Le imprese che producono, utilizzano e commercializzano informazioni sono sempre più potenti. Aumentano i rischi per mercato, democrazia e libertà civili. Eppure, se gestiti al meglio, i dati possono diventare un vantaggio per tutti. Il ruolo del sindacato resta sempre lo stesso.
Ormai è sicuramente capitato a tutti di sentire nominare i big data. I big data costituiscono un enorme patrimonio di dati e un insieme di operazioni di trattamento degli stessi che rappresentano oggi un valore aggiunto per imprese pubbliche e private. Eppure possono anche creare grandi concentrazioni di potere, seri rischi per la riservatezza, oltre che distonie sociali e pericoli per la democrazia.
Il mercato dei dati e, in particolare, le piattaforme sulle quali si scambiano informazioni sono sempre più popolari. Questo produce un vantaggio per le imprese che producono dati e per altri processi industriali che li utilizzano in house o li commercializzano. È bene ricordare che la commercializzazione mira a monetizzare il valore delle informazioni attraverso la circolazione o l’analisi in house, per ideare nuovi e migliori prodotti e strategie di marketing. Questo avviene, in generale, nel caso delle imprese data driven. Si tratta, di fatto, di approcci differenti, ma che spesso possono risultare complementari. Quando si parla di “data driven innovation”, si indica lo sfruttamento di qualsiasi tipologia di dato all’interno dei processi d’innovazione. Processi messi in atto dalle aziende per la produzione di valore, tramite la creazione di nuovi beni o di servizi, l’affinamento di strategie di marketing o l’adozione di decisioni atte a pianificare l’utilizzo di dati posseduti dall’impresa.
Esiste, però, anche una commercializzazione dei dati che produce monetizzazione. Possono essere commercializzati dati non elaborati, meno grezzi o già elaborati. Molte imprese operano nel settore, producendo ad esempio applicazioni che rendano più facilmente leggibili, e dunque fruibili, i big data per l’utilizzatore. O che provvedono alla raccolta, all’aggregazione e alla rideterminazione degli stessi dati su un tema specifico di settore, rendendoli così più fruibili per un utilizzo specifico.
Sono però le piattaforme digitali a possedere un’enorme quantità di dati. Operano su un mercato le cui alte barriere d’accesso consentono le concentrazioni e l’esercizio di monopoli di fatto. Ormai dovremmo essere tutti consapevoli che esistono grandi piattaforme digitali (ad esempio i Gafam Usa ) che si comportano come veri e propri stati, hanno bilanci con cifre equiparabili ai livelli dei Pil nazionali, e che da tempo si preparano per battere moneta digitale. Hanno potuto agire per lungo tempo senza alcuna regolamentazione, e la loro indiscussa abilità è stata quella di accumulare, strutturare e utilizzare enormi quantità di dati raccolti nel corso delle loro varie attività, a fini di profilazione.
Tutto ciò evidenzia la necessità di politiche antitrust che siano strumento di tutela del mercato e dei consumatori, ma anche della democrazia e delle libertà civili. Questo perché, accanto alle preoccupazioni di carattere economico e di mercato, ci sono anche quelle di carattere politico, come ha dimostrato il caso Cambridge Analytica. È in discussione la qualità e la veridicità dell’informazione, il rispetto delle diversità culturali, la diffusione delle opinioni su temi economici e politici, che confermano bias cognitivi e polarizzano spesso le opinioni senza un vero spazio di ragionamento e di critica.
In generale, dunque, anche considerando il tema sociale relativo alla concentrazione di dati e canali di comunicazione in mano a pochi soggetti, non è più un mistero che i dati abbiano un valore economico, tangibile. E che siano ormai beni di scambio, da cui si estrae valore. L’utilizzo di un approccio basato sui dati comporta quindi una crescita della produttività delle imprese, una riduzione dei costi amministrativi e, in generale, ritorni importanti in termini di economie di scala e di scopo. Un esempio è dato dagli algoritmi utilizzati da Netflix per lo studio delle preferenze sui film e sulle serie televisive degli utenti. Un processo che agevola anche gli investimenti dell’azienda nella realizzazione di nuovi prodotti.
