Intervista a Stefano Anastasia di Letture.org
Prof. Stefano Anastasia, Lei è autore del libro Le pene e il carcere, edito da Mondadori Università: cos’è la pena e quali possono essere le sue concrete articolazioni?
La pena è esattamente quello che dice di essere: una sofferenza. Una sofferenza inflitta intenzionalmente dallo Stato a chi abbia violato norme e leggi a cui il nostro tempo storico (la nostra cultura, le sue classi dirigenti, i sentimenti popolari diffusi) attribuiscono un valore fondamentale, tale, appunto, da giustificare una inflizione di sofferenza istituzionale. La più comune delle sofferenze inflitte sotto forma di pena continua a essere la privazione della libertà per un periodo di tempo determinato, ma sopravvivono le pene capitali (la pena di morte o la pena fino alla morte dell’ergastolo) e si diffondono le misure penale di comunità, applicate in alternativa al processo, alla pena detentiva o durante la sua esecuzione. Ma dal punto di vista fenomenologico se la pena giuridica è innanzitutto inflizione di sofferenza, è difficile non considerare tale qualsiasi forma di privazione della libertà inflitta coattivamente, come gli arresti o la custodia cautelare in carcere in attesa del processo o l’esecuzione di una misura di sicurezza che sopravvivono nel nostro ordinamento, dopo la pena principale o al posto di essa.
Quali dinamiche hanno caratterizzato il sistema penitenziario italiano e quali chiavi di lettura è possibile darne?
Da trent’anni il sistema penitenziario italiano vive una perenne emergenza, segnata da un sovraffollamento che non si riesce a contenere, se non in situazioni eccezionali e per brevi periodi di tempo. È questo il frutto di un cambiamento di clima politico-sociale che, a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, ha reso il vocabolario della colpa (e quindi della pena) lo strumento comunicativo essenziale di una sfera pubblica depoliticizzata, in cui non ci sono più conflitti sociali alla ricerca di soluzioni progressive, ma colpe individuali o collettive da portare a processo, condannare e punire.
In che modo la questione dei diritti umani dei detenuti è venuta emergendo nella giurisprudenza umanitaria?
A cavallo tra la prima decade del nuovo secolo e questa, dopo la crisi economico-finanziaria del 2008, anche gli Stati più generosi nel finanziamento dello “stato penale” e della “incarcerazione di massa” hanno marcato l’impossibilità di continuare a sostenere il tasso di accrescimento del proprio sistema penitenziario e quindi si sono trovati davanti al bivio tra incarcerazione di massa e rispetto dei diritti umani dei detenuti: se la finanza pubblica non garantisce (come è stato per decenni negli Usa) l’ampliamento del sistema penitenziario al ritmo dell’accrescimento della popolazione detenuta, l’alternativa tra carcere e rispetto dei diritti umani dei detenuti diventa secca. Così abbiamo avuto la storica sentenza Brown vs. Plata della Corte Suprema statunitense nel 2012, la legittimazione del numero chiuso in carcere da parte della Corte costituzionale tedesca nel 2011 e, per quanto ci riguarda, le sentenze Suleijmanovic (2009) e Torregiani (2013) della Corte europea dei diritti umani contro il sovraffollamento. Seguendo una confusa giurisprudenza della Corte costituzionale, pronunciamenti di questa natura vengono ancora generalmente qualificati dalla dottrina penalistica come effetto dell’auspicato principio rieducativo che è nell’art. 27 della nostra Costituzione, ma io credo che si debba piuttosto riferirli al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, pure previsto dallo stesso articolo costituzionale e dalle principali carte internazionali dei diritti, limite categorico alla legittimità del potere punitivo da parte dello Stato. Si tratta, dunque, di “giurisprudenza umanitaria”, non di “giurisprudenza rieducativa”. Una talpa a cui affidare un’opera di scavo in concreto della legittimità delle pene e di quella detentiva in particolare.
Che ruolo svolge la questione della sicurezza nelle politiche penali?
