In un documento pubblicato a fine giugno, decine di esperti delle Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale di porre fine alla cosiddetta “guerra alla droga” e di promuovere in alternativa politiche che nel controllare le sostanze “stupefacenti” rispettino pienamente i diritti umani.
“La ‘guerra alla droga’”, si legge nella presentazione del lavoro “mina la salute e il benessere sociale e impiega risorse pubbliche senza sradicare la domanda o il mercato delle droghe illegali”. Senza mai chiamarlo tale, finalmente si imputa al proibizionismo la nascita di narco-economie locali, nazionali e regionali che erodono risorse allo sviluppo lecito di quelle stesse comunità.
In 60 anni di proibizioni crescenti e transnazionali tutti i diritti umani sono stati conculcati: dal giusto processo alla salute (comprese le cure palliative per cui le Convenzioni Onu erano state scritte), utilizzando il lavoro forzato e la tortura, discriminazioni di ogni tipo, fino a colpi mortali a culture e libertà di espressione, religione, associazione e all’ambiente.
Il rapporto, pubblicato in occasione della giornata internazionale per la lotta al narcotraffico e l’abuso di droghe, fa seguito a un documento del 2021 del gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria che aveva denunciato come in molte zone del mondo la “guerra alla droga” provoca incarcerazioni di massa, profilazione razziale, perquisizioni e sequestri, detenzione preventiva eccessiva, violazioni di leggi e procedure oltre che condanne sproporzionate e criminalizzazione di chi usa le sostanze. Violazioni di diritti umani che si aggravano quando perpetrate nei confronti di gruppi più fragili come donne, bambini e minoranze e in paesi non democratici.
Non di rado si assiste a torture e maltrattamenti, oltre che mancanza di garanzie di un processo equo. La lista prosegue con uccisioni extragiudiziali, come nelle Filippine, fino al ricorso alla pena di morte – che resiste in materia di droghe in 30 paesi. È bene chiarire, se mai ce ne fosse bisogno, che gli esperti dell’Onu si riferiscono a condotte governative e non della criminalità organizzata. L’abuso del diritto penale per punire chi traffica o usa sostanze proibite è, per eccellenza, la pena di morte, che, per il diritto internazionale, può essere comminata solo per i “crimini più gravi” come l’omicidio intenzionale.
Uno dei principi fondamentali dei diritti umani è la “non discriminazione”. Leggendo il documento se ne desume che il “controllo internazionale delle droghe” è fonte inesauribile di discriminazioni dovunque e contro chiunque: persone di origine africana, popolazioni indigene, bambini e giovani, persone con disabilità, anziani, e chi vive con l’HIV. Inoltre lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, senzatetto, sex workers, migranti, disoccupati ed ex detenuti. Gli esperti segnalano una crescente penalizzazione nei confronti delle donne.
Eppure l’ONU stessa, nell’adottare nel 2020 la posizione comune delle sue agenzie in materia di droghe, aveva già ricordato che l’uso personale di sostanze illecite dovrebbe esser trattato, eventualmente, come una questione sanitaria da affrontare con politiche basate sui diritti umani, tra cui educazione alla salute pubblica, fornitura di cure – anche per la salute mentale – assistenza, sostegno, riabilitazione e programmi di transizione/reinserimento. In una formula, la riduzione del danno, purché utilizzata su base volontaria informata.
Gli esperti si appellano alla comunità internazionale affinché si sostituiscano “le punizioni con la cura e si promuovano politiche che rispettino, proteggano e realizzino i diritti di tutte le comunità”. Dopo 60 anni, sarebbe ora che l’Organizzazione delle Nazioni Unite non agisse più a compartimenti stagni e, soprattutto, in violazione dei suoi principi fondamentali e fondativi.
Il documento è tradotto su fuoriluogo.it
fonte: il manifesto – Fuoriluogo