Signor Presidente della Repubblica, Signora Presidente del Senato, Parlamentari presenti, Autorità, Partecipanti tutti, inclusi coloro che ci seguono da lontano attraverso la diretta televisiva, taluni nei luoghi di cui tratta la Relazione che oggi presento al Parlamento.
Mi rivolgo parimenti a tutti voi e Vi ringrazio personalmente e come Presidente della giovane e solida Istituzione di garanzia dei diritti delle persone private della libertà personale sia per la vicinanza che tale presenza testimonia, sia per l’opportunità che per la sesta volta mi viene data di esaminare insieme gli elementi positivi e le persistenti criticità che delineano oggi la complessiva area della privazione della libertà personale.
La delineano lungo gli assi della assoluta tutela del diritto al riconoscimento della propria dignità e dell’altrettanto assoluta tutela della integrità fisica e psichica di ogni persona che, per una varietà di ragioni, sia nella condizione di non poter decidere del proprio spazio, del proprio muoversi, del proprio tempo.
Sono due assi che discendono dalla premessa che tale situazione soggettiva inevitabilmente determina una specifica vulnerabilità rispetto alla tutela dei diritti intangibili di ogni persona nonché di quelli per il cui esercizio è possibile una riconfigurazione, ma mai un completo annullamento. I diritti non si fermano davanti a cancelli e muri né divengono altro rispetto a quelli che più volte la Carta costituzionale stabilisce che valgano per tutti – per ben sedici volte indica diritti di tutti i cittadini e per altre cinque stabilisce che il diritto enunciato valga per ogni cittadino.
Le peculiarità dei diritti
Ho altre volte indicato che a questi diritti si aggiungono quelli determinati dalla situazione specifica in cui la persona ristretta si trova e che possono essere riassunti nel diritto a che la finalità che ha motivato il venir meno di quel bene che il primo comma dell’articolo 13 della Costituzione definisce come “inviolabile” sia realmente perseguita durante il tempo della sottrazione di libertà. Non può essere un tempo vuoto.
Così già lo scorso anno – indicando un po’ forzatamente tale assioma come unico diritto uti captivus – ho ricordato che l’imprescindibile impegno a che l’esecuzione penale, in particolare della pena detentiva, sia concretamente ed effettivamente orientata alla finalità espressa non è una indicazione di politica penale, ma è la concretizzazione di un diritto soggettivo della persona reclusa.
Così come, in un ambito diverso, la persona ospitata in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, per un trattamento sanitario obbligatorio, ha diritto a che questa sua peculiare situazione sia inserita nel contesto di un piano trattamentale effettivamente orientato al massimo recupero delle possibilità di autodeterminazione e una persona ospitata in una residenza assistenziale chiusa – la cui libertà è di fatto estremamente ridotta, soprattutto nel periodo recente e in molti casi tuttora – ha diritto al potenziamento di ogni pur limitata e residuale possibilità di scegliere e orientare il proprio tempo, scongiurando in modo assoluto la possibilità di trasformare questa sua specifica collocazione in una forma di internamento. Né, in un altro ambito di intervento del Garante nazionale, può essere accettata la sottrazione di libertà di una persona migrante irregolare, formalmente finalizzata al rimpatrio, quando si è certi che tale esito non potrà realizzarsi.
Il tempo sottratto deve avere sempre significato e deve essere chiaramente orientato alla finalità che tale sottrazione ha consentito, oltre che circondato da tutte le tutele imposte dalla riserva di legge e di giurisdizione.
Questa è stata la linea che ha indirizzato in questi anni sia l’azione di visita e monitoraggio delle diverse strutture dove la privazione della libertà si realizza de iure o de facto, sia la formulazione di raccomandazioni e anche a volte di richiesta di indagini, sia il complessivo dialogo istituzionale con le diverse Amministrazioni che hanno il mandato di gestire in nome della collettività l’attuazione dei difficili compiti di fermare, contenere, detenere, ospitare e al contempo tutelare ogni persona rispetto alla quale tale misura venga adottata.
Ugualmente, il dialogo con il Legislatore ha avuto questa stessa connotazione, riconoscendo il Parlamento non solo come luogo dove si concretizza lo spazio pubblico nella funzione legislativa, ma anche come peculiare ed essenziale spazio dialogico di costruzione della cultura condivisa nella collettività. Per questo, il Garante nazionale, anche nell’anno appena trascorso, non si è limitato a collaborare con la propria indicazione di conoscenza all’azione di produzione normativa – e ringrazio i Presidenti di Camera e Senato per aver sempre consentito e sollecitato in audizioni specifiche tale intervento – ma è anche intervenuto a volte criticamente proprio sugli elementi di costruzione culturale che comunque ogni dibattito tematico porta con sé: in primo luogo il linguaggio.
Questo aspetto mi riporta a una necessaria premessa relativa al presente del nostro discutere attorno all’anno che ci separa dalla precedente Relazione al Parlamento.
Lo scorso anno, rievocando anche il mutamento cromatico e di ambientazione tra due opere contemporanee di Caspar David Friedrich, dall’indeterminatezza nebbiosa del viandante di fronte a un precipizio all’orizzonte luminoso dell’isola di Rügen, avevo ipotizzato e auspicato un ritorno alla normalità caratterizzato dalla riapertura di quei luoghi verso la ripresa di connessione con il mondo esterno.
