Un anno fa, in queste ore, venivano raggiunte le 500.000 firme necessarie per la richiesta del referendum che avrebbe depenalizzato la coltivazione ad uso personale della cannabis, rimosso la pena del carcere per le cosiddette droghe leggere, ed eliminata la sanzione amministrativa del ritiro della patente per i consumatori. Ieri è stata l’ultima seduta di Giuliano Amato come Presidente della Corte costituzionale, responsabile della decisione dal sapore tutto politico sulla non ammissibilità del referendum. Una scelta che ha deluso tanti giovani che si erano illusi di poter contare su un tema per loro coinvolgente, e inciso sull’agenda politica. Forse i diritti sarebbero stati centrali e non saremmo piombati nello scioglimento del Parlamento e in questa campagna elettorale condizionata dal rischio di alto tasso di astensionismo.
Cosa sarebbe potuto effettivamente succedere al voto referendario non lo sappiamo, anche se dai sondaggi, anche recenti, possiamo immaginarlo. Sappiamo invece come la clava sapientemente infilata nella ruota della democrazia partecipativa, ha impedito che anche la proposta di Riccardo Magi avesse la forza per respingere l’ostruzionismo parlamentare. Scampato il rischio del referendum, si è vanificata anche una proposta minima di adeguamento della legge alle indicazioni della giurisprudenza della Cassazione.
Della crisi democratica, dei referendum, del parlamento e dei partiti si parlerà il prossimo fine settimana nel seminario della Società della Ragione (via webinar qui).
Per fortuna nel mondo i cambiamenti prendono corpo e in Europa, paesi vicini all’Italia come Malta hanno legalizzato la coltivazione personale e i cannabis social club, il Lussemburgo è prossimo a farlo, la Germania ha avviato l’iter per legalizzare l’intero mercato e la Repubblica Ceca progetta di fare altrettanto. Riforme che interrogano la stessa politica dell’Unione sulla cannabis, come dimostra l’ultimo vertice dei responsabili delle politiche sulle droghe a Praga.
Il dibattito in Italia sembra tornare indietro di decenni, con la riesumazione di un rancido repertorio di fake news, smentite dai fatti e dalle evidenze scientifiche. La campagna elettorale costruita su semplificazioni e strumentalizzazioni non ha offerto grandi spazi per guardare con fiducia al futuro e abbandonare i miti del passato che hanno costruito fallimenti sociali sull’altare della repressione. Poche le voci per una riforma della politica delle droghe che contrastano lo stanco e stucchevole ritornello della lotta alla droga delle destre. Comunque qualche timido segno di novità è apparso.
Il Partito Democratico ha messo nero su bianco la depenalizzazione della coltivazione ad uso personale: è la sua posizione più avanzata sul tema, almeno dal congresso torinese dei Democratici di Sinistra, 22 anni fa.
Più coraggiosi gli alleati di +Europa e dell’Alleanza Verdi-Sinistra che hanno inserito nel programma la completa regolamentazione legale. Come ha fatto Unione Popolare. L’unico ad arretrare fra i partiti tradizionalmente antiproibizionisti sembra essere il Movimento 5 Stelle di Conte. Dalla legalizzazione tout court del 2018 alla sola regolamentazione della coltivazione di cannabis ad uso personale di oggi.
Nel programma comune della coalizione della destra si ritrova l’imperativo di «combattere lo spaccio e la diffusione delle droghe con ogni mezzo, anche attraverso campagne di prevenzione e informazione». L’anche pare una pura clausola di stile, per mantenersi fedeli al motto del bastone e della carota. I 6 milioni di consumatori di cannabis, che costituiscono un decimo del corpo elettorale, se prendessero coscienza che la scelta è fra repressione e libertà potrebbero fare la differenza. È un sogno forse, ma bello.
fonte: il manifesto – Fuoriluogo