“… il muro è lungo centottanta metri … cento metri il lato più lungo e quaranta le due ali, in mezzo c’è il cortile del padiglione, a metà del lato più lungo c’è l’entrata con il sorvegliante, dall’altra parte del muro c’è la rete metallica, all’angolo il muro gira, dietro all’angolo io non posso andare, dietro all’angolo è fuori da questo cortile e fuori dal cortile noi non possiamo andare …”
Così Nannetti Oreste Fernando (detto al modo dei coscritti!), ma N.O.F. 4, si misura con la sua incombente ossessione: il perimetro del cortile del manicomio di Volterra, il “Ferri”, segnato, per ogni lato, da impossibilità. Vincoli di muri, vincoli di reti, vincoli di sorveglianti che tolgono l’aria, tolgono il respiro. E non c’è un Altrove.
Là, sul quel ruvido piano, imbiancato a calce, si riversa il mondo interiore di N.O.F. 4; là trova una forma espressiva tutta la sua angoscia e tutto ciò che ha da dire.
Sono tratti incisi anche con le unghie, segni cuneiformi che costruiscono parole.
Trovare un senso è difficile, oggi, quando l’incuria del tempo e dei responsabili ha permesso lo sfarinamento delle superfici, ridotte a croste e frammenti non coerenti.
E ho pensato alle celle della morte, nel Lager nazista di San Sabba a Trieste: i prigionieri, condannati a fine brutale, vivono il tempo interminabile e angosciante dell’attesa, lasciando segni del loro passaggio, tratti di memoria incisi sui muri: nomi, date di reclusione, anche disegni quasi infantili, a ricordo perenne del loro esserci stati.
Momenti disperati che mi sembrano paralleli a quelli vissuti dal N.O.F. 4 nel manicomio, dove il tempo non strutturato si dilata, in uno stare, come oggetti dimenticati. L’atto ossessivo diventa liberatorio.
Ma manca la libertà.
Le istituzioni totalizzanti degli ex manicomi italiani, dismessi alla fine degli anni Novanta, costituiscono forme di “archeologia sanitaria”, monumenti che al tempo della loro edificazione erano stati oggetto di approvazione diffusa, per la loro presunta funzionalità, per la loro “nuova” forma di contenimento dell’inconoscibilità della follia. Solo temuta, solo repressa, solo sorvegliata. Per tempi immemorabili delle vite dei “pazienti” colà reclusi.
La storia di Nannetti e di quel suo stupefacente, straziante muro parlante, ci è restituita da Paolo Miorandi, psicoterapeuta, in “NANNETTI. La polvere delle parole” (Exòrma edizioni), un libro arricchito da da fotografie in bianco e nero, scattate da Francesco Pernigo. Miorandi intreccia pagine di scrittura evocativa, sperimentale, con pagine di dettagliate descrizioni della storia del mondo della follia. Pernigo documenta la perenne ripetizione di brutte, pesanti, alte strutture, intervallate da finestre sbarrate, pensate come un Panopticon totalizzante e invasivo.
La libertà è terapeutica, hanno gridato i matti al “San Giovanni” di Trieste.
Anche Nannetti ce lo ricorda, questo desiderio, questa possibilità anelata. I suoi graffiti restano a documento della sua umanità. Sono tracce di Storia.