In realtà, tale connessione non si è ripresa: di più, mentre fuori di quelle mura e di quei cancelli ha prevalso la volontà di riapertura, anche quando non pienamente sostenuta dai parametri numerici, al di là di essi ha prevalso e tuttora prevale un’idea riduttiva del rapporto con la realtà esterna. Soprattutto nelle strutture sanitarie e assistenziali permane una chiusura difensiva che troppo spesso priva le persone del conforto dei propri affetti.
Questo irrisolto ritorno a una vita meno dissimile da quella nella società libera non è esterno alla pervasiva ansia che coinvolge la nostra collettività. E che ha visto una continuità tra la difficile fase del rischio del contagio pandemico e quella ancor più problematica dell’irruzione di una guerra di aggressione a noi territorialmente vicina. Non possiamo pensare che ciò non si rifletta anche in quei mondi apparentemente separati.
Sappiamo bene che non sono certamente mancate le guerre in varie parti del pianeta dopo quel “mai più” solennemente affermato all’indomani della tragedia che il mondo aveva vissuto nella prima metà del secolo scorso.
All’indomani di un impegno solenne, racchiuso in quella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo il cui incipit esprime un imperativo etico-politico che avrebbe dovuto guidare il rapporto tra i popoli e tra gli Stati e che invece è rimasto come una mera enunciazione non tradotta in impegno.
Non sono mancate, quindi, guerre anche a noi molto più vicine nel dissolversi di realtà politiche che avevano tenuto insieme diversità senza mai costruirne una reale composizione e pronte, quindi, a esplodere nel venir meno dell’effimera e rigida connessione.
Ma il carattere della guerra oggi in corso in un’area del territorio europeo ha una connotazione particolare, sia per l’oggettività dell’asimmetria del conflitto che ha visto uno Stato sovrano aggredito da uno Stato vicino, sia per il suo potenziale espandersi in altre forme che, in un mondo globalizzato, coinvolgono progressivamente – come in un effetto farfalla – regioni economicamente dipendenti da quell’economia e quei trasporti congelati dal conflitto in corso. Le povertà di aree geografiche e di settori sociali sono tasselli di una guerra derivata che tende a diffondersi in forme di accentuazione delle diversità, delle insorgenze migratorie, con effetti ancora non calcolabili compiutamente.
Questa linea di continuità tra guerra al virus, guerra al fronte e guerra sperimentata nella povertà diffusa determina dei mutamenti nel nostro confrontarci con le difficoltà – e i luoghi verso cui questo Garante nazionale deve volgere il proprio sguardo sono intrinsecamente luoghi di difficoltà. Questi mutamenti hanno già riguardato il linguaggio – anche quello all’interno delle Istituzioni. Che progressivamente ha fatto sempre più ricorso a termini di schieramento, a espressioni definitive, alla logica dell’inimicizia. La guerra non ricompone nella solidarietà – come taluni potrebbero supporre quale esito della sofferenza visibile e vista.
Al contrario, determina un’accentuazione della tendenza selettiva. Come osserva Zygmunt Bauman “la sensibilità pubblica all’umiliazione e l’opposizione a quest’ultima sono di natura selettive. In ogni momento alcuni tipi di umiliazione di certe categorie di persone suscitano clamore e generano appelli all’azione, mentre altri tipi non vengono riconosciuti come problemi che richiedono una risoluzione, oppure vengono giudicati al di là dell’umana capacità di riparazione, oppure ancora vengono definiti sofferenze che non possono essere curate o impedite dall’esterno perché di fatto autoinflitte”.
Non è certo che la constatazione della espansione globale di sofferenza che una guerra determina sugli strati più deboli della popolazione mondiale determini maggiore capacità di accoglienza in senso generale e maggiore solidarietà. E già oggi vediamo la tendenza selettiva nell’accogliere persone che vengono da conflitti diversi o spinte dagli esiti di conflitti più antichi.
Per questo dobbiamo porre attenzione ai mutamenti che la logica di guerra, la presenza concreta del conflitto nella nostra quotidianità, nei nostri mezzi tradizionali di informazione e ancor più in quelli dove le informazioni stesse sono plurime e incontrollate, porta con sé. Mutamenti che inevitabilmente si riflettono nei luoghi delle difficoltà e nel rapporto che la società nel suo complesso ha con essi.
Il rischio principale è nella tendenza a non porre attenzione verso gli strumenti di ricomposizione, ricostruzione e riparazione possibile e a non realizzare progettualità in tale direzione, per rivolgersi invece verso il rifiuto, verso l’affermazione di impossibilità di cambiamento di una persona o di un contesto, verso l’adozione di strumenti centrati sull’incapacitazione e la segregazione di ciò che si ritiene irresolubile.
In ambito penale, prevale così una distorsione del diritto centrata sull’inimicizia e il reo, tramutato in nemico, non è più persona destinata al miglior ritorno avverabile, bensì persona da tenere più distante possibile da ogni ipotesi di ritorno.
In altri ambiti, per esempio, in quello del disagio psichico, scompare l’interpretazione dell’incidenza della relazionalità sociale sul disagio stesso e prevale il desiderio di salvaguardare gli altri dalla presunta pericolosità della persona malata e sostanzialmente fragile. Quanto alle persone migranti irregolari, solo quest’ultimo aspetto – l’irregolarità – diviene sintesi dell’intera vita della persona e viene meno ogni considerazione che aiuti a distinguere la possibile progettualità alla base della ricerca difficile di “altrove” da percorsi invece che possono porre questioni di sicurezza.
