Il microclima di 40 gradi con 3-4 persone in celle da 10 metri quadrati. Ci sono istituti dove mancano le docce ed è stata razionata l’acqua.
È esperienza di questi giorni scoprire che, a camminare sull’asfalto, vi si lascia l’impronta delle scarpe; e che, a mettere il braccio fuori dal finestrino dell’auto, si avverte la sensazione di attraversare le fiamme di un incendio. Questo nelle strade di una città, ma immaginiamo di trovarci in un altro luogo.
Un microclima concentrazionario, 40 gradi e 3,4 maschi adulti in 10 metri quadrati. Ecco, quando si parla di sovraffollamento delle carceri e di celle surriscaldate, l’esempio più pertinente non è dato dalle condizioni climatiche e dall’insediamento umano di una spiaggia di Cesenatico alle ore 15 del 15 agosto e nemmeno da una moltitudine al concerto dei Måneskin: perché a quella congestione bollente e sudata di corpi ci si può, se si vuole, sottrarre. Dal carcere no, dal carcere in genere non si fugge; nemmeno d’inverno, peraltro, quando gli eventi stagionali (freddo e gelo, assenza di caloriferi, scarsità di acqua calda) non procurano una minore afflizione.
L’associazione Antigone ha reso noto il suo rapporto semestrale dove, sin dal titolo, si dichiara quale sia il punto di osservazione: “La calda estate nelle carceri”. A leggerlo, ci si rende conto che davvero mancano criteri di comparazione per illustrare adeguatamente lo stato in cui versa una parte considerevole del sistema penitenziario italiano, dal momento che la realtà tende a superare il più cupo sguardo pessimistico.
Qualche esempio: in alcuni istituti penitenziari “l’acqua viene razionata, come ad Augusta, oppure manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, che nasce scollegata dalla rete idrica comunale. In questo istituto ai detenuti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno mentre per le altre necessità è utilizzabile quella dei pozzi artesiani”.
Si tenga conto che solo in pochissime celle si trovano frigoriferi; e che nel 58% delle carceri visitate da Antigone sono numerose le celle prive di doccia e, nel 44%, quelle le cui finestre sono schermate, con l’effetto di limitare il passaggio dell’aria. Infine, in quasi un terzo degli istituti non sono garantiti i 3 metri quadri calpestabili per ogni detenuto, come prescritto da una sentenza della Corte europea dei diritti umani, che nel gennaio del 2013 condannò l’Italia per “trattamenti inumani e degradanti”.
Tutto ciò in un quadro generale dove, al 30 giugno scorso, si contano 54.841 detenuti, rispetto a una capienza regolamentare di 50.900 posti. Ne consegue un tasso di affollamento ufficiale del 107,7%, che tuttavia ignora come molti degli spazi conteggiati non siano effettivamente disponibili (secondo Antigone, ben 3.665 negli istituti visitati).
Se, poi, diamo ascolto ai quotidiani appelli della Protezione civile, che chiede particolare attenzione e assistenza ai “soggetti vulnerabili”, non si può dimenticare quanti di essi siano reclusi nelle carceri italiane: dall’altissimo numero di tossicodipendenti alle persone con disabilità, fino ai più di mille ultrasettantenni e alle 24 madri con figli minori.
A questo proposito va ricordato che la fine della legislatura ha avuto, tra le molte infelici conseguenze, quella di bloccare alcune riforme, diciamo, “di civiltà”, prossime a essere approvate. Tra queste, il provvedimento che avrebbe potuto cancellare dal nostro ordinamento quella che è, forse, la più oltraggiosa delle iniquità: la reclusione in carcere, con le proprie madri, degli “innocenti assoluti”, ovvero i bambini senza colpa.
Di fronte a una simile situazione, è difficile non cedere a un sentimento di filantropia. Il che è giusto, figuriamoci, ma il rischio è che venga trascurata la dimensione politica di quella tragedia umanitaria che si consuma quotidianamente nelle prigioni italiane. Il carcere è l’articolazione ultima ed estrema di un sistema della giustizia penale che, negli ultimi decenni, ha fatto bancarotta: e al cui fallimento, le riforme promosse dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia possono opporre solo una linea di resistenza.
C’è da temere che il quadro politico conseguente al voto del 25 settembre porti a un ulteriore deterioramento dello stato delle cose, dal momento che la tutela della dignità del detenuto e dei suoi diritti fondamentali ha un rapporto strettissimo con il sistema generale delle garanzie nell’esercizio dell’azione penale, nella conduzione delle indagini, nelle relazioni tra le parti e nel dibattimento in aula. Dunque, “visitare i carcerati” non è solo un precetto evangelico che può portare lenimento alle sofferenze dei reclusi: è anche un percorso necessario per fare sì che l’amministrazione della Giustizia sia un po’ – almeno un po’ – più giusta.