Tante speranze e tanti entusiasmi aveva suscitato la legge 6 del 2004 che aveva introdotto la figura dell’amministratore di sostegno. Molti si auguravano che fosse finalmente riconosciuto il diritto delle persone fragili a far valere il principio dell’autodeterminazione e che fossero superati una volta per tutte gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. Andava in questa direzione la legge 18 del 2009 che ratificava la Convenzione Onu del 2006 sui diritti delle persone con disabilità. Ebbene, dopo 18 anni, il bilancio di quella legge è a dir poco controverso, mentre da più parti si invoca la necessità di introdurre correttivi alle notevoli distorsioni che nel frattempo si sono create.
Ovviamente non mancano casi positivi di amministratori di sostegno capaci di svolgere con impegno e sacrificio la loro funzione, che secondo lo spirito della legge dovrebbe essere su base volontaria. In realtà la stessa legge 6 prevede, a discrezione del giudice tutelare, il rimborso spese e un equo indennizzo che in caso di amministrazioni particolarmente impegnative può arrivare fino a 250-300 euro ad amministrato, se non di più. Basta un calcolo elementare per capire quanto possa essere appetibile l’amministrazione di sostegno per professionisti che accumulano 60-70 beneficiari e quanto, di conseguenza, finisca per essere spersonalizzata una relazione che dovrebbe essere improntata alla massima fiducia ai fini della tutela economica dell’assistito. Di recente alcuni tribunali hanno predisposto apposite tabelle in cui il servizio di amministrazione di sostegno viene calcolato con percentuali basate sull’entità del patrimonio del beneficiario e non sull’effettivo lavoro svolto in suo favore. Starebbe alla discrezionalità del giudice tutelare, cui spetta il compito di nominare l’amministratore di sostegno, impedire che si verifichino abusi e casi di eccessiva concentrazione. Ma questo non sembra essere avvenuto, anche per la cronica carenza di giudici tutelari e per il superlavoro a cui sono sottoposti. Basti pensare che a Roma sono all’incirca una dozzina e devono sbrigare, con un personale di cancelleria assolutamente insufficiente, la bellezza di 22 mila pratiche su questa materia. Tutto ciò chiama in causa figure e istituti coinvolti a vario titolo nell’amministrazione di sostegno: oltre ai giudici tutelari e ovviamente ai familiari, gli operatori sanitari a cui sono affidati i diretti interessati e che hanno voce nel richiedere l’affidamento di un paziente all’amministratore, il ministero della Giustizia per gli aspetti legislativi e organizzativi, il Comune e la Regione per gli aspetti legati alla formazione, ai finanziamenti e alla comunicazione. Per quanto riguarda in particolare il Lazio, da anni si parla degli uffici di prossimità da istituire presso i tribunali (o presso i Comuni), previsti da una delibera regionale per facilitare appunto la comunicazione e l’informazione a beneficio degli interessati e dei loro familiari. Inoltre è ancora in fase di discussione una legge regionale che dovrebbe integrare quella nazionale e introdurre alcuni correttivi. Se ne è parlato diffusamente in un recente convegno sull’amministrazione di sostegno che si è tenuto proprio nella sede della Regione Lazio lo scorso 16 giugno. Tra l’altro è stata ribadita in quella sede la richiesta di un’indagine conoscitiva di tipo sia quantitativo sia qualitativo che possa fornire dati certi per orientare interventi e correttivi alla legge 6 del 2004.
