I Centri antiviolenza nelle politiche regionali: eterogeneità e prospettive. di Pamela Pasian, Francesca Proia

Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 3-4 2021 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link: https://www.futura-editrice.it/prodotto/rps-n-3-4-2021/

Le Regioni costituiscono l’anello di congiunzione tra la dimensione nazionale e quella territoriale, ricoprendo il ruolo di raccordo nelle trasformazioni normative, organizzative e finanziarie (Kazepov e Barberis, 2013) concernenti numerose politiche, tra cui quelle sociali, ambito in cui generalmente vengono ricondotte le misure antiviolenza nelle iniziative regionali.

In particolare, in riferimento alle misure di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne, se l’azione del legislatore a livello nazionale ha dato l’impulso al rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei Centri antiviolenza (Cav) e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza, a livello regionale hanno fatto eco politiche e azioni dal carattere eterogeneo.

Il contributo, adottando una prospettiva sociologica, intende offrire una ricostruzione storico giuridica dell’inquadramento dei Cav a livello nazionale e regionale per poi soffermarsi su alcuni aspetti legati alla loro organizzazione territoriale, alla relativa governance e alle reti, al fine di dare evidenza dell’eterogeneità nelle disposizioni presenti nel territorio nazionale e riflettere sulle criticità e opportunità di un siffatto panorama. Le riflessioni presentate tengono conto anche del dibattito circa la specificità della natura dell’operato dei Cav e di un loro ruolo ben distinto da quello di un servizio sociale o socio-sanitario, così come rivendicato dai Cav stessi (Cimagalli, 2014). Il contributo si inserisce quindi nel dibattito circa la tensione esistente tra riconoscimento formale e necessità di autorappresentazione e affermazione dei Cav nell’ambito delle iniziative istituzionali.

L’obiettivo è sviluppare una riflessione sul ruolo dei Cav nell’ambito delle misure inerenti alla lotta alla violenza maschile contro le donne, a partire dall’eterogeneità di approccio presente tra le diverse Regioni; l’Italia, infatti, si presenta come un patchwork di modelli regionali (Costa, 2013) di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne. La varietà dei modelli mostra da un lato la capacità delle Regioni di riconoscere, talvolta ancor prima del legislatore nazionale, le diverse istanze e pratiche territoriali, anche valorizzandole, dall’altra, però, questa stessa eterogeneità sottolinea la difficoltà di comprendere modelli socio-culturali e di welfare alternativi promossi dagli stessi Cav e di sopperire alle carenze di un’architettura istituzionale ancora debole dinanzi ad un problema culturale e strutturale qual è il fenomeno della violenza maschile contro le donne.

Il tentativo poi di ricondurre le politiche e pratiche di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne all’interno di categorie già note e definite, in particolare in quelle della filiera dei bisogni-interventi sociali e sanitari, se da una parte risponde alla necessità delle Istituzioni di inquadrare formalmente tipologie di interventi e servizi (al fine di gestirli e finanziarli) dall’altra rischia di appiattirne la complessità (dei bisogni delle vittime e delle cause delle violenze) e disperdere le esperienze maturate localmente dai presidi storicamente deputati al contrasto delle violenze maschili contro le donne. Inoltre, tale tentativo di semplificazione non è esente da connotazioni simboliche: laddove il movimento delle donne ha costruito fuori dalle Istituzioni spazi altri, ove prevenire e contrastare il problema, si tenta di ri-portare le donne dentro le Istituzioni in un percorso inverso (Foglia, 2014). Facendo ciò si rischia la neutralizzazione dei Centri: il prevalere di un approccio orientato alla standardizzazione degli interventi può, ad esempio, compromettere sia la specificità sia l’efficacia della metodologia basata sulle relazioni tra donne storicamente praticata e rivendicata dai Cav quale elemento essenziale nei processi di fuoriuscita dalle violenze (Busi e Minniti, 2021).

Sebbene da una parte questo percorso possa rappresentare anche un’opportunità per ripensare i servizi alla persona dall’altra il processo di cooptazione comporta il rischio per i Cav di perdere nel tempo la propria forza (politica) innovatrice e la capacità di incidere nella lotta alla violenza maschile sulle donne. Tra l’altro i Cav, hanno promosso processi innovativi del welfare locale, anticipando in questo modo la necessità di ripensare in un’ottica integrata e reticolare gli interventi del welfare (Cimagalli, 2014). In siffatto quadro ci si interroga allora su quali risposte troveranno le donne che risiedono in quelle regioni che approcciano la prevenzione e il contrasto alla violenza attraverso politiche antiviolenza fragili, assimilate per lo più ad altri ambiti e che non supportano sostanzialmente il ruolo principe dei centri specializzati e delle metodologie in esse praticate. Il punto, infatti, non è tanto l’eterogeneità regionale per sé (Kazepov e Barberis, 2013), che anzi può beneficiare delle esperienze locali fornendo risposte maggiormente aderenti ai bisogni specifici di quel territorio, ma il tipo di eterogeneità che si genera e se questa raggiunga l’obiettivo di rispondere sempre adeguatamente ai bisogni delle donne. Quale può dunque essere la via da perseguire per le Regioni e quale può essere lo spazio da dedicare a questo ambito d’azione nelle iniziative regionali? La chiave pare essere un riconoscimento specifico alle politiche volte a prevenire e contrastare la violenza contro le donne. Queste politiche, infatti, necessitano di muoversi in un «sistema di welfare in grado di garantire alle donne i diritti fondamentali» (Re e al. 2019) e di uno spazio quindi indipendente e in connessione con gli ambiti adiacenti che intercettano il fenomeno (Walby e al., 2014; Toffanin, Pietrobelli e Misiti 2020), uno spazio fondato su un approccio di genere, in grado di incorporare nelle proprie pratiche la specifica metodologia basata sulla relazione tra donne, sulle pratiche di ascolto, di empowerment e di autodeterminazione.

fonte: RPS La Rivista delle Politiche Sociali

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