Tutto è riassunto nella sola irregolarità: le pagine della Relazione di quest’anno riportano un episodio che sintetizza drammaticamente il restringersi di questo sguardo e che ha trasformato un giovane migrante vittima di un’aggressione violenta in una persona di cui disfarsi, rinchiudendola in un Centro per il rimpatrio per la sua irregolarità amministrativa, fino al suo abbandono verso il suicidio.
Nella difficoltà del momento attuale che induce inevitabilmente alla logica propria della guerra, occorre invece ritrovare la capacità dello sguardo normale. Ricordando che la solida ordinarietà dell’agire democratico è l’asse portante della nostra Carta: la parola “solidarietà” compare sin dal suo secondo articolo, la parola “emergenza” non vi compare, mentre anche l’aggettivo “eccezionale” è richiamato per contenere i poteri non per estenderli.
L’asse tematico
Come avvenuto già lo scorso anno, la Relazione si compone di due parti: una principale di riflessione generale, a partire dall’analisi di alcuni aspetti che hanno caratterizzato l’anno trascorso e che contiene le conseguenti richieste che avanziamo al Parlamento e le raccomandazioni che formuliamo alle Amministrazioni, l’altra quale appendice che fotografa con indicatori numerici la situazione attuale nelle cinque complessive aree dell’impegno del Garante nazionale: quella penale, quella relativa alle Forze di Polizia, l’area dei migranti amministrativamente trattenuti e i relativi rimpatri, l’area sanitaria e, infine, quella socio-assistenziale.
La Relazione si compone, quindi, di due aspetti.
Uno consiste nella fotografia attuale della libertà negata – in carcere, in un centro per migranti, in un luogo di cura o in un luogo di assistenza – e nelle criticità che essa evidenzia sia per chi subisce tale condizione, sia per chi è chiamato a gestirla e organizzarla quotidianamente.
L’altro nello sguardo prospettico che il Garante nazionale offre come proprio contributo istituzionale per una sempre più coerente coesistenza di valori apparentemente confliggenti: la sicurezza individuale, la capacità collettiva di affrontare le difficoltà, il recupero verso forme riconcilianti anche di chi ha commesso errori, la vicinanza non solo simbolica a chi tali errori ha subito. Questo è del resto il senso del rendere giustizia che mai va confuso con il fare giustizia.
C’è però un filo di Arianna che tiene insieme proprio questi due differenti aspetti e che vuole aiutare acomprendere ciò che è avvenuto e a costruire la direzione del proprio percorso. Negli anni passati questo filo era stato declinato in termini diversi tutti connotanti la privazione della libertà: i luoghi, le persone, le parole con cui con essa ci si misura, le norme che definiscono questo universo.
Quest’anno il filo scelto è quello del tempo, che acquista una particolare fisionomia nel contesto della privazione della libertà personale. Non è una fisionomia rassicurata o rassicurante: al contrario, ha i lineamenti mutevoli in quella particolare situazione soggettiva dell’essere in un luogo chiuso, di vedere i propri ‘strumenti’ di costruzione conoscitiva limitati dalla contingenza che si vive o dall’ineluttabilità di quella che si prefigura in avanti.
Il tempo, messo in rapporto con la specificità della privazione della libertà, ha il volto contratto dalla tensione del momento in cui si è fatta una scelta che già conteneva, forse nascosto, il germe del suo possibile evolversi negativamente. È il tempo dell’inizio. Il momento della decisione di mettersi in mare o di attraversare una frontiera per un destino che si spera migliore contiene già, infatti, tutte le immagini di un futuro difficile, forse destinato a concludersi in un ritorno di sconfitta, che però non sono in grado a trattenere la decisione del momento. Anche il momento della decisione di commettere un reato ha in sé le immagini del futuro che forse a volte non sono visibili a chi agisce e che sono destinate a comparire più avanti.
Più avanti, il tempo riconfigurato non è più quello di prima: si declina in parole come lentezza, dilatazione, ciclicità, che lo rendono sempre più distante dal suo omologo che fluisce all’esterno dei luoghi chiusi. Parafrasando le parole che il Reverendo Dodgson (Lewis Carroll) fa dire al Coniglio bianco, rispondendo alla domanda di Alice, “a volte per sempre dura solo un secondo”. Perché quell’attimo – del reato, del passaggio di un confine, dell’ingresso in un ricovero – determina un mutamento sostanziale dell’organizzazione della sequenzialità quotidiana, della futura catalogazione degli accadimenti e anche della soggettiva percezione del tempo e del suo impossibile coordinamento con il tempo degli altri; di chi non è recluso.
C’è un momento in cui la circonferenza che riassume metaforicamente il ciclico ritmo quotidiano dei luoghi chiusi e la retta a essa tangente che riassume l’andare del tempo esterno, coincidono nello stesso punto: poi la prima tornerà su sé stessa, mentre l’altra si allontanerà sempre più.
A ogni incontro con una persona esterna, a ogni incontro con i propri affetti, ma anche a ogni momento di confronto con l’Istituzione che regola e legittima il procedere dell’assenza di libertà, circonferenza e tangente sono di nuovo insieme in un singolo punto: per un attimo sembrano avere lo stesso orologio, poi inevitabilmente si discostano, l’una torna a ripiegarsi nella logica dell’internamento, l’altra a seguire la direzione degli eventi.