Ma esistono pure dati di diversa natura, alcuni dei quali d’importanza strategica se utilizzati a fini di pubblico interesse. Nella fase di grave emergenza sanitaria in cui ci siamo trovati due anni fa, l’utilizzo di dati sanitari strutturati e leggibili, se resi pubblicamente disponibili, avrebbe costituito un elemento determinante per il contrasto alla pandemia. Per questo richiamiamo l’applicazione lanciata all’inizio della pandemia da Google Maps, che mostrava informazioni critiche sul Covid 19 in aree specifiche del territorio, mentre contemporaneamente non si riusciva ad attivare uno strumento pubblico nazionale capace di ottenere e utilizzare le stesse informazioni.
Partendo dall’assunto che, anche alla luce del Regolamento europeo sulla privacy (Gdpr), il trattamento dei dati personali come quelli sanitari può essere considerato legittimo per le sole finalità connesse alla salute e alla ricerca nel pubblico interesse, e con la supervisione del Sistema sanitario nazionale, si sarebbe potuta comunque imporre la disponibilità in capo all’autorità sanitaria pubblica dei dati raccolti dalle piattaforme private per contenere la pandemia.
Con questa stessa logica, che sottende la necessità di privilegiare l’interesse collettivo, da tempo la Cgil chiede che i dati d’interesse pubblico siano resi leggibili, e che gli operatori digitali operanti sul territorio nazionale che raccolgono dati ritenuti utili debbano renderli disponibili alle autorità pubbliche a livello territoriale e a livello nazionale. In generale, i dati dovrebbero essere considerati alla stregua di beni comuni e bisognerebbe avere, sulla scorta delle migliori esperienze europee, piattaforme pubbliche dei dati generati dai cittadini, con una governance pubblica della raccolta.
I dati di pubblica utilità potrebbero essere ricoverati presso data center pubblici, o meglio ancora in un cloud ad accesso e controllo pubblico, trattati secondo un’apposita definizione di utilizzo, redatta sentito il parere del Garante della privacy, e resi visibili ai cittadini. Trasparenza, fruibilità, conoscenza diffusa: tre elementi che garantiscono una gestione non privatistica dei dati.
Dunque, fermo restando l’utilizzo lecito dell’innovazione legata all’utilizzo dei dati, c’è sempre la necessità di contemperare l’interesse pubblico a quello privato, di tutelate il diritto soggettivo di fronte all’interesse del capitale. La Commissione europea negli ultimi anni ha inflitto sanzioni miliardarie a Google per diversi abusi di posizione dominante, e alcune autorità nazionali, tra cui quella italiana, hanno in corso istruttorie sulle imprese big tech.
Davanti allo strapotere di queste aziende, alla loro voracità nell’acquisire ogni nuova start up che possa limitare la loro sfera d’azione, e consapevole della centralità democratica dei temi relativi all’utilizzo dei dati e alla concentrazione del mercato, l’Europa ha predisposto una serie di atti per regolamentare lo spazio europeo. Tutto questo in linea con quanto già fatto con il regolamento sul trattamento dei dati in vigore in Italia dal 2018.
In generale, si prova ad arginare lo spazio di manovra delle big tech sul territorio europeo, ma anche a dare una finalità di vantaggio comune nella condivisione e nell’utilizzo dei dati nello spazio europeo. Allo steso tempo, si prova a regolamentare e ad arginare i rischi delle applicazioni tecnologiche potenzialmente più pericolose, come l’intelligenza artificiale. È necessario definire ed utilizzare un approccio etico all’innovazione, e anche un utilizzo dei dati non esclusivo, che garantisca il rispetto dei diritti dei singoli ed una tutela massiva dei diritti e delle libertà.
Non può essere solo l’accumulazione di profitto a regolamentare i nuovi mercati. Se la regolamentazione europea va in questo senso, è necessaria pure la valutazione di come il potere dei dati incida in ambito lavorativo, di come cambi il lavoro in rapporto all’uso di dati e di informazioni e quale debba essere il ruolo delle rappresentanze di lavoratrici e lavoratori nella contrattazione delle implementazioni tecnologiche che da quei dati estraggono valore. Serve poi valutare quale sia l’accesso ai dati, quale la tipologia dei dati condivisi (in termini di qualità, accuratezza, rilevanza, usabilità), come anche i livelli di sicurezza e la durata nella conservazione, oltre che le procedure riconosciute a lavoratrici e lavoratori per esercitare i propri diritti.
Insomma, anche nella quarta rivoluzione, produttiva e sociale, il ruolo del sindacato rimane quello di correggere le asimmetrie tra forza lavoro e capitale, e intervenire perché anche nelle dinamiche sociali non si producano diseguaglianze, sperequazioni, polarizzazioni e discriminazioni.
fonte: Collettiva