Oltre la 180 è un titolo appropriato per l’interessante libro di Ivan Cavicchi. In modo semplice e immediato è un invito a non fermarsi alle autocelebrazioni.
Va però chiarito che andare oltre la 180 non significa superarla, ma ripartire da questa legge che ha determinato il passaggio storico della chiusura dell’esperienza manicomiale nel nostro paese. Infatti, ho sempre criticato i diversi progetti di cambiamento, anche se avevano l’obbiettivo di una sua più dettagliata articolazione, perché si tratta di una legge di principi da salvaguardare. Certamente il punto di partenza per andare oltre la 180 è la situazione critica dei servizi, e quindi degli utenti, delle famiglie e del personale.
La rete pubblica dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) è ancora in piedi, grazie in primo luogo ai tanti operatori appartenenti alle diverse professioni che quotidianamente sono in prima linea per cercare di dare risposte alle richieste di centinaia di migliaia di cittadini. Ma le risorse sono decrescenti, i riferimenti culturali sempre più flebili, con una formazione ed una pratica sul campo che rischia di scivolare verso il riduzionismo biomedico ed organicista. Senza considerare che, con la pandemia, la situazione del disagio mentale è certamente peggiorata, soprattutto per gli adolescenti, come finalmente riportato anche dai mass media.
Il tema della inclusione sociale è ancora presente nei testi scritti e nei convegni, ma sempre meno nella società, dove i pregiudizi sulla pericolosità, inguaribilità e improduttività sono diffusi, come ha recentemente dimostrato l’indagine nazionale condotta dalla BVA DOXA per il Festival della salute mentale RO.MENS per l’inclusione sociale contro il pregiudizio organizzato dal Dipartimento di Salute dell’ASL Roma 2, con il patrocinio di Roma Capitale e della RAI (www.salutementale.net).
In occasione della giornata mondiale della salute mentale del 10 ottobre 2022 la stessa OMS ha richiamato come fondamentale anche il contrasto allo stigma ed ai pregiudizi.
Che fare
C’è bisogno di chiamare a ragionare e a confrontarsi tutti gli attori, come ha chiesto nel suo libro da leggere Ivan Cavicchi, e come sta realizzando in modo meritevole Quotidiano Sanità. Ma la discussione non dovrebbe poi rimanere chiusa all’interno degli addetti lavori, ma rappresentare il punto di (ri)partenza per la politica e per le istituzioni, dal Governo al Parlamento, dalle Regioni ai Comuni.
Per quanto mi riguarda, come propongo ormai da alcuni anni, bisognerebbe mettere in atto un ventaglio di progettualità, collegate tra loro, anche di natura culturale e formativa, attraverso un piano straordinario nazionale per la salute mentale.
Le risorse
Centrale è il tema delle risorse umane, senza le quali non è possibile attuare una salute mentale di comunità, fondata sulla relazione umana, sull’ascolto e sul confronto. In questo quadro l’aspetto della psicoterapia va rilanciato all’interno del servizio pubblico, anche per garantire trattamenti appropriati per le persone con grave sofferenza psichica, così come l’assistenza psicologica di base nelle scuole, nei distretti sanitari, nelle case della comunità e negli stessi ospedali. Senza operatori, adeguatamente formati, non rimane che l’asse psicofarmaco/ricovero, che in termini di servizi si traduce in ambulatorio/Spdc/strutture residenziali. Il rischio è una mozzatura del paradigma bio-psico-sociale, che dovrebbe rappresentare la bussola dei DSM, con il trattino dopo il bio trasformato in un muro insormontabile.
Per queste ragioni, per andare oltre la 180, va ricordato al Governo, al Parlamento ed alle Regioni l’impegno del 5% dei fondi sanitari per la salute mentale. Fermo a circa il 3%: in termini assoluti sono mancanti circa 2 mld di euro.
Certamente appare impensabile nell’immediato un investimento così ingente, a fronte della situazione sociale ed economica che rischia di peggiorare nelle prossime settimane, con il paradosso di un probabile aumento del maggiore disagio mentale a fronte di una diminuzione della possibilità di dare risposte appropriate. Ma va pianificato un costante aumento degli investimenti in ambito sanitario e sociale. Con la consapevolezza che il PNRR per la salute mentale rappresenta una occasione mancata.