La svolta punitiva maturata in Italia a partire dall’inizio degli anni Novanta non ha una correlazione significativa con l’andamento degli indici di delittuosità, né è solo il frutto di capricci repressivi del legislatore, della giurisprudenza o degli apparati di sicurezza. Certamente le trasformazioni del potere politico a livello locale, nazionale e transnazionale hanno pesato nell’investimento istituzionale in politiche repressive capaci di garantire consenso di massa a sistemi politici sempre più deboli nella determinazione del benessere economico-sociale, ma non bisogna dimenticare l’altro corno del problema: la svolta neoliberale della fine del secolo scorso ha prodotto una progressiva dismissione dei sistemi di protezione sociale novecenteschi, con l’effetto di generare una penuria sociale di sicurezza ontologica che, non potendo più rivolgersi alle istituzioni del welfare, trova risposte sul versante della prevenzione dei rischi di vittimizzazione e nella individuazione di capri espiatori in soggetti che abitano le nostre città o travalicano le nostre frontiere. È così che la vecchia questione della “sicurezza sociale” è stata assorbita nelle nuove politiche della sicurezza volte al contrasto della marginalità e della devianza (le cd. politiche di “tolleranza zero”). D’altro canto, nel paradigma meritocratico neoliberale chi non ce la fa è esso stesso responsabile della sua condizione: chi è causa dei suoi mali, pianga se stesso.
Quali effetti producono le interpretazioni populiste del diritto e della giustizia penale?
Da qualche tempo preferisco parlare di uso populista del diritto e della giustizia penale, piuttosto che di populismo penale. Il populismo penale evoca l’esistenza di un movimento politico-ideologico propriamente giustizialista, che veda nella esecuzione delle pene il proprio fine ultimo, il che è evidentemente una distopia. Invece parlare dell’uso populista del diritto e della giustizia penale dà conto della diversità di attori, motivazioni, obiettivi, strumenti degli usi possibili ed effettivamente praticati del diritto e della giustizia penale a fini di consenso, legittimazione e successo da parte di movimenti politici, attori istituzionali o imprese editoriali. L’uso populista del diritto e della giustizia penale travolge i canoni tradizionali del diritto penale liberale e alimenta quel senso di insicurezza a cui vorrebbe rispondere. Come scrivevano Garapon e Salas nella loro Repubblica penale, il diritto penale è uno strumento rozzo, che si manifesta ai cittadini quando non è riuscito a prevenire quel delitto o quel misfatto che avrebbe voluto evitare. Quindi non solo rivolge lo sguardo all’indietro, senza dare risposte alle domande sul futuro che tante questioni “penalizzate” dal suo uso simbolico e populista evocano, ma si avvolge in una spirale senza fine, per cui ogni delitto evoca un reato che ancora non c’è o una pena da rendere più grave attraverso l’ennesimo “pacchetto sicurezza”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con un sistema di esecuzione penale triplicato in trent’anni a parità di reati e una insicurezza percepita sopita solo recentemente dal timore del virus nei momenti più gravi della pandemia.
Che ne è dei diritti umani in carcere?
I diritti umani in carcere sono posti a grave rischio ogni volta che si manifesti una sproporzione tra i livelli di incarcerazione e le risorse a disposizione del sistema. Quando si denuncia il sovraffollamento delle carceri non si parla solo di spazi e ambienti inadeguati e insalubri, ma anche di risorse umane e finanziarie insufficienti a garantire l’assistenza sanitaria, l’istruzione, le relazioni familiari, il “trattamento rieducativo”. Tutti questi sono diritti umani dei detenuti a rischio di fronte a un uso del diritto e della giustizia penale che li considera variabili dipendenti delle necessità di consenso di attori politici e sociali esterni.
Quali giustificazioni e limiti incontra il diritto di punire?
La migliore giustificazione del diritto di punire riposa su quali sarebbero gli effetti della sua inesistenza: non mancherebbero la violenza e l’abuso tra gruppi e individui, ma sarebbero sregolati. Si manifesterebbe, cioè, quello che Raul Zaffaroni chiama il “potere punitivo” che esiste in natura, il potere del più forte sul più debole, senza che a esso sia possibile dare freno e confine. Ecco allora che il diritto di punire si giustifica come limite al potere punitivo sregolato che verrebbe esercitato in sua assenza. Per questo, da un punto di vista teorico, il diritto penale non può che essere minimo, cioè finalizzato alla minimizzazione della violenza che si manifesterebbe in sua assenza, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli.