Per questo, è anche difficile dare una misura del tempo della privazione della libertà: il tempo e la sua durata. Difficile misurarlo prima, in termini proiettivi, per stabilire quale sia il tempo necessario perché la finalità rieducativa di una pena possa realizzarsi; altrettanto difficile una qualsiasi misurazione della significatività del suo svolgersi, per capire se e come intervenire, se e come restituire al mondo libero.
Altresì difficile misurare l’esito di un percorso terapeutico nei termini rassicuranti spesso inesauribilmente richiesti da una collettività esterna sempre ansiosa e desiderosa di non vedere le diversità che pure abitano in essa. Misure difficili che rischiano di far sconfinare la non misurabilità con l’indefinitezza. Da qui, il rischio di aggiungere anche l’indeterminazione ai sostantivi che declinano il tempo nella restrizione: i “mai”, pronunciati per i ritorni a cui le istituzioni segregative – tutte – dovrebbero invece guardare, nascono anche da questa misura che si estende in modo incongruo e limitato solo dal tempo della vita.
I contributi tematici di questa Relazione al Parlamento 2022 si snodano attraverso queste tre aree di riflessione che ricalcano, con la dovuta modestia, la memoria, la visione, l’attesa, come le ricorda Agostino nel suo distinguere “il presente del passato”, “il presente del presente” e “il presente del futuro”.
Ben sapendo che il tempo non è “operatore della pena” solo nel senso con cui Michel Foucault lo individua: come possibilità che esso offre perché si espliciti l’azione peculiare del castigo. Lo è anche come durata concessa in tutti gli altri luoghi di privazione della libertà perché si realizzino le strategie istituzionali verso persone ritenute non in grado di agire nella propria autonomia e nella propria capacità decisionale.
Ma il tempo è anche declinabile attraverso alcune parole che ne chiariscono il significato attribuito al proprio tempo da ognuno di noi nella sua contingente situazione.
Le parole scelte sono: simultaneità, lentezza, dilatazione, misura, tempo di un mandato.
La parola simultaneità è emblematica del presente in cui ogni connessione è possibile nell’immediatezza e già qualche secondo di attesa sembra durare un’eternità, tale è la nostra sensazione di distruzione del tempo di sospensione.
La seconda parola è dilatazione perché, all’opposto, i tempi dell’attesa si dilatano in chi è privato della libertà.
La terza parola lentezza rappresenta un valore nella vita esterna e un’ulteriore pena nella vita di chi è ristretto in qualche luogo perché l’incedere burocratico con il suo passo lento, spesso inaccettabilmente lento, accentua la sensazione di costrizione.
La quarta parola è misura e indica la pretesa penalistica di far corrispondere alla gravità di un reato una misura maggiore di tempo sottratto, alla ricerca di un principio di equivalenza che se ha costituito un progresso in un mondo che superava con il diritto moderno la corporeità delle pene, mostra oggi tutto il suo limite.
Infine, la parola mandato: una parola particolare che, indirettamente, interroga anche il Garante nazionale su cosa sia possibile fare nel tempo limitato di un ‘mandato’ istituzionale di fronte a problemi che vengono da molto lontano e che sono destinati a perpetuarsi, oltre il termine del mandato stesso.
Attorno a queste parole è stato richiesto il contributo di persone, di alto profilo intellettuale, esterne al Garante nazionale. Ringrazio qui Carlo Rovelli, Matteo Zuppi, Fiorinda Li Vigni, Davide Petrini, Massimo Bray, amici del Garante nazionale per il contributo che arricchisce questa Relazione.
Il tentativo è stato ed è costruire una doppia coralità di riflessione: di contributi che nascono in aree disciplinari diverse e attraverso esperienze lavorative diverse e di contributi che presentano la varietà delle ragioni e delle forme in cui si realizza la privazione della libertà di una persona.
Un anno di penalità
Nel riferire di quest’ultimo anno di esecuzione di provvedimenti di natura penale e di problemi all’interno delle strutture che a ciò devono rispondere è bene partire dalla situazione dei minori, proprio per l’investimento sul loro futuro che un sistema ordinamentale deve fare in termini di rottura di quel legame sociale che con la commissione di un reato, in particolare da parte di una persona giovane, si è determinato.
Più volte, già negli anni precedenti, ho avuto modo di sottolineare come il sistema penale minorile del nostro Paese riesca a far vivere concretamente il principio che vuole la misura privativa della libertà come misura estrema e affida ad altre forme di positivo recupero la possibilità di non giungere alla sanzione penale nonché a forme di controllo e supporto l’esecuzione di provvedimenti di tale natura laddove questi si siano resi necessari.
Il numero attuale di 358 presenti negli Istituti penali minorili (di cui soltanto 163 al di sotto dei diciotto anni) e il parallelo numero di 3001 minori in ‘messa alla prova’ e di altri 784 in varie modalità alternative sono indicativi di questo quadro positivo. Tuttavia, qualche segnale non rassicurante si è registrato recentemente e riguarda la tendenza, soprattutto in alcune aree territoriali – spesso a Nord – alla crescita del numero di minorenni autori di reati compiuti collettivamente e la cui rilevanza richiede misure restrittive. Un incremento che, data la capienza di posti disponibili, rischia di determinare spostamenti verso Istituti geograficamente distanti, a detrimento dei rapporti familiari e affettivi e della connessione territoriale funzionale al ritorno.
