La Fp Cgil lancia per l’autunno una grande mobilitazione per rivendicare risorse, assunzioni e il rilancio del servizio sanitario pubblico e universale. Intervista di Roberta Lisi (Collettiva) a Serena Sorrentino
La Funzione pubblica Cgil ha annunciato per settembre una mobilitazione di tutto il comparto della sanità: perché?
Riteniamo imprescindibile far sentire forte e chiaro il punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici. Le cronache dei giornali raccontano quotidianamente le condizioni in cui operano e le ricadute sulla qualità del servizio ai cittadini e alle cittadine. Abbiamo di fronte due scadenze importanti: la legge di bilancio che compete al governo; l’attuazione del decreto ministeriale 77, la riorganizzazione del sistema di assistenza territoriale sanitaria, che spetta alle Regioni. Ed è proprio al governo, quello ancora in carica e poi a quello che verrà dopo le elezioni, e alle Regioni che vogliamo indicare la nostra agenda sul rilancio e sulla riforma del servizio sociosanitario a livello nazionale.
Quali i punti principali della vostra agenda?
Il primo: un investimento importante nel fattore umano in termini di piano straordinario di assunzioni, ma anche d’investimenti sulle competenze e sulla valorizzazione professionale. E l’altro, una dimensione che salvaguardi l’universalità del sistema pubblico come elemento di consolidamento della rete territoriale di assistenza. Questi due grandi capitoli sono pregiudicati dalla scelta in termini d’investimenti sul Fondo sanitario nazionale che si farà, ma anche da alcune decisioni importanti sul tema dell’accreditamento, quindi del rapporto tra pubblico e privato nella gestione delle prestazioni, sul tema della riorganizzazione attraverso le case di comunità e delle cure intermedie, dall’assistenza domiciliare fino alla residenzialità sanitaria assistita.
Si registra, quindi, una drammatica carenza di personale…
L’emergenza vera, che è quella che stiamo rilevando in queste ore, riguarda l’incapacità, appunto a fronte degli organici esistenti, di dare risposte adeguate ai cittadini sia in termini di liste d’attesa sia di qualità dell’assistenza. Infine, si pone il tema della valorizzazione del nuovo contratto collettivo nazionale che è stato di recente sottoscritto. Il contratto può essere un’opportunità anche di attrattività per tante ragazze e ragazzi d’investire nella loro formazione, quindi in un percorso formativo come professionisti della salute e nell’integrazione socio-sanitaria, ma a fronte anche di una rivalutazione del lavoro nel ciclo della salute.
Uno dei problemi assai rilevanti, infatti, che le Regioni in grado di assumere si trovano di fronte è quello dell’insufficienza degli operatori sanitari. Così come, lo raccontano le cronache, si assiste a una vera e propria “fuga” da alcuni servizi, a cominciare da quello dell’emergenza-urgenza.
Quello che abbiamo monitorato in quest’ultimo anno e mezzo è che non c’è solo la necessità della deroga al numero programmato per le scuole di formazione, soprattutto per le facoltà universitarie che si occupano di profili sociali e di profili socio-sanitari. Quello che si sta verificando è anche una carenza delle domande di accesso ai percorsi di formazione di alta specializzazione nelle professioni sanitarie, perché queste professioni non hanno una giusta retribuzione, le condizioni di lavoro sono diventate molto pesanti e usuranti per il personale. Basti pensare che non riusciamo più a garantire il rispetto dei limiti orari, proprio perché la carenza di personale si scarica sulla mancata sostituzione di chi è in servizio e quindi sulla maggiorazione dell’orario di lavoro, sia perché gli strumenti di valorizzazione delle carriere, anche quelli che abbiamo introdotto nel nuovo contratto, sono condizionati alla disponibilità di risorse nei fondi per la contrattazione decentrata, sia perché esistono una serie di norme nel nostro ordinamento che vincolano da un lato le assunzioni, dall’altro appunto la leva della produttività nel settore pubblico in generale, e nella sanità in particolare, ai tetti di spesa. Questi elementi sono per noi fattori fondamentali per rilanciare un servizio socio-sanitario nazionale che scommetta sulla qualità del lavoro, sulla qualità dell’assistenza, ma soprattutto sul regime pubblicistico della gestione del servizio socio-sanitario, che per noi è il paradigma di universalità.
Più volte anche il governo ha ribadito la centralità del servizio pubblico. Quali rischi paventate tanto da lanciare la mobilitazione?
Un rischio per noi gravissimo, provocato sia dalla mancanza di personale sia dalla difficoltà di formare abbastanza professionisti per rispondere alla domanda di occupazione nel settore della salute, è la forte spinta delle aziende a esternalizzare e a privatizzare la stragrande maggioranza dei servizi, come, per altro, sta già accadendo. Lo abbiamo visto prima sulle prestazioni Covid, adesso sull’abbattimento delle liste d’attesa. Il continuo ricorso alle strutture private in accreditamento sta portando fuori dal sistema pubblico intere aree di prestazione ai cittadini: penso, ad esempio, alla riabilitazione, che per quasi il 96% è gestita dal settore privato. Questo non solo non è un elemento di garanzia per i cittadini, ma è anche un elemento di dumping per i lavoratori.
