Nato negli anni ’90, il movimento dell’evidence-based medicine propone un approccio che coniuga l’esperienza clinica e le preferenze del paziente con le migliori prove di efficacia di un atto medico, giudicate secondo regole formali condivise dalla comunità scientifica. La validità di questo paradigma poggia su diversi criteri, su cui di focalizza un recente editoriale del BMJ e ripercorsi anche nel webinar organizzato dalla società benefit Zadig a giugno.
Il webinar organizzato da Zadig l’8 giugno 2022 ha spiegato in modo esauriente e comprensibile anche ai non addetti ai lavori come bisogna leggere uno studio clinico per comprenderne i risultati, competenza quanto mai necessaria in quest’epoca di grande espansione di ricerche esonerate dalla revisione di altri scienziati (peer review) prima della pubblicazione e di immediata risonanza mediatica di ogni reale (o preteso) progresso medico.
Un tempo, la medicina, praticata e insegnata, si basava su verità enunciate dagli esperti; in quanto aristocratiche, tali verità erano al tempo stesso mutevoli e dogmaticamente refrattarie a essere discusse. Sul finire dello scorso millennio, nel 1992, un po’ per la dilagante democrazia delle opinioni, un po’ perché le conoscenze mediche aumentavano di giorno in giorno rendendo obsolete quelle passate e difficili le scelte cliniche appropriate, un movimento chiamato dell’Evidence-Based Medicine (EBM), propose un approccio che coniugava l’esperienza clinica e le preferenze del paziente con le migliori prove di efficacia di un atto medico, giudicate secondo regole formali condivise dalla comunità scientifica internazionale. Una scala di validità intrinseca al tipo di studi condotti per ottenere tali prove mette al primo posto quelli randomizzati controllati (RCT, randomized controlled trial, in cui i pazienti vengono destinati in modo casuale a far parte del gruppo sperimentale o di quello di controllo) e le revisioni sistematiche con metanalisi, che raccolgono gli RCT sullo stesso argomento ed elaborano la sintesi dei risultati di un intervento (farmacologico o di altro genere) disponibili a un dato momento.
A parere di chi scrive, la definizione “medicina basata sulle prove di efficacia” traduce l’inglese evidence-based medicine meglio di “medicina basata sulle evidenze”, giacché ciò che è evidente, per sua stessa natura, non deve essere dimostrato, né provato. Le “verità” scientifiche, invece, devono essere provate e, tra esse, l’efficacia di un farmaco o di una procedura medica o chirurgica deve esserlo ancor più di altre.
La validità del paradigma EBM poggia sui molti criteri raccontati nel webinar, tra i quali vi è l’affidabilità dei dati raccolti negli studi clinici; l’editoriale The illusion of evidence based medicine, scritto dallo psichiatra australiano Jon Jureidini e dal filosofo bioeticista californiano Leemon B. McHenry, da poco pubblicato fa sul British Medical Journal, verte su questo tema specifico. Una buona parte degli RCT, dicono gli autori, è sponsorizzata oppure direttamente condotta dalle case farmaceutiche, anche se è poi firmata da qualche accademico di prestigio; non è, quindi, affatto remota la possibilità che le conclusioni degli studi siano “manomesse” dalla proprietà intellettuale dei dati da parte della committenza, che può decidere di non pubblicare i risultati negativi della ricerca o gli effetti avversi del farmaco su cui questa indaga e di non condividere i dati grezzi con la comunità accademica dei ricercatori. Per l’industria farmaceutica, l’interesse degli azionisti sembra venire prima dell’integrità scientifica; le università (negli USA più che altrove), da sempre sensibili alle influenze legate all’assegnazione dei fondi di ricerca, sono state definitivamente convertite, dall’insufficiente sovvenzionamento pubblico, alla logica di mercato e premiano presidi di facoltà chiamati a dimostrare solo la loro redditività e abilità di orientare le scelte dei colleghi verso i prodotti del mandante commerciale.
Questi aspetti di debolezza degli studi clinici controllati erano risaputi? Certamente sì ma, secondo gli autori dell’articolo, vale ancora la pena di ribadirne l’esistenza, senza mezzi termini:
Patients die because of the adverse impact of commercial interests on the research agenda, universities, and regulators
Mettere in luce le criticità del sistema certamente può offrire argomenti all’anti-scienza, ma è un rischio da correre, in nome della scienza stessa. L’editoriale del BMJ non insinua che tutti i ricercatori siano venduti a Big Pharma, né che tutte le riviste scientifiche siano serve del potere accademico (tant’è vero che l’invettiva al suo indirizzo è pubblicata su una delle più importanti di esse), né che sugli scaffali delle farmacie siano messi in vendita veleni (o vaccini farlocchi) al solo scopo di aumentare i dividendi dei produttori. Incita invece, per evitare che ciò avvenga, a esercitare sempre il senso critico (soprattutto se si praticano professioni sanitarie) e a escogitare possibili rimedi. Per togliere la proprietà esclusiva dei dati agli sponsor, per esempio, basterebbe modificare i moduli di consenso in modo che i partecipanti stessi alle sperimentazioni richiedano a chi le conduce di rendere i dati liberamente disponibili. Ciò risponderebbe sia al diritto delle persone coinvolte in trattamenti potenzialmente rischiosi di partecipare a studi conformi a principi di rigore scientifico, sia a quello degli scienziati di confutare i risultati ottenuti da una ricerca o di emendarne eventuali errori.
Inoltre, dovrebbero essere vietati ogni legame finanziario tra le agenzie di regolamentazione e le società da esse regolamentate e il pagamento degli esperti che si pronunciano sui risultati delle ricerche: lo proponeva già 15 anni fa il bioeticista David Resnik, ma di “conflitti d’interesse” si parla fin dagli anni ottanta del secolo scorso. David Thompson, che aveva fondato ad Harvard il Center for Ethics and Professions, nel 1993 ne dava questa definizione sul New England Journal of Medicine:
Un conflitto d’interesse è un insieme di condizioni in cui il giudizio professionale relativo a un interesse primario (come il bene del paziente o la validità di una ricerca) tende a essere indebitamente influenzato da un interesse secondario (come un guadagno economico)
Anche in assenza di un tornaconto finanziario, comunque, l’osservazione non può mai dirsi neutra, neppure in ambito scientifico, perché la mente umana tende inconsciamente a sovrapporre le proprie categorie alla realtà osservata; nel loro articolo, Jureidini e McHenry citano Karl Popper, paladino a tutto campo dell’anti-dogmatismo. In una società che egli vorrebbe “aperta a più valori, a più visioni filosofiche del mondo e a più fedi religiose, a una molteplicità di proposte per la soluzione di problemi concreti e alla maggior quantità di critica” e chiusa solo agli intolleranti, Popper ritiene necessario che esista un “codice d’onore” tra gli scienziati e che la ragione venga impiegata non tanto per legittimare la verità di una teoria, ma per criticarla, individuandone i possibili errori. Secondo la concezione da lui divulgata nel 1920, infatti, una teoria è scientifica soltanto se la si può sottoporre a un controllo in grado, eventualmente, di falsificarla. Se i tentativi di falsificazione non hanno esito, la teoria può essere ritenuta “corroborata”, in via provvisoria, ma mai definitivamente “verificata”. Popper non nega l’esistenza di una verità assoluta che, anzi, considera l’ideale cui tendere; proprio a tale fine, rivaluta l’errore, la cui eliminazione, attraverso il dibattito critico, aumenta la conoscenza.
Evitare errori è un ideale meschino. Se non osiamo affrontare problemi che sono così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa grande è imparare da essi
fonte: Scienza in Rete