Continua lo stillicidio delle morti in carcere e non si può cedere alla rassegnazione e alla assuefazione. L’ultima tragedia si è verificata a Forlì e ha portato il numero totale delle vittime a 62. Denis Markola, albanese aveva 28 anni e si è suicidato appena entrato in carcere per un ordine di esecuzione dopo otto anni dalla sentenza. Era stato preceduto da due casi a San Vittore e a Palermo, sempre nell’imminenza dell’ingresso in galera. Evidentemente schiacciati dal senso di vuoto e dalla mancanza di prospettive, non dalle condizioni di vita determinate dal sovraffollamento. Una analisi puramente quantitativa su sessanta casi ci dice che sono coinvolti 25 stranieri e 4 donne; la modalità del suicidio vede la prevalenza dell’impiccagione (55), rispetto alla inalazione di gas (4) e in conseguenza di ferita da taglio (1).
Diciannove persone si sono suicidate dopo pochi giorni dall’entrata in carcere, quasi tutti erano vicini al fine pena (1-2 anni), 20 non usufruivano di colloqui né visivi né telefonici. Per 11 persone vengono indicate patologia legate a problemi di salute mentale (disturbi di personalità, scompensi psicotici, disturbi antisociali di personalità, abuso di alcol o sostanze stupefacenti). La frequenza maggiore si è verificata a Foggia (4), San Vittore (3), Piacenza (2), Regina Coeli (2), Torino (2), Vibo Valentia (2), Opera (2), Pavia (2), Ucciardone (2).
Il dato più eclatante è legato alla presenza di 55 persone in sezioni di media sicurezza e in cinque casi nelle sezioni dedicate ai “protetti”. Plasticamente si mostra così il peso della detenzione sociale, di soggetti deboli e fragili, che contrasta con la concezione del carcere come extrema ratio. Un numero davvero impressionante è costituito dagli oltre mille tentati suicidi, che indicano uno stato di sofferenza diffusa.
Eppure il dolore per vite soppresse non può limitarsi a sentimenti caratterizzati da paternalismo e spesso da ipocrisia, ma deve obbligare a mettere in campo una proposta di riforma, una grande riforma, perché «il cimitero dei vivi» come lo definiva Filippo Turati nel 1904, non si trasformi in un cimitero tout court.
Ho scritto il 21 agosto un commento sull’Espresso, Mauro Palma, ha proposto una riflessione densa su Questione Giustizia il 5 settembre, Carlo Renoldi ha illustrato le azioni e una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in una intervista sul Corriere della Sera l’8 settembre. Potremmo dire che le analisi sono esaustive e con evidenza impongono fatti concreti.
Le urgenze sono ben individuate, l’Amministrazione Penitenziaria deve garantire la copertura delle direzioni degli Istituti, una presenza adeguata di educatori e di mediatori culturali, il Servizio sanitario deve prevedere un impegno del Dipartimento di salute mentale con una equipe di psichiatri e psicologi per assicurare attenzione e sensibilità, costruendo progetti di luoghi adatti per chi soffre particolarmente la costrizione.
Nella Relazione del Garante nazionale è stata denunciata la presenza di 1301 persone ristrette per scontare una pena inferiore a un anno e questo dato clamoroso è aggravato dalle migliaia di soggetti che hanno un fine pena fino a tre anni e potrebbero godere di misure alternative.
Non va dimenticato che la bulimia carceraria è legata alla legge criminogena sulle droghe, infatti il 35% dei detenuti è responsabile di violazione dell’art. 73 (detenzione e piccola spaccio) e il 28% è classificato come «tossicodipendente».
Dopo il 25 settembre dovremo organizzare la difesa dell’art. 27 della Costituzione minacciato di una sostanziale cancellazione. La speranza come audacia viene dal Vaticano dove si è tenuto un incontro della Fondazione “Fratelli tutti” con la presenza del mondo del volontariato per pensare cose grandi e realizzare bellezza e dignità.
fonte: il manifesto – Fuoriluogo