Che il carcere non sia un tema da campagna elettorale non è certo una novità. Ma in questa campagna elettorale 2022, nonostante i dati gravi sui suicidi – 57 nei primi otto mesi dell’anno, quattro in meno del totale nei dodici mesi del 2021, a cui si aggiungono 19 decessi “per cause da accertare” –, il silenzio su questo mondo è pressoché assoluto.
E non solo perché porta pochi voti e scarsi consensi, ma anche perché richiede uno sguardo ampio e prospettico capace di superare la tendenza di gran parte dell’attuale dibattito politico a guardare solo all’immediato. E soprattutto perché il tema del carcere è diventato ormai un terreno di scontro ideologico, tra chi è letto come ansioso di portare tutti fuori e chi è visto come desideroso di buttare via la chiave per sempre. Il carcere è diventato il simbolo di una battaglia disancorata dalla realtà fattuale, che si combatte in termini di slogan. Una bandiera da sventolare in nome della “durezza” o della “compassione”.
Il Garante nazionale invita i partiti a un deciso cambio di rotta, liberando la riflessione dall’enfasi dello scontro ideologico e ragionando in termini di utilità e funzionalità, nel quadro delineato dalla nostra Costituzione. Soprattutto invita a inserire il tema nel contesto più ampio di come rispondere alle difficoltà del nostro ambito sociale e alle lacerazioni che in esso si sviluppano: se il diritto penale non è visto come strumento sussidiario insieme ad altri sistemi di regolazione sociale e se non riesce a costruire anche percorsi di positività, allora diventa inutile.
Il Garante nazionale ritiene che alcune criticità del sistema possano trovare risposte comuni, al di là delle diversità di idee sul carcere. Risposte e proposte che non possono non trovare spazio nel dibattito preelettorale, nei programmi e nelle proposte e negli impegni dei partiti e delle coalizioni.
- Un impegno dei Comuni e dei territori ad aprirsi per istituire delle strutture di controllo e di accoglienza, con il supporto e la responsabilità, in primo luogo, dei sindaci rivolte a quell’area di popolazione detenuta con pene brevi e scarsissime se non nulle risorse sul territorio. Una popolazione che è espressione di una minorità sociale. Persone che devono scontare pene molto brevi e che, per il tipo di reati lievi commessi, non rappresentano certo un elemento di pericolosità. Una presenza che parla di povertà declinata in ogni forma e dell’assenza di un territorio capace di intercettare le contraddizioni e le difficoltà, affidando la loro soluzione all’ambito penale. Oggi, infatti, sono in carcere 1.301 persone che hanno avuto una pena inferiore a un anno mentre altre 2.567 hanno una condanna compresa tra uno e due anni: quasi 4 mila persone per cui il carcere non può far nulla: è troppo poco tempo per poter costruire un reale percorso di conoscenza e di riabilitazione, ma è abbastanza per cucire addosso alla persona detenuta uno stigma che ne pregiudica spesso un effettivo reinserimento sociale. In questi casi il rischio è che il carcere sia inutile in partenza e aggravante in uscita. L’alto numero di suicidi che avvengono poco dopo l’inizio della detenzione – a volte nelle prime 24/48 ore – e quelli che avvengono a ridosso della fine ne sono un tragico effetto. Non solo, ma un intervento progettuale in tale direzione ridurrebbe la pesantezza dell’attuale sovraffollamento che caratterizza gli attuali Istituti detentivi con grave danno di chi in essi lavora, opera e di chi vi è ospitato.
2. Un investimento culturale massiccio sull’istruzione e sulla formazione all’interno delle carceri: su quasi 55mila detenuti ce ne sono 1.200 che frequentano l’università ma anche 900 italiani e analfabeti. Nell’anno scolastico 2021-2022 erano 3006 le persone detenute – italiane e non – iscritte a un corso di alfabetizzazione e 3.385 al primo livello di scolarità. Sono 476 le persone che si sono diplomate in carcere nel 2021. Numeri importanti, ma ancora inadeguati rispetto al bisogno che dal carcere si esca almeno con uno strumento più efficace e certificato che aiuti a comprendere il presente e a rendersi responsabile della propria vita. La cultura e la formazione svolgono all’interno delle carceri un ruolo centrale nel favorire il percorso di responsabilizzazione e reinserimento delle persone detenute. Sono lo strumento potente di promozione della persona, un veicolo per un ritorno positivo alla collettività, una premessa per un possibile inserimento lavorativo successivo al periodo di forzata distanza dal contesto sociale.
3. Una immissione importante di professionalità in carcere al fine di potenziare tutti i percorsi di connessione con il mondo esterno. È necessaria una maggiore presenza di operatori sociali: quelli con profilo professionale attuale e quelli con un profilo professionale più adeguato alle connotazioni del presente. Figure che parlino all’oggi e che costituiscano un approccio pluridisciplinare al tema, difficile, di come garantire un ritorno alla realtà sociale diverso da quello che si è lasciato entrando. Più figure di tipo educativo, di supporto psicologico, di mediazione culturale, di supporto sociale e anche di aiuto alla comprensione tecnologica della realtà attuale, anche perché senza questa dimensione ben difficile sarà la possibilità di un positivo ritorno alla realtà esterna. Personale, quindi, chiamato a svolgere compiti essenziali, che oggi vengono a volte ricoperti dalla Polizia penitenziaria che, oltre al ruolo di sorveglianza, finisce per farsi carico di altri tipi di problemi per i quali non può essere preparata e su cui ricade una incongrua responsabilità. È un investimento necessario all’interno del carcere che restituisce sicurezza ai territori.
4. Una maggiore assunzione di responsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale che in carcere svolge una funzione complessa e impegnativa. Un investimento per una maggiore capacità di presa in carico socio-sanitaria delle persone detenute, in stretta connessione con i servizi sanitari del territorio è un obiettivo non rinviabile. Il tema di come affrontare le difficoltà comportamentali che spesso la vita reclusa porta con sé o il disagio psichico soggettivo e di come entrambi si acuiscano in una situazione degradata non può essere relegato soltanto a riflessioni in convegni senza trovare corrispondenza nel miglioramento delle condizioni di chi nella quotidianità del carcere vive o lavora.
Sono alcuni punti su cui è possibile trovare convergenza. Fermo restando l’impegno civile di tutti – qualunque sia l’impostazione teorica relativa alla funzione della pena e della sua esecuzione – a che il nostro Paese possa comunque avere a breve strutture detentive materialmente adeguate alla sua tradizione democratica.
Per questo il Garante nazionale invita le forze politiche e i candidati a mettere al centro dei loro programmi il tema dell’esecuzione penale, non per proporre facili e talvolta vuoti slogan di bandiera ma per affrontare concretamente i problemi.