Un disagio molto presente nel sistema di detenzione adulta: i numeri dei gesti autolesionistici e soprattutto dei suicidi – 29 a oggi a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare – dell’età e della fragilità, spesso già nota, degli autori di tali definitivi gesti sono un monito; ci interrogano non per attribuire colpe, ma per la doverosa riflessione su cosa apprendere per il futuro da queste imperscrutabili decisioni soggettive, cosa imparare per diminuire il rischio del loro ripetersi. Come leggere l’intrinseca fragilità che ci comunicano.
L’analisi numerica del carcere pone, a giudizio del Garante nazionale tre riflessioni prioritarie che affiancano quelle più note dell’affollamento delle strutture, della inaccettabilità di molte di esse sia per chi vi è ristretto, sia per chi vi lavora ogni giorno, della loro inadeguatezza sul piano spaziale per una esecuzione penale costituzionalmente orientata.
Le tre riflessioni riguardano in primo luogo l’accentuazione della presenza di minorità sociale in carcere: delle 54786 persone registrate (a cui corrispondono 53793 persone effettivamente presenti) e delle 38897 che sono in esecuzione penale – essendo le altre prive di una sanzione definitiva – ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni.
Superfluo è chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta; importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto.
Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa – e questa è la seconda riflessione – la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo.
Al di là della volontà del Costituente e delle indicazioni dell’ordinamento penitenziario queste detenzioni si concretizzano soltanto in tempo vitale sottratto alla normalità – interruzioni di vita destinate probabilmente a ripetersi in una inaccettabile sequenzialità.
Ma sono anche vite che altri sistemi di regolazione sociale avrebbero dovuto intercettare prima che intervenisse il diritto penale, strumento duro, sussidiario e anche costoso che dovrebbe restringere il proprio intervento alle sole situazioni in cui altre modalità di intervento non sono riuscite.
La terza riflessione riguarda, quindi, la responsabilità esterna, del territorio, che finisce con affidare al carcere le proprie contraddizioni determinando quella detenzione sociale – il termine è di Alessandro Margara – che il carcere non può risolvere.
Questa connotazione si è accentuata recentemente ed è alla base della difficoltà che chi opera in carcere soprattutto con compiti di gestione della sicurezza avverte: sebbene non della dimensione con cui è stato erroneamente ed enfaticamente riportato anche da qualche autorevole commentatore, l’aumento del numero di eventi critici esiste ed è indicativo di questo grumo di difficoltà racchiuso nel carcere, spesso connesso ad altri fattori soggettivi, talvolta anche classificabili come effettivo disagio psichico.
Non spetta a me intervenire circa la classificazione di tali comportamenti e certamente vedo il rischio di una sorta di ‘psichiatrizzazione’ di ogni agito che esuli dalla normalità e che determini anche difficoltà di risposta in chi ha la responsabilità di prevenirne esiti infausti.
Resta tuttavia l’obbligo per il Garante nazionale di segnalare la scarsità di supporto psicologico e psichiatrico nelle strutture detentive, la frammentarietà degli interventi quasi sempre di risposta a situazioni già evolute e scarsamente centrati sulla prevenzione e sulla continuità dialogica.
Una scarsità e una frammentarietà che, nonostante la professionalità dei singoli operatori, finisce con incidere sulle tensioni interne, sul ricorso ampio a interventi farmacologici, sulla previsione di una incongrua modalità di ‘sorveglianza a vista’ che, a volte svincolata dalla continuità medica, rischia di far ricadere impropriamente sul personale di Polizia penitenziaria una funzione e una responsabilità che non attengono alla sua formazione.
Il Garante nazionale ritiene che tale tema debba essere affrontato con la dovuta serenità e l’altrettanto dovuta urgenza, nel solco della riflessione che da più di quaranta anni ha posto come elemento determinante la necessità di non confondere funzione terapeutica e funzione custodiale. Tuttavia anche con la serenità e l’urgenza del riconoscere che il carcere non può dare risposta a un disagio che è ‘altro’ rispetto a quello insito alla esecuzione penale in privazione della libertà.
Proprio tenendo insieme entrambe le esigenze il Garante nazionale chiede che si avvii con urgenza una discussione sugli interventi da realizzare per rispondere a tale situazione, ritenendo essenziali sia l’allineamento nel codice delle previsioni per l’infermità fisica e per l’infermità psichica, sia la rivalutazione della congruità numerica, logistica e funzionale delle attuali 33 “Articolazioni per la tutela della salute mentale” (di cui cinque per donne) che ospitano 256 persone detenute (di cui 15 donne).
Accanto, occorre osservare che non è possibile far ricadere questo problema sulle “Residenze per le misure di sicurezza” di natura psichiatrica, su cui spesso si concentra l’attenzione dell’informazione, perché ciò determinerebbe il rischio di strutture territoriali che avrebbero un carattere manicomiale in quanto contenitori di situazioni soggettive del tutto dissimili dal punto di vista giuridico e medico. Il Garante nazionale è ben consapevole dell’incompiutezza del percorso normativo e attuativo avviato con la legge che ha previsto tali Residenze.
Un percorso segnato innanzitutto dall’errore concettuale di chi le configura come mere strutture di sostituzione dei dismessi Ospedali psichiatrici giudiziari e non come misura estrema all’interno di un progetto complessivo di presa incarico della persona autore di reato e dichiarata non penalmente responsabile. La recente sentenza che ha previsto per un autore di duplice omicidio l’internamento in Rems per trenta anni non può trovare alcuna giustificazione dal punto di vista sanitario perché nessun intervento di cura e recupero può essere attuato in tali termini e sembra richiamare soltanto la logica prognostica della pericolosità sociale.