Il limite del diritto di punire è dunque fissato nel riconoscimento della piena umanità, e della piena dignità, dell’autore di reato, condannato per un fatto, ma non identificato con la condotta che lo ha portato davanti al giudice. Piena umanità e piena dignità del condannato significano piena titolarità dei diritti umani, non comprimibili – come dicono le carte internazionali – oltre le strette necessità conseguenti alla privazione della libertà (per i casi e per i reati per cui il sacrificio della libertà personale possa trovare giustificazione, aggiungo io).
Quali questioni rimangono ancora aperte e interrogano radicalmente la legittimità e la sopravvivenza del sistema penitenziario?
Nel libro ne individuo tre, ma sono pronto ad accettare un ampliamento della casisitica: la tutela del diritto alla salute, la violenza nei confronti dei detenuti, la pena dell’ergastolo.
La pena senza fine dell’ergastolo non confligge solo con la finalità rieducativa della pena, ma ancor più radicalmente con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità: quale condizione umana è quella che è destinata a consumarsi tra le mura di un carcere, senza poter più immaginare una signoria sul proprio corpo e sulla propria vita?
La violenza e gli abusi in carcere, in danno dei detenuti (ma anche quelli che subiscono talvolta gli agenti e gli operatori penitenziari) sono il sintomo della violenza latente che è nella privazione della libertà, nella coazione dell’istituzione sui suoi “ospiti involontari”, come anni fa un raffinato capo dell’Amministrazione penitenziaria chiamava i detenuti. Al di là dei singoli casi di abusi e violenze che arrivano agli onori delle cronache, il problema è quanto e in che misura sia accettabile un sistema di esecuzione penale che mette in conto una violenza latente che, in situazioni conflittuali, possa sprigionarsi in violenza manifesta.
Infine, nel 2008 in Italia ha trovato finalmente attuazione il principio di equivalenza delle cure, in carcere come nella società esterna, e il Servizio sanitario nazionale ha preso in carico l’intera popolazione detenuta. Ma come garantire un’effettiva equivalenza nell’assistenza sanitaria tra chi è costretto in carcere, in una situazione patogena dal punto di vista fisico e psichico, e chi è fuori e può accedere a una pluralità di servizi, se ne ha la possibilità anche a proprie spese, e comunque può far valere la propria voce di fronte a eventuali disservizi del sistema? Se diritti umani devono essere, possiamo dire che il carcere garantisce effettivamente una equivalenza delle cure e non lede il diritto alla salute di chi vi è costretto?
Cosa resta della pena dopo la sua fine?
La finalità rieducativa delle pene, e in particolare di quella detentiva, resta spesso un miraggio, così raro da non essere talvolta neanche perseguito. Il fine della pena è la sua fine, scriveva qualche tempo fa Adriano Sofri. Eppure la finalità rieducativa evoca un futuro oltre la pena, cosa essenziale se non si vuole ridurre l’autore al suo reato, la persona a cosa. Abbandonata una concezione catartica della pena, la responsabilità pubblica, di chi la infligge in nome nostro, è quella di garantire ai detenuti e alle detenute il libero godimento di tutti i diritti fondamentali esercitabili in condizione di privazione della libertà e di offrire tutte le opportunità di istruzione, formazione e crescita culturale che possano compensare lo svantaggio sociale che porta la gran parte di loro a essere tali. Il resto è nella capacità di ciascun uomo e ciascuna donna detenuta di fare memoria della propria esperienza detentiva nella ricostruzione della propria biografia, senza cancellare nulla del proprio vissuto, ma riconoscendolo come parte di una soggettività ancora aperta all’esperienza.
Fonte: https://www.letture.org/le-pene-e-il-carcere-stefano-anastasia
Stefano Anastasìa è ricercatore di sociologia del diritto nell’Università di Perugia e docente di criminologia presso Unitelma Sapienza. Tra i fondatori dell’associazione Antigone, è Garante delle persone private della libertà per la Regione Lazio. Tra le sue pubblicazioni: Patrie galere. Viaggio nell’Italia dietro le sbarre (con P. Gonnella, 2005), L’appello ai diritti. Diritti e ordinamenti nella modernità e dopo (2008), Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale (2012), Populismo penale. Una prospettiva italiana (con M. Anselmi e D. Falcinelli, 2020) e Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (con L. Manconi, V. Calderone e F. Resta, 2022).