A questo proposito, nel decreto ministeriale 77, quello che riordina la sanità territoriale, si parla di case e ospedali di comunità, si accenna alle infermiere di famiglia, ma in realtà di personale non si parla mai. Non c’è il rischio che all’interno di quelle strutture poi entrino cooperative e privati, per altro con regimi contrattuali diversi da quello della sanità pubblica?
È così, e questo rischio deriva dalla scelta di collocare la stragrande maggioranza delle risorse del Next Generation Eu come spesa per investimenti, che legittima quindi interventi sull’infrastruttura, ma non essendo spesa corrente non può essere utilizzata per assumere personale né tanto meno, ad esempio, per investire nella formazione, nella qualificazione, nella valorizzazione professionale o per aumentare le risorse a disposizione della contrattazione collettiva. Questo produce, da un lato, il paradosso che noi utilizziamo la più grande mole d’investimenti pubblici che dal dopoguerra a oggi sono stati mai messi a disposizione per ricostruire un pezzo di stato sociale importante, ossia il sistema della salute del nostro Paese, per determinare profitti ai privati. Dall’altro, rompe il ciclo della catena del valore del servizio pubblico, perché in realtà ci sono strutture che sono sotto la gestione del servizio pubblico in cui però il regime di lavoro è privato, con applicazione di contratti che non solo hanno retribuzioni e normative differenti, spesso non paragonabili a quelle del settore pubblico, ma in virtù anche delle diverse tipologie potremmo avere servizi in accreditamento, servizi in appalto che chiaramente cambiano anche la condizione rispetto alla continuità assistenziale che riusciamo a garantire, perché la durata del rapporto di lavoro, così come la durata dell’accreditamento, la durata dell’appalto, determinano anche il turn-over del personale che deve garantire l’assistenza. Ancora una volta, quindi, torniamo sulla dimensione della qualità dell’assistenza che è legata anche alla qualità del lavoro.
A questo punto, allora, cosa bisognerebbe fare?
Per noi è importante rifinanziare il Fondo sanitario nazionale, come la Cgil chiede da tempo. Oggi noi riorganizziamo il sistema sanitario sulla base delle risorse esistenti; quindi, è come se la regola che riordina la programmazione in campo della salute fosse sempre dettata dalle risorse disponibili. Noi pensiamo invece che bisogna cambiare questo paradigma, partire dal monitoraggio dei fabbisogni di salute della popolazione, programmare i servizi, programmare i fabbisogni e, in esito a questo, determinare l’entità del finanziamento. La pandemia dovrebbe averci insegnato una lezione molto importante: la salute non può essere mercificata né essere sottoposta alla logica del profitto. È un bene indisponibile al mercato e per questo va garantito dal servizio pubblico, e soprattutto va garantito in maniera universale, cioè a tutti i cittadini e le cittadine.
Un’ultima domanda: nell’ordine del giorno approvato al direttivo si lancia la mobilitazione e non solo la si auspica unitaria, ma la si chiede “di popolo”. Perché?
Perché la salute non è una vertenza che riguarda soltanto le operatrici e gli operatori del sistema sanitario. Noi ci mobilitiamo chiaramente per garantire qualità del lavoro e qualità dell’assistenza, ma in realtà la vertenza sulla salute riguarda l’interesse generale della nostra comunità. Quindi riteniamo che la scelta che il sindacato deve fare, coerentemente anche con le posizioni che la Cgil ha assunto negli ultimi tempi, debba essere aperta alla cittadinanza. Dobbiamo determinare un’alleanza tra cittadini e lavoratori nel rivendicare un servizio socio-sanitario che sia rispondente a quelli che erano gli obiettivi e i fondamenti della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale. E quindi garantiscano prevenzione, cura e riabilitazione come elementi fondamentali che riguardano lo sviluppo e soprattutto l’autonomia della persona, che si occupi delle condizioni di fragilità, ma anche e soprattutto della medicina d’iniziativa e della produzione della salute delle comunità, compresa anche la salute territoriale, la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Per noi costruire una mobilitazione popolare significa aprire la vertenza sul servizio socio-sanitario nazionale a uno spazio che potremmo definire confederale, che riguarda cioè la generalità delle lavoratrici, dei lavoratori e dei pensionati che rappresentiamo, ma anche e soprattutto di quelle comunità territoriali che oggi più che mai hanno bisogno di un sistema di welfare e di risposta, in termini di salute, molto diverso da quello che siamo in grado di assicurare.
fonte: Collettiva