In questo percorso le istituzioni e la politica dovrebbero, una volta per tutte, rendere esigibili l’integrazione socio sanitaria e la realizzazione del budget di salute, obbiettivo di grande rilevanza ma che si scontra nella realtà con le divisioni sul campo tra sociale e sanitario, tra ASL e Comuni. Si dovrebbero realizzare più campagne culturali per l’inclusione sociale contro i pregiudizi, con un lavoro di sensibilizzazione con il coinvolgimento dei mass media, a partire dalle scuole.
Un piano pluriennale
C’è quindi bisogno di piano pluriennale pluriarticolato fondato in primo luogo sulla implementazione dei servizi pubblici resi dai DSM, lasciando la strada sbagliata della privatizzazione suffragata dall’istituzione del bonus psicologo, un voucher dato ai cittadini (pochi) per recarsi da psicoterapeuti privati (per poche sedute),
Ben venga, allora, la riapertura del dibattito sulla 180, senza steccati ideologici ma affrontando la realtà dei DSM italiani, con la consapevolezza delle criticità e delle contraddizioni, avendo presente che si tratta di una partita che si gioca all’interno del più ampio campionato per la vittoria della sanità pubblica.
Ha ragione Ivan Cavicchi quando afferma che è necessario riaprire un dibattito per liberare la barca dalle secche in cui si è arenata da anni.
Quale DSM
In questo quadro gli operatori dei DSM si trovano in mezzo ad un guado. Con continui esercizi di equilibrismo, come direbbe Ivan Cavicchi.
Sempre di meno ma con più richieste, che tendono ad allargare il campo di intervento anche in ambiti ai confini ed oltre.
Non mi riferisco solo alle dipendenze o alla disabilità, ma anche al barbonismo, alle personalità antisociali, e più in generali ai diversi comportamenti “anomali” e violenti.
Senza tenere conto che nella persona l’istinto della violenza c’è sempre stato e che il più delle volte non è certamente correlato a un disturbo mentale. Ma classificare tutto ciò come follia da assegnare ai DSM, e forse più rassicurante e comodo.
A fronte di questa situazione dobbiamo ristabilire le responsabilità, pur nella consapevolezza dei cambiamenti dei disturbi e dei fenomeni in atto a partire dalle migrazioni.
Dobbiamo mettere particolare attenzione a non fare diventare i DSM contenitori nei quali scaricare le diversità, ma come luoghi di prevenzione e trattamento delle persone con disturbi mentali, compresi i minori, con i disturbi del comportamento alimentare, con una stretta collaborazione con i servizi delle dipendenze, stante la sempre più frequenza della coesistenza, in particolare tra i giovani, con l’uso di sostanze.
Un DSM che, contemporaneamente, non deve essere un fortino con le mura, ma con tanti ponti e strade che portano al di fuori nei distretti sanitari e nel tessuto cittadino, con una commistione di saperi e di esperienze.
Il supporto all’abitare
I DSM, con rinnovate risorse, dovrebbero riprendere ad impegnarsi per la realizzazione di una rete estesa, interna tra servizi territoriali ed ospedaliere, ed esterna nei territori di riferimento.
Pensiamo alla sfida dell’abitare, priva fino ad oggi di indicazioni nazionali. Infatti, sono stati scritti documenti istituzionali sui TSO, sulle strutture residenziali, e sui PDTA, ma nessun articolato documento istituzionale a livello nazionale ha affrontato il tema del supporto all’abitare per persone con grave sofferenza psichica, senza che appartamenti civili all’interno del tessuto cittadino vengano trasformati dalle Regioni in strutture residenziali da autorizzare, con requisiti strutturali e non solo, difficilmente raggiungibili. Un supporto all’abitare che, con operatori impegnati nell’assistenza in modo flessibile, non si rivolga solo all’interno della casa, dalle pulizie alla cucina, ma soprattutto al di fuori, nei luoghi vita del quartiere, con l’obbiettivo di un (re)inserimento. Come ben articolato nei progetti Europei HERO e CIVIC (www.housing-project.eu).