Le associazioni che si occupano dei diritti delle persone disabili, e in particolare quelle con disagio psichico che sono tra le più interessate all’amministrazione di sostegno, non mancano di denunciare le criticità emerse nell’applicazione della legge. E lo fanno sulla base dei casi che vengono loro segnalati con sempre maggiore frequenza. Secondo l’associazione Diritti alla Follia, ad esempio, sarebbero sottoposte ad amministrazione di sostegno anche persone capaci di gestirsi, che non avrebbero richiesto alcuna tutela e che magari sono costrette a subire questa misura a loro insaputa su segnalazioni non adeguatamente verificate dagli operatori sociosanitari. Inoltre, invece di affidarsi a familiari o persone disponibili anche a titolo gratuito, il giudice tutelare tenderebbe a nominare figure professionali come gli avvocati e i commercialisti che figurano in appositi elenchi messi a disposizione dagli ordini professionali. Spesso i professionisti si fanno pagare fior di onorari dal beneficiario, attingendo alle risorse e al patrimonio di quest’ultimo. Il giudice tutelare, infine, attribuirebbe agli amministratori di sostegno poteri assoluti, analoghi a quelli dell’interdizione. E ciò sarebbe all’origine di molti abusi e violazioni a danno degli assistiti.
Secondo l’Unasam, Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale, i servizi pubblici, e in particolare i servizi di salute mentale, farebbero un massiccio ricorso all’amministrazione di sostegno indicando persone di fiducia del servizio, allo scopo di togliere alle persone in cura o ai loro familiari qualsiasi possibilità di discutere, valutare e nel caso contrastare l’operato del servizio, specie per quanto riguarda i percorsi di cura personalizzati, la prescrizione e somministrazione di farmaci, l’invio in strutture residenziali, e persino le pratiche coercitive nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura o in altri luoghi dedicati alla cura e all’assistenza.
In breve, le due associazioni denunciano abusi che spesso sconfinano nel reato penale o nel mancato rispetto della legge, per quanto riguarda ad esempio l’audizione obbligatoria del potenziale beneficiario e il controllo personalizzato e dettagliato sugli atti che l’amministratore può compiere. Ma soprattutto denunciano la trasformazione dell’istituto in qualcosa che esula dallo spirito originario della legge, perdendo di vista il “sostegno” e trasformando l’amministratore in una figura che agisce in modo discrezionale e insindacabile sia nella gestione dei patrimoni dei beneficiari, quando presenti, sia nel merito e nelle decisioni di qualunque atto riguardante la loro vita.
“Come alcuni fatti di cronaca purtroppo testimoniano – ha detto la relatrice al succitato convegno Marinella Cornacchia –, l’esistenza di un consistente patrimonio economico del beneficiario ha portato ad abusi e a vere e proprie spoliazioni dei beni. Noi familiari abbiamo verificato quanto sia mortificante venire completamente esclusi dalle decisioni sul futuro dei nostri congiunti e come la persona da amministrare e sostenere sia privata ancora una volta della parola, ritrovandosi a dipendere completamente dalle decisioni di altri, spesso sconosciuti, con i quali a volte è impossibile creare un rapporto fiduciario. Abbiamo constatato come spesso si ricorra alla nomina di un amministratore di sostegno per agevolare percorsi istituzionalizzanti anche contro l’opinione della famiglia. Abbiamo scoperto come spesso la burocrazia, con la sua lentezza e a volte farraginosità, ma anche con i suoi stessi problemi organizzativi, frapponga un muro invalicabile all’ascolto delle persone, sulle loro necessità, sulle loro aspettative per il futuro”.
Marinella Cornacchia è coordinatrice dell’Aras, Associazioni in Rete per amministrazioni di sostegno, costituitasi nel 2019 per volontà di alcune associazioni di volontariato con l’intento di offrire supporto alle persone in stato di fragilità, ai loro familiari e ai volontari che se ne occupano. Uno dei suoi principali obiettivi è la formazione. “Riteniamo fondamentale che l’amministratore di sostegno abbia una migliore conoscenza della natura del disagio – ha detto Marinella Cornacchia –, sia scevro da pregiudizi nei confronti di alcune patologie e/o dipendenze e che infine mostri una competenza tecnica oltre che una buona attitudine e sensibilità alla relazione di aiuto”.
Sta ora al Comune, alla Regione e a tutti i soggetti interessati dar seguito agli impegni che hanno assunto in questa direzione.