Le idee dei partiti sulla sanità appaiono più una collezione di interventi che non il disegno di una revisione organica del Ssn. Manca poi il raccordo con la riforma prevista dal Pnrr. Nei programmi si ritrovano temi comuni e proposte di bandiera.
Poco dibattito, ma molte proposte
Per quanto sorprendente possa apparire (dopo una pandemia che ha provocato discussioni a non finire su un Servizio sanitario nazionale giudicato da molti ormai inadeguato e causa delle difficoltà sperimentate proprio durante le ondate di Covid-19), di sanità e di salute si è parlato poco nella campagna elettorale. Anche in questo caso, un po’ come per le riforme della Missione 6 individuate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, il dibattito è stato relegato a circoli ristretti di addetti ai lavori. Non basta la guerra in Ucraina e l’inflazione per capire perché, tanto più che di sanità si scrive, talvolta anche diffusamente, nei programmi elettorali.
Le idee dei partiti che emergono dalla lettura dei programmi, nelle varie versioni disponibili (presentate al Ministero dell’Interno o sui siti dei singoli partiti), appaiono più una collezione di interventi che non il disegno di una revisione organica del Ssn. Difficile riuscire a farne una sintesi: si enfatizzano alcune parole chiave comuni, ma si fa fatica a ritrovare un progetto di riforma sul quale innestare le proposte; e certamente si fatica a trovare un raccordo con le riforme impostate dal Pnrr, che avrebbero dovuto essere il quadro naturale entro il quale inserirle. Si citano, per esempio, l’eliminazione delle differenze nell’offerta dei servizi tra le diverse aree del paese, la medicina territoriale, le liste di attesa, la riforma dell’accesso alle facoltà di medicina; ma sono solo temi vecchi, che purtroppo continuano a restare in agenda.
Per esempio, sulla questione delle differenze nell’offerta siamo ragionevolmente tutti d’accordo che vadano eliminate; non solo per quanto riguarda i servizi sanitari, ma per tutti i servizi offerti dal settore pubblico. Tutti vogliamo servizi con gli stessi (possibilmente buoni) standard tra Nord e Sud, tra centri urbani e periferie rurali: per la scuola, i trasporti, la sanità, la raccolta dei rifiuti urbani, la cura del verde, gli asili nido. Lo abbiamo scritto nella Costituzione che, per alcuni servizi che definiscono diritti civili e sociali, ci devono essere standard comuni fra territori.
La diagnosi e la cura
I problemi sono due: la diagnosi e la conseguente cura. Sul fronte della diagnosi, qualche partito individua evidentemente nella “regionalizzazione” la causa delle differenze e propone come cura la “centralizzazione” delle competenze. Di “centralizzazione” parlano – e non sorprende – Fratelli d’Italia, ma anche Azione-Italia viva e il Movimento 5 stelle (che propongono esplicitamente di riformare il Titolo V della Costituzione). Ma di “centralizzazione” non parla la Lega che, anzi, mette nel programma l’autonomia differenziata, anche sulle competenze in tema di salute; sarà interessante vedere come si concilierà questa visione con quella di FdI nello stesso Centrodestra. Come si è già scritto più volte, la diagnosi pare sbagliata; e quindi anche la cura rischia di dimostrarsi sbagliata. I sostenitori della tesi della “centralizzazione” per eliminare le differenze fra territori dovrebbero infatti spiegare perché per i servizi che già sono “centralizzati” (cioè spettano allo stato, come la scuola) si hanno risultati differenti tra territori. Sarebbe bene ragionare sui meccanismi di formazione della spesa, sulle differenze – talvolta macroscopiche – nell’organizzazione dei servizi sanitari a livello locale. Cosa giustifica, per esempio, un rapporto di tre infermieri per medico in Veneto (già basso rispetto ai confronti con i paesi europei come Francia e Germania) rispetto a un rapporto di 1,9 in Campania e Calabria (per citare due regioni a statuto ordinario)? Gli ospedali funzionano se le diverse professioni sono “dosate” nel modo corretto rispetto alla dotazione di posti letto; è un problema di efficienza allocativa. Solo il Movimento 5 stelle e, per certi versi, il Pd parlano apertamente – oltre che di piani straordinari di assunzioni – anche di ribilanciare il rapporto tra medici e infermieri (ma poi bisogna spingere anche sul fronte della formazione). Peraltro, in tema di governance del sistema, nessun partito sembra riconoscere che ormai non è più solo una storia tra stato e regioni, ma di Unione europea della salute.
Gli echi della pandemia si sentono sul fronte della medicina territoriale, altro tema condiviso. Molti citano le case della comunità, la riforma portata avanti dal Pnrr, e gli standard del Dm 77. Sostanzialmente tutti i partiti vogliono riformare la sanità territoriale, qualcuno la chiama “medicina di prossimità” forse per fare capire che i servizi territoriali sono quelli che stanno più vicini al cittadino. Il punto è come, visto che in questi anni (forse decenni) non ci siamo mai riusciti. Il programma della Lega parla di modificare lo stato giuridico del medico di famiglia per integrarlo con il distretto; ma non è chiaro se si stia parlando di rendere i medici di medicina generale dipendenti del Ssn, che è invece la proposta esplicita del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra. Sempre la Lega parla di rivedere quanto previsto dal Dm 70, quello che fissa gli standard ospedalieri, per renderli compatibili con il Dm 77. Ma non è chiaro come dovrebbero essere rivisti questi standard; peraltro, è uno dei pochissimi cenni all’ospedale che si trova nei programmi.
Non mancano, nella collezione di interventi, alcune proposte di “bandiera”. Per esempio, Alleanza Verdi e Sinistra propone l’abolizione dei vantaggi fiscali per la sottoscrizione di polizze assicurative sanitarie e per la partecipazione a fondi sanitari integrativi perché riducono la contribuzione degli assicurati al Fondo sanitario nazionale. Il Movimento 5 stelle vuole eliminare le interferenze della politica nelle nomine dei dirigenti sanitari, anche se non spiega come fare. La Lega propone di rivedere i criteri di riparto delle risorse sanitarie attribuendo un peso maggiore all’età della popolazione.
Tutti, infine, sono d’accordo nel sostenere che la sanità deve essere considerata come un investimento per il paese e non un costo; e danno quasi per scontato che i finanziamenti vadano incrementati, con Azione-Italia viva che propone di chiedere i soldi al Mes e gli altri che, di fatto, non si pongono la questione. Quello che manca, dunque, sembra essere una visione d’insieme coerente di dove si voglia andare, anche alla luce del Pnrr, non solo nell’ambito della Missione 6.
fonte: lavoce.info