Il lavoro
È ora, nel ventaglio delle proposte, di riparlare di lavoro in modo concreto, del ruolo della cooperazione sociale da rivalutare, e dei necessari cambiamenti della legislazione sul lavoro per rendere esigibili le quote assunzionali dovute nell’ambito delle amministrazioni pubbliche e del privato.
I cambiamenti
Serve una progettualità condivisa ed attuabile che parta dalla grande storica chiusura dei manicomi, per arrivare alla relazione con l’unicità biografica e dalla complessità di ciascuno, per dare più respiro all’attività dei servizi di salute mentale tenendo conto dei cambiamenti in atto, dalle dipendenze ai disturbi del comportamento alimentare, dai disturbi correlati alla pandemia all’autolesionismo, ai tentativi di suicidio, agli stessi suicidi, in particolare tra gli adolescenti.
La formazione
Rilevante il tema della formazione che dovrebbe essere centrata sulle pratiche quotidiane dei servizi dei DSM, ma in stretto collegamento con l’Università, dove oggi troppo spesso la formazione si svolge troppo spesso solo negli ambulatori e nei reparti ospedalieri di psichiatria, senza l’acquisizione di una visione complessiva di una salute mentale comunitaria, con attenzione anche al di fuori dei servizi.
Salute mentale e giustizia
Concludendo, nei cambiamenti in atto, non affrontati con 180, sta emergendo sempre più il tema del rapporto tra salute mentale giustizia, nell’ambito del quale si è realizzata la straordinaria chiusura anche degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma lasciando invariato il codice penale dove è tuttora vigente il concetto di pericolosità sociale dell’infermo di mente, prodotto culturale della psichiatria lombrosiana degli anni 30, oggi non suffragata da evidenze scientifiche. Così non essendo stato sciolto il nodo del superamento del doppio binario speciale della non imputabilità e dei percorsi nelle REMS, si tende al ritorno del mandato del controllo sociale allo psichiatra, che invece dovrebbe essere responsabile della cura con i migliori trattamenti possibili dettati dalle evidenze scientifiche per quella specifica persona in quel determinato contesto. Senza dimenticare che la custodia dovrebbe essere competenza della giustizia. Invece oggi anche gli stessi Spdc diventano a volte luogo di “parcheggio” di diverse persone con disturbi mentali che hanno compiuto reati, non imputabili e giudicati socialmente pericolosi, in attesa di entrare in REMS, a danno di chi ha realmente bisogno di ricoveri per acuzie. Senza considerare che la presenza degli agenti di polizia penitenziaria negli Spdc non può che alimentare il pregiudizio sulla pericolosità e sulla inguaribilità delle persone con disturbi mentali.
Allora, per andare oltre la 180, c’è anche bisogno del coraggio di eliminare la non imputabilità, di raggiungere una uguaglianza di diritti e doveri per tutti, fermo restando che se una persona che è stata condannata ha bisogno di cure psichiatriche, il DSM se ne deve fare carico possibilmente al di fuori della istituzione carceraria, ma se questo non è possibile per il diritto alla sicurezza della collettività su decisione della magistratura, le cure devono poter essere realizzate all’interno del carcere, dove vanno regolamentati i servizi di salute mentali dei DSM, definendone a livello nazionale i criteri, gli standard e le modalità di funzionamento con il contemporaneo investimento delle necessarie risorse.
Un punto nazionale
Per realizzare questo ventaglio di proposte, non servono solo risorse e progetti, ma anche un coordinamento centrale, Ministero della Salute/Agenas/ISS, con l’apporto decisivo delle Regioni che devono condividerle per averne una reale attuazione.
Per mantenere fermi i principi della 180, riattualizzandoli alla luce di cambiamenti avvenuti ed in corso, non è più tempo di dichiarazioni di principi, di convegni e di conferenze, è l’ora di impegni concreti.
Massimo Cozza
Direttore Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2
fonte: Quotidiano Sanità Forum 180 articolo dal titolo “Cosa vuol dire andare oltre la 180”