Certamente anche nel caso delle Rems alcuni numeri devono esser rivisti. Ma nella doppia direzione: quella di ridefinire la loro presenza nel territorio, insufficiente in alcune specifiche aree, e quella di valutare l’eccesso di ricorso a tale misura, anche in via provvisoria e per fatti reato di minore entità, che determina la conseguenza di non avere disponibilità per casi definitivi e il perpetuarsi di presenze in carcere di persone che non hanno titolo giuridico per restarvi e soprattutto avrebbero bisogno di tutt’altra attenzione.
Mi sono soffermato sull’aspetto del disagio psichico perché questo è tema fortemente avvertito da chi quotidianamente lavora in carcere e perché è direttamente lesivo del bene della salute delle persone coinvolte, siano esse adulte o minori. Per questi ultimi troppo spesso la ricerca di una comunità dove tale disagio possa essere affrontato si scontra con la tendenza delle comunità stesse a selezionare i casi che meno costituiscano un problema.
Per questo il Garante nazionale chiede che l’impegno a ospitare e in ragionevoli tempi i casi che richiedono attenzione diversa da quella che il carcere può offrire sia sottolineato nella fase di definizione della convenzione con le strutture interessate.
La ragionevolezza dei tempi, delle attese riporta alla chiave di lettura di questa Relazione: il carcere si presenta spesso come luogo delle attese: ridurle è una scommessa importante.
Innanzitutto, ridurre il tempo che scorre tra ciò che si è commesso e il percorso, anche sanzionatorio, che conseguentemente si deve percorrere. Il tema della durata ragionevole dei processi, delle accelerazioni che i recenti provvedimenti adottati vogliono determinare e il differente impulso dato in tal senso fanno bene sperare.
Perché una sentenza che deve essere eseguita dopo molti anni finisce con assumere una fisionomia ben diversa da quella che la vorrebbe orientata alla rieducazione e al reinserimento.
Troppo spesso il Garante nazionale è stato interrogato da casi di sentenze che riguardavano fatti avvenuti molti anni prima e che coinvolgevano persone che nel frattempo si erano pienamente reinserite, senza commettere alcun reato e anzi con azioni che testimoniavano nuova consapevolezza.
L’interruzione di questi percorsi per l’esecuzione di provvedimenti che riguardano un passato lontano in un contesto, quale è quello attuale, in cui il tempo è caratterizzato da continue accelerazioni che inducono grandi mutamenti soggettivi, inquietano e interrogano.
Quale percorso potrà essere costruito per un giovane che ha commesso reati nel contesto di una manifestazione quando era liceale e che si trova a dover eseguire una sentenza detentiva per quanto allora commesso, undici anni dopo il fatto, con studi compiuti, progetti di studio e di vita avviati? Anche questi aspetti devono essere posti se vogliamo che quella finalità tendenziale delle pene non sia mera enunciazione: forse è qui che un percorso di riparazione, ricostruzione che si sta ora avviando anche dal punto di vista normativo deve agire con maggiore sensatezza dell’intervento meramente retributivo che l’assolutezza di una condanna detentiva comporta.
Lo scorrere del tempo va sempre considerato anche quando ci si interroga sui criteri che devono guidare il permanere o meno di percorsi speciali di esecuzione penale per reati molto gravi e soprattutto connotati da una azione non singola, ma connessa con reati di criminalità.
Il Garante nazionale ha sempre ritenuto essenziale che in questi casi si adottino e si mantengano tutte le misure volte a non consentire il perpetuarsi di tali legami ed ha sempre esaminato da questa prospettiva le misure che determinano la specialità detentiva. Una prospettiva che ha fatto propria l’impostazione sia della Corte costituzionale sia della Corte europea per i diritti umani, quando sono state rispettivamente adite per questioni riguardanti il regime ex articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Ritiene tuttavia importante continuare la propria azione di vigilanza affinché nessuna misura sia introdotta o mantenuta sulla base giustificativa di altri criteri, dettati dalla volontà di maggiore afflittività, e che provvedimenti relativi a tale misura abbiano ogni volta una base di fondamento che tenga conto dell’evoluzione del singolo e dei contesti.
Certamente è ora che le molte pronunce della Corte costituzionale relative a tale specialità di regime detentivo siano organicamente inserite in atti amministrativi regolamentari, superando le previsioni della circolare del 2017 e tenendo conto anche dell’esperienza di chi in questi anni con professionalità ha operato in quest’ambito.
Non è possibile comunque non aver presente l’attesa verso la risposta che il Parlamento darà alla richiesta della Corte costituzionale di rivedere l’unico attuale criterio della collaborazione che può far venir meno la preclusione all’accesso a benefici, alle misure alternative e alla liberazione condizionale.
Viviamo all’interno di un tempo fermo: la proroga di sei mesi per l’adozione di un provvedimento che deve rispondere a una pronuncia, quantunque non formale, di incostituzionalità, è il limite massimo concedibile. Ma anche questo – non dimentichiamolo – è comunque tempo di attesa che incide sulla vita delle persone. Anche perché la cosiddetta ‘ostatività’ riguarda anche pene temporanee che forse avrebbero potuto avere la possibilità di un migliore e graduale ritorno alla collettività esterna e che invece permangono in quell’assurdità del passaggio da un regime totalmente chiuso fino all’ultimo giorno alla libertà nel giorno successivo.
