Roberta Lisi (Collettiva) intervista Serena Sorrentino, segretaria generale della Fp Cgil impegnata in decine di assemblee in giro per l’Italia per chiedere di “ascoltare il lavoro” nella manifestazione nazionale della Cgil dell’8 ottobre e nella giornata di mobilitazione sulla sanità del 29 ottobre.
Ben prima delle elezioni, unitariamente, avete indetto la mobilitazione nazionale della sanità: “Se non la curi non ti curi”
Da tempo sentiamo l’esigenza di rifocalizzare l’attenzione sul rilancio del servizio socio sanitario a livello nazionale. Dopo la pandemia, che in realtà non è finita, abbiamo visto una serie di interventi di carattere normativo, ma anche un cambio di approccio nei confronti del tema salute che sta allarmando tutta la categoria. Mancate risposte che riguardano le emergenze del sistema sanitario, scarse misure volte all’implementazione dell’integrazione sociosanitaria, ma soprattutto una modalità di relazione da parte della politica e dei soggetti che hanno compiti di programmazione e gestione, pensiamo al sistema delle Regioni, che da quell’afflato, che durante la pandemia sembrava essere in qualche modo riemerso attorno alla centralità della salute come diritto fondamentale, invece ci sta facendo precipitare verso una dimensione nella quale i diritti sociali, e in particolar modo il diritto alla salute, diventano di nuovo subordinati alla compatibilità economica, anche e soprattutto a una tendenza verso il mercato privato piuttosto che alla difesa del sistema pubblico. E allora a partire dal dato – sicuramente non positivo – della diminuzione nel prossimo triennio delle risorse appostate sul Fondo sanitario nazionale, a questioni che riguardano le emergenze relative al personale, abbiamo deciso di costruire una piattaforma che guarda, ovviamente, alla prospettiva che viene dal mondo del lavoro e degli operatori sanitari, ma che tenta di aprirsi e di allargare la rete ai cittadini che sono fruitori dei nostri servizi e, in qualche modo, di ricostruire quel movimento e quella mobilitazione generale che faccia cambiare gli indirizzi rispetto agli investimenti sulla salute.
Una mobilitazione e alleanza tra operatori sanitari e cittadini e cittadine, in realtà fu ciò che portò nel ‘78 alla approvazione della legge che istituì il Servizio sanitario nazionale
Esattamente, l’obiettivo è quello di ritornare ai principi, ai valori ispiratori di fondo, mi riferisco alla Costituzione agli articoli 32 e 3, e alla Legge 833 del 78 che ne fu la traduzione. Pensiamo di dover sfruttare l’occasione che ci viene, da un lato, dalla potenziale correzione delle distorsioni introdotte dal Titolo V della Costituzione, che ovviamente auspichiamo non vada nel segno dell’autonomia differenzata e della secessione legislativa, soprattutto in campo sanitario, ma verso una maggiore uniformità e omogeneizzazione dei modelli di governance del sistema sanitario e socio sanitario a livello nazionale e regionale. Dall’altro guardiamo alle risorse del Pnrr, che ci potrebbero consentire una rigenerazione totale del modello di benessere, prima ancora che del sistema organizzativo, della salute nel nostro Paese. Questa occasione non può essere mancata, non ci saranno nel prossimo futuro, vista l’emergenza sociale ed economica che deriva dalla crisi energetiche e dalla guerra, ulteriori risorse che ci consentano di ripensare il sistema salute.
Stiamo assistendo da qualche mese a un fenomeno forse inaspettato: la fuga di personale, soprattutto medici, proprio dal servizio sanitario nazionale. Perché?
