Si torna a discutere di ius scholae. È molto difficile che la legge possa essere approvata. Eppure permetterebbere di aggiornare una norma vecchia di trent’anni, non più adeguata alla situazione attuale, con comunità ormai radicate nel nostro paese.
La storia dei tentativi di riforma
Il via libera in Commissione Affari costituzionali della Camera riapre il dibattito sulla riforma della legge sulla cittadinanza, che quindi approderà in aula. Chiariamolo subito: difficilmente la legge vedrà la luce. Considerando che mancano nove mesi alla fine della legislatura (con in mezzo la pausa estiva e il lungo iter della legge di bilancio), è assai improbabile anche solo l’approvazione alla Camera. Figuriamoci il passaggio al Senato.
Tuttavia, è sempre utile tornare a riaccendere i riflettori sulla riforma di una legge che ha 30 anni e che appare quantomeno inattuale, dato che considera “italiano” chi è nato in Brasile, Argentina o Australia da genitori italiani (o a loro volta discendenti di italiani), e che magari non ha mai messo piede nel nostro paese, e “straniero” chi è nato e cresciuto qui, ma è figlio di immigrati.
Già nella legislatura 2008-2013, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il Presidente della Camera Gianfranco Fini avevano auspicato l’introduzione del principio dello “ius soli”, vista la crescente presenza di bambini nati in Italia da genitori stranieri. Nel 2013 il tema fu riproposto dalla Ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge, arrivando all’approvazione di una legge alla Camera nel settembre 2015, senza però ottenere mai la ratifica del Senato. In quel caso, si voleva introdurre lo “ius soli temperato”, ovvero la possibilità di richiedere la cittadinanza per i figli di immigrati stabilmente residenti in Italia.
Questa volta si discute di “ius scholae”: avrebbero la possibilità di richiedere la cittadinanza i figli di immigrati (nati in Italia o arrivati entro i 12 anni) dopo aver frequentato almeno 5 anni di scuola. Si tratta di un compromesso al ribasso, perché si vincola la cittadinanza a un periodo piuttosto lungo di frequenza scolastica. Inoltre, come nella proposta precedente, rimane la necessità di fare richiesta, senza introdurre meccanismi automatici, validi invece per il diritto di sangue.
La platea di beneficiari
Considerati i nuovi criteri, non è facile quantificare i potenziali beneficiari. Innanzitutto, bisognerà chiarire se tra i “5 anni di scuola” sono ammessi anche asilo nido e scuola dell’infanzia. Nonostante il Ministero dell’Istruzione li consideri parte del “sistema educativo nazionale”, il testo attuale sembrerebbe escluderli, concedendo la possibilità di richiedere la cittadinanza solo alla fine del ciclo della scuola primaria (11 anni di età).
La base di partenza è rappresentata dai 574 mila alunni stranieri nati in Italia: saranno loro, pur con tempi diversi a seconda dell’età, a poter richiedere la cittadinanza. Vi si aggiungono i nati all’estero entrati nel sistema scolastico. La platea complessiva, dunque, oscilla tra i 500 mila e gli 800 mila.
Cosa cambierebbe per i “nuovi italiani”
Chi critica la proposta di riforma sostiene che non avrebbe implicazioni pratiche, dato che già oggi i nati in Italia da genitori stranieri possono chiedere la cittadinanza a diciotto anni (ebbene sì, lo ius soli in Italia esiste già!) e quindi possono votare. Inoltre, sempre secondo i critici, anche chi non ha cittadinanza italiana può andare a scuola e lavorare.
In realtà, è vero che la richiesta può essere fatta a 18 anni, ma il responso arriva dopo diverso tempo, generalmente intorno ai 22-23 anni. Per cui, in quel periodo, il diritto di voto non può essere esercitato. Così come il diritto di partecipare a molti concorsi pubblici o candidarsi alle elezioni, per esempio.
Inoltre, ed è l’aspetto principale, la cittadinanza va oltre le implicazioni pratiche. Si tratta sostanzialmente del riconoscimento del proprio “essere italiano”, dell’essere “uguale” ai propri compagni di classe, indipendentemente dalla nazionalità dei genitori. È quindi un riconoscimento identitario, prima di tutto.
Gli alunni stranieri nella scuola italiana
Oggi, peraltro, esiste un forte divario tra alunni italiani e immigrati, dovuto a molti fattori: il gap linguistico, le condizioni familiari, ma anche le discriminazioni di fatto.
L’Italia è il paese europeo con il più alto tasso di abbandono scolastico tra i giovani immigrati: lo ha fatto il 32,1 per cento dei giovani immigrati in Italia in età 18-24 anni, contro l’11 per cento dei nati in Italia. Il divario è quindi di oltre 20 punti in Italia tra autoctoni e nati all’estero, contro i 13,7 punti della media Ue.
Rimane anche una forte differenza tra alunni italiani e stranieri nella scelta della scuola superiore. Tra gli italiani, il 52 per cento frequenta un liceo. Tra gli stranieri il 30,9 per cento. Al contrario, il 30,8 per cento degli alunni stranieri sceglie un istituto professionale, contro il 17,1 per cento degli italiani.
Questo riflette una sorta di “determinismo sociale”, presente anche nel mercato del lavoro, per cui gli stranieri sono segregati nelle professioni meno qualificate e meno pagate.
Nel resto d’Europa
In tutto il mondo, la normativa che regola la cittadinanza è un mix tra “ius soli” e “ius sanguinis”, con equilibri differenti frutto della storia di ciascun paese.
Germania e Belgio, per esempio, sono tra i paesi più “generosi”. Berlino riconosce automaticamente la cittadinanza a condizione che uno dei due genitori abbia un permesso di soggiorno permanente (da almeno tre anni) e che i genitori risiedano nel paese da almeno 8 anni. Situazione simile in Belgio, dove la condizione per la concessione (automatica) della cittadinanza è che almeno uno dei due genitori sia nato nel paese o vi abbia vissuto almeno 5 degli ultimi 10 anni. Lo stesso principio (ius soli temperato) vige in altri tre stati (Portogallo, Irlanda e Regno Unito), pur con requisiti diversificati.
Altri paesi prevedono un “doppio ius soli”, ovvero concedono la cittadinanza se, oltre al minore, anche uno dei genitori (stranieri) è nato nel paese. È il caso, per esempio, di Francia e Paesi Bassi, in cui la storia coloniale ha portato a un modello di cittadinanza complesso, ma sostanzialmente inclusivo.
I meccanismi più rigidi, invece, sono quelli di Austria, Italia e Danimarca.
Chi (da anni) richiede la riforma in Italia chiede sostanzialmente di prendere atto che la situazione nel nostro paese è profondamente cambiata rispetto al 1992, anno a cui risale la normativa ancora in vigore. All’epoca, l’Italia aveva un’esperienza di immigrazione ancora embrionale (basti pensare che la prima normativa organica sull’immigrazione, la legge Martelli, è del 1990). Inoltre, per tutti gli anni Novanta l’immigrazione in Italia è stata caratterizzata prevalentemente dall’arrivo di lavoratori adulti, che solo successivamente hanno chiesto il ricongiungimento familiare.
La presenza di minori nati in Italia da genitori stranieri (le “seconde generazioni”) è dunque un fenomeno più recente, che non poteva essere previsto dalla normativa del 1992. La stabilizzazione della presenza immigrata in Italia, con alcune comunità ormai radicate da almeno due decenni, ha portato a uno scenario molto diverso, che richiederebbe dunque un adeguamento normativo.
fonte: lavoce.info