Ho tracciato alcuni temi che riguardano l’anno trascorso nel mondo dell’esecuzione penale.
Non ho volutamente fatto riferimento – cosa che invece il testo che consegniamo fa – a vicende di violenza che hanno proiettato un’immagine grave e non rassicurante della nostra detenzione e che nel corso dell’anno trascorso sono state censurate in modo chiaro dalla Ministra della Giustizia e dal Presidente del Consiglio nella loro visita a Santa Maria Capua Vetere.
Non le ho nominate perché non ritengo che siano rappresentative della fisionomia del nostro sistema di esecuzione penale. Però non cessano di interrogarci perché manifestatesi in più Istituti e in regioni diverse. Ci interrogano sulla cultura che sostiene quell’agire e anche quelle parole che vengono riportate da registrazioni negli atti processuali – anch’esse ci interrogano sul linguaggio. Ci interrogano sulla responsabilità di chi dovrebbe essere in grado di vedere e contrastare l’insorgere di tali atteggiamenti; ci interrogano sulla capacità effettiva di risposta affinché nulla possa essere interpretato come segnale di impunità.
Ci interrogano, infine, sulla capacità di accertamento rapido e di rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale è quella dell’articolo 613-bis del codice penale – tortura – o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione e il Garante ha ritenuto inaccettabile nel caso di Torino il rinvio a giudizio nel luglio del 2023 per accertare quanto accaduto e chi nel caso ne sia stato responsabile.
La pena detentiva ha bisogno oggi di ritrovare serenità, oltre che di essere ricondotta a misura estrema attraverso il ricorso ad altre misure di intervento in risposta alla commissione del reato. La normalità passa attraverso l’attuazione di quel principio delle Regole penitenziarie europee che stabilisce che debba essere il più simile possibile agli aspetti positivi della vita all’esterno, proprio perché solo l’attenzione agli affetti e alla possibilità di viverli compiutamente, all’offerta di istruzione e occasioni di cultura che sani la carenza di un titolo di studio che ancora connota una parte consistente della popolazione detenuta, al recupero di rapporto con il proprio corpo che superi la costrizione dei luoghi del mal-essere, può ridare significato concreto a quel comma dell’articolo 27 della Costituzione, troppo spesso soltanto rievocato.
In tal senso si sono mossi i lavori della Commissione che ha lavorato sul finire dello scorso anno, coordinata dal professor Marco Ruotolo, che ha individuato un insieme di linee di azione in parte amministrativa, in parte regolamentare e in parte legislativa. Il Garante nazionale auspica che quanto meno le due prime aree di azione siano rapidamente portate a concretizzazione.
Un anno di attese
Descrivere alcuni aspetti dell’anno trascorso relativamente alle strutture sanitarie e socioassistenziali potrebbe richiedere una specifica Relazione, proprio perché sono state direttamente toccate dal periodo della pandemia e, come già osservato, spesso molte di esse stentano a ritrovare una via di normalità.
Il Garante nazionale ha visitato alcune di queste strutture nel periodo della chiusura a terzi, anche alle persone rilevanti sul piano affettivo, soprattutto in una contingente situazione di accentuata fragilità emotiva dovuta all’età o alla particolare condizione di disabilità. Non si può del resto negare che esista un conflitto tra due esigenze entrambe valorialmente rilevanti: quella di tutelare le persone, fisicamente deboli, dal possibile contagio e quella di non privare le stesse, emotivamente deboli, del conforto della vicinanza.
Trovare il punto di equilibrio non è semplice anche in tempi normali; ancor più difficile in una situazione di eccezionalità. La questione apre alla più generale riflessione sul concetto stesso di ‘tutela’ e sul sempre presente rischio che essa si confonda con la sostituzione della volontà della persona. Sono noti alcuni casi in cui il Garante nazionale è intervenuto per ribadire che il sostegno a una persona molto anziana, spesso in difficoltà di gestione in proprio di talune incombenze e a volte a rischio di divenire preda di interessi altrui, non può mai determinare l’annullamento della sua volontà e tanto meno la riduzione drastica della sua autodeterminazione circa il dove vivere e come quotidianamente agire.
Il rischio è che decisioni legalmente prese retroagiscano verso una forte diminuzione del significato stesso di ‘vita’ per la persona che si intende proteggere: qualche caso tuttora irrisolto sembra andare in questa direzione.
Questa constatazione generale ha assunto una peculiarità specifica nel contesto della pandemia perché alla volontà di tutela degli ospiti si è aggiunta spesso la volontà di tutela dell’Istituzione – Comunità, residenza, casa di riposo – da possibili interventi di natura giudiziaria per non aver salvaguardato proprio la salute degli ospiti stessi. Un cortocircuito che in qualche modo non considera la percezione soggettiva della propria vita della persona ospitata e il suo rapporto con il tempo, deformato dilatandosi nella sensazione del proprio ricovero, spesso breve nella disponibilità residua per persone anziane.
Molte sono state le richieste giunte al Garante nazionale volte a ottenere maggiore apertura, soprattutto nei mesi recenti; frequenti le interlocuzioni in tal senso con le Autorità regionali responsabili, scarsi gli effetti data la possibilità delle singole direzioni delle strutture di decidere autonomamente.
