E la Costituzione è chiarissima:
Art. 13
«La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». E poi ancora: «E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Art. 32:
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Le risposte alle sfide della 180 non saranno altre leggi che ribadiscano ancora gli stessi principi, illudendoci che questo basti a realizzarli, ma cambiamenti realistici e concreti nel nostro modo d’essere e di lavorare.
“Bisogna tenere ben salde nella memoria le leggi che hanno segnato conquiste sociali e diritti civili. Bisogna rinunciare a ogni forma di autocompiacimento e adesione fideistica alla funzione salvifica di una legge, di un modello o di un algoritmo. Sono sempre coperte troppo corte o inadeguate. Non aver timore di promuovere idee innovative e di lavorare su progetti e obiettivi ambiziosi, allineare le evidenze scientifiche con la pratica del mondo reale, implementare un’informazione scientifica equilibrata e controllata; ridurre la distanza tra le persone che necessitano di un trattamento e quelle che realmente lo ricevono; ridurre la distanza tra efficacia ed efficienza, applicare concretamente il modello dell’assunzione di decisioni condivise e, infine, contrastare l’oscurantismo pseudoscientifico spesso alimentato da pregiudizi ideologici….Abbattere ogni forma di stigma e di discriminazione” (S. De Giorgi, gennaio 2018)
Infine, bisogna monitorare e valutare gli interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi considerando non solo adeguatezza, appropriatezza, efficacia ed efficienza ma anche e sempre rispetto e dignità, di pazienti e operatori.
Fonte: http://www.news-forumsalutementale.it/i-40-anni-della-legge-180/