In queste settimane stiamo facendo tantissime assemblee, Ciò che ci viene indicato da tante operatrici e operatori è, da un lato, l’esigenza di costruire modelli di valorizzazione professionale che sempre di più tengano in considerazione due fattori: una giusta ed equa retribuzione del lavoro professionale in sanità, e dall’altra parte anche l’attenzione alle condizioni di lavoro. Prima ancora del salario, ciò che oggi allontana le lavoratrici e i lavoratori dal sistema pubblico è un effetto indiretto della mancanza di personale. Turni massacranti, prestazioni aggiuntive, ma soprattutto la preoccupazione rispetto alla qualità del servizio che si riesce a fornire facendo deroghe all’orario di lavoro. Mediamente lavoratrici e lavoratori del comparto lavorano molto più di 54 ore settimanali, i dirigenti medici arrivano anche a sfondare il tetto delle 75-76 ore più ovviamente le prestazioni aggiuntive, turni di emergenza e di reperibilità. Questi sono livelli insostenibili, è la condizione del lavoro che sta determinando questa fuga dal sistema pubblico.
Sembrava che la pandemia avesse rimesso al centro dell’attenzione di governo e politica proprio la sanità pubblica. Quello che tu ci stai raccontando, invece, dice il contrario.
Credo che in parte derivi dall’incapacità del sistema Paese di costruire una programmazione e una visione di lungo periodo che si determini in maniera stabile e indipendentemente dall’alternanza politica. Siamo abituati a reagire all’emergenza, alla contingenza. Nella pandemia, l’attenzione rispetto ai modelli di contrasto alla vulnerabilità sociale, di cui il sistema salute è il perno fondamentale, era ovviamente molto alta. Passata l’emergenza, i punti chiave dell’agenda politica si sono spostati verso altre emergenze. La questione fondamentale è che però lo Stato sociale, il welfare, la salute sono un’architettura che non è semplicemente organizzativa e istituzionale, ma è soprattutto un modello di società. Rispetto a questo, credo che lo smarrimento di senso rispetto alla salute come priorità dell’azione politica dimostri una incapacità di cogliere una lezione fondamentale che non ci viene solo dalla pandemia, ma anche dalle grandi trasformazioni, penso per esempio ai cambiamenti demografici, ai cambiamenti climatici. Salute, in una visione olistica, vuol dire occuparsi del benessere della persona e del benessere delle comunità, va dal territorio, ai luoghi di lavoro, fino ovviamente al tema della medicina di iniziativa e della prevenzione. Significa avere una società che è più sicura e meno vulnerabile alle grandi trasformazioni, ai grandi cambiamenti che ci possono essere nell’economia così come nell’ambiente. Non investire sulla salute, significa che il futuro sarà un po’ più incerto.
Il Pnrr contiene un progetto di riforma della sanità di territorio, ma rischia di essere un’occasione mancata. Il disegno organizzativo è buono ma non ci sono le risorse per il personale, quali le risposte che chiedete al governo?
La prima grande risposta è cambiare la modalità con la quale si formano i professionisti. Il combinato disposto del numero programmato per le facoltà universitarie delle professioni sanitarie, e il numero programmato di borse di specializzazione, ha determinato la difficoltà di reperimento delle competenze così dirompente durante i mesi più acuti del Covid. Occorre cambiare il modello di programmazione della formazione delle competenze. Poi c’è bisogno, ovviamente, di fare un ragionamento rispetto al mercato del lavoro nell’ambito sanitario. Le nostre richieste, ribadite anche nella piattaforma del 29 ottobre, sono un piano straordinario di assunzioni che significa cambiare anche le modalità di reclutamento e la costruzione dei piani triennali del fabbisogno delle aziende sanitarie, la stabilizzazione di tutti i precari, e infine c’è il tema della relazione pubblico privato. Proprio in queste settimane siamo impegnati in una serie di vertenze sull’affidamento della gestione di interi reparti a cooperative. Riteniamo sia l’inizio di una sorta di privatizzazione interna del sistema sanitario nazionale dovuta ai vincoli dei tetti di spesa per l’assunzione di personale. Insomma, una delle priorità fondamentali per far riuscire la scommessa del Pnrr è un grande investimento per il personale che, visti i vincoli del Pnrr stesso, non può che essere finanziato dal bilancio ordinario dello Stato con uno stanziamento adeguato per il Fondo sanitario nazionale.
fonte: Collettiva