L’infermiere? Arriva da lontano. di Maurizio Ambrosini

I paesi del Nord del mondo cercano personale sanitario fuori dai propri confini. Il fenomeno continuerà ancora per anni, favorito dalla disuguaglianza di reddito e di opportunità. Cooperazione e mobilità vanno però rese vantaggiose e benefiche per tutti.

Il Nord del mondo in cerca di personale sanitario

Ancora una volta, la campagna elettorale ha discusso l’immigrazione all’insegna dell’“emergenza sbarchi”. Una popolazione variegata, con 2,5 milioni di occupati regolari in settori nevralgici, viene appiattita sui salvati dal mare, a loro volta trattati non come persone da ascoltare, ma come invasori da contrastare con ogni mezzo. Un dibattito più equilibrato dovrebbe invece cominciare col distinguere vari tipi e forme d’immigrazione, domandandosi di chi abbiamo bisogno e chi siamo disposti ad accogliere a vario titolo.

A livello internazionale, la pandemia da Covid-19 ha reso palpabile un fenomeno già da tempo in crescita nel mondo sviluppato: la carenza di personale sanitario, soprattutto infermieristico, e l’importazione dai paesi in via di sviluppo di professionisti della salute. Il Nord del mondo dipende dal Sud (e dall’Est) per un aspetto cruciale dell’organizzazione sociale come la cura delle persone malate e fragili.

Le stime presentate all’inizio di settembre a Berlino, al convegno Metropolis, denunciano una carenza di 6 milioni di operatori sanitari nel mondo, con una previsione di 18 milioni nel 2030. Già oggi gli Stati Uniti accolgono quasi 200 mila infermieri stranieri, il Regno Unito 100 mila, la Germania 70 mila. Per l’Italia la cifra è di quasi 40 mila, con fabbisogni stimati di almeno 60 mila, mentre nello stesso tempo esportiamo infermieri verso Svizzera, Germania, Regno Unito e altri paesi. Il Covid ha inoltre comportato serie conseguenze per il benessere e la salute del personale ospedaliero, aggravando le necessità.

La “caccia di frodo” agli infermieri (ma anche a medici e altri operatori) oltre confine continuerà con ogni probabilità ancora per anni, favorita dalla disuguaglianza di reddito e di opportunità nel mondo.

Come costruire rapporti più equilibrati

Senonché la pandemia anche su questo tema ha fatto risuonare un allarme: le Filippine nel 2020 hanno vietato al proprio personale sanitario sotto contratto di lasciare il paese. L’importazione di personale sanitario per noi è una soluzione, ma per i paesi di origine rappresenta una perdita, sia in termini di investimenti formativi vanificati, sia per i buchi lasciati nei loro sistemi di tutela della salute. Si stima infatti che ci siano più medici africani al lavoro fuori dall’Africa che in Africa, e anche all’interno del continente i paesi più forti, come il Sudafrica, importano personale sanitario da quelli più deboli.

Nasce quindi l’esigenza di superare questo gioco a somma zero, lasciato alle dinamiche del mercato e quindi del denaro. È fin troppo facile predicare una sorta di sovranismo sanitario, in base al quale ogni paese dovrebbe attrezzarsi per coprire le proprie esigenze. Neanche cospicui incrementi retributivi appaiono sufficienti, come mostrano le difficoltà di grandi paesi avanzati a trovare un numero adeguato di candidati interni. Una prima proposta è quella di impegnare i paesi riceventi a coprire i costi di formazione degli operatori sanitari che intendono assumere nel Sud del mondo. Già oggi Filippine e India, i maggiori esportatori d’infermieri, hanno scuole che preparano professionisti per lavorare all’estero: i paesi utilizzatori dovrebbero sostenerne i costi. Una seconda proposta punta invece a formarli direttamente nei paesi di destinazione, grazie a borse di studio, fornendo nello stesso tempo anche le necessarie competenze linguistiche e culturali. La terza idea, complementare alle altre, richiede di ammettere subito anche i coniugi e i figli degli operatori sanitari, evitando di lacerare le famiglie.

È importante cercare soluzioni, ma anche cogliere il significato più profondo della questione. Il mondo è interdipendente, siamo “sulla stessa barca”, secondo la celebre frase di papa Francesco. Anche se a qualcuno costerà ammetterlo, abbiamo bisogno di vari tipi d’immigrati. Non possiamo scindere i legami e chiudere le frontiere, se non a costi altissimi anche per noi: facendoci letteralmente del male, in questo caso. Non possiamo però neppure approfittare della nostra superiorità economica e dell’attrattiva che i nostri paesi esercitano. Dobbiamo perseguire tenacemente rapporti più equilibrati e consensuali, ispirati a un’idea di giustizia, in cui cooperazione e mobilità siano vantaggiose e benefiche per tutti.

fonte: lavoce.info

ambrosiniMaurizio Ambrosini (Vercelli 1956) è docente di Sociologia delle migrazioni nell’università degli studi di Milano. Insegna inoltre da diversi anni nell’università di Nizza e dal 2019 nella sede italiana della Stanford university. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova, dove dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Collabora con Avvenire e con lavoce.info. Dal luglio 2017 è stato chiamato a far parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione. È autore, fra vari altri testi, di Sociologia delle migrazioni, e (con L. Sciolla) di Sociologia, manuali adottati in parecchie università italiane. Suoi articoli e saggi sono usciti in riviste e volumi in inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese e cinese. Ha pubblicato ultimamente Famiglie nonostante (Il Mulino, 2019); Irregular immigration in Southern Europe (Palgrave, 2018); Migrazioni (EGEA, 2019, nuova ed.). È tra i curatori del volume Il Dio dei migranti (Il Mulino 2018).

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