Credo che queste voci debbano essere ascoltate e che si debba procedere verso la costruzione di ‘linee guida’ condivise che servano di indicazione per tutte le Regioni. L’area della residenzialità protetta, accudita e che, in talune circostante, sconfina con l’essere chiusa, fino a configurarsi come privativa della libertà de facto soprattutto per coloro che non hanno figure di accudimento da loro riconoscibili, rappresenta un’area di intervento verso cui questa Autorità di garanzia dovrà accentuare la propria attenzione, prendendo atto degli elementi di innovazione che il quadro normativo ha prefigurato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza e che vede ora la redazione di decreti legislativi che prevedono l’introduzione di una funzione specifica di garanzia per le persone con disabilità.
L’interazione tra una tutela d’ordine generale e una specifica per coloro che sono all’interno di strutture potenzialmente chiuse lascia sperare in un rafforzamento complessivo e il Garante nazionale è pronto a dare il proprio contributo in tale senso. Per queste strutture – e anche, più in generale per quelle di area sanitaria, quali i Servizi psichiatrici ospedalieri per la diagnosi e la cura di cui la Relazione dà anche conto – l’accento va posto su quella che, prendendo la locuzione dal sociologo Richard Sennet, definisco politica del rispetto. I codici del rispetto sono innanzitutto quelli del prendersi cura di sé nella propria azione altrimenti sterile, poi nel riconoscere le diversità come valori e non ostacoli, infine nel riconoscere la relazionalità che lega ineluttabilmente le persone tra loro.
Quando gli attori sociali o politici non riconoscono tale relazionalità e pensano di costruire una parvenza di rispetto proprio sul non riconoscimento del rispetto altrui, qualsiasi azione diviene sterile. Il quarto codice è l’avere tempo nel rivolgersi alle realtà complesse: perché queste richiedono tempo, richiedono un surplus di parola, di attenzione, di azione positiva. Altrimenti rischiano di essere adempimenti burocratici che prescindono dalle soggettività difficili a cui si rivolgono.
Le difficoltà che giungono a noi
Proprio le difficoltà personali di chi è spinto a ricercare altre vie per superarle e quelle sociali di chi vede arrivare tali complesse situazioni e spesso non ha risposte credibili e non ha neppure il tempo per riconoscere e discriminare al loro interno, portano a considerare il quadro complessivo della privazione della libertà delle persone migranti irregolarmente presenti nel territorio italiano e dei voli di rimpatrio.
L’analisi dell’ultimo anno non si discosta da quella degli anni precedenti in termini di numeri relativi. Nel senso che, pur a fronte di 44292 persone registrate negli hotspot nel corso del 2021 (e tra esse 8934 minori), le persone rimpatriate sono state 3420, anche in ragione della minore possibilità nello scorso anno di organizzare voli di rimpatrio.
Altre 6153 persone sono state respinte alla frontiera. Il dato delle registrazioni in hotspot è così tornato simile a quello del 2017, ma con una prevalenza di presenze a Lampedusa pari a quattro volte quella raggiunta in quell’anno. Anche la composizione è stata simile al passato: la prevalenza è di persone tunisine – circa un terzo del totale – seguite da quelle egiziane.
La novità recente è consistita nell’accentuato ricorso alle ‘navi quarantena’ che hanno ospitato 35304 persone per una media di undici giorni. Il Garante nazionale, anche a seguito di una visita su una delle imbarcazioni utilizzate e del controllo delle procedure in atto, ha riconosciuto che le condizioni logistiche predisposte erano certamente migliori di quelle che le persone avrebbero potuto avere qualora accolte nei sovraffollati hotspot.
Ha anche però sin dall’inizio chiarito che le persone a bordo ricevevano le cure necessarie e seguivano una procedura protettiva rispetto al contagio, ma non ricevevano una esauriente informazione circa i propri diritti né tale funzione poteva essere affidata al personale della Croce Rossa che era l’unico personale a bordo diverso dalle Autorità di gestione della nave. Soprattutto, quindi, che tale soluzione dovesse avere carattere temporaneo.
Ciò anche in considerazione della difficoltà psicologica che si può determinare nel non approdare dopo l’esperienza di un lungo e spesso molto difficile viaggio in mare, e soprattutto dell’implicito messaggio che tale sistemazione invia alla collettività, quasi a smarcare una distanza netta – attraverso la non discesa a terra – delle persone migranti che seguivano una prassi sanitaria identica a tutto il resto della cittadinanza.
Il perpetuarsi di questa provvisoria e costosa soluzione anche al di là della oggettiva necessità imposta dal periodo di emergenza ha indotto il Garante nazionale a richiedere che tale pratica venisse sospesa. Con favore ha, quindi, accolto la notizia della sospensione a decorrere dallo scorso 31 maggio.
Non è cambiata la percentuale dei rimpatri relativamente alla permanenza nei ‘Centri per il rimpatrio’ (Cpr). Attualmente nei 10 Centri, con una complessiva capienza di 711 posti, si è mantenuta attorno al 49 percento delle persone che vi sono state ristrette, in media per trentasei giorni. E apre la questione della legittimità di tale trattenimento quando sia già a priori chiaro che il rimpatrio verso quel determinato Paese non sarà possibile.
Ai Centri sono stati recentemente aggiunti le cosiddette ‘strutture idonee’ dove le persone da rimpatriare possono essere trattenute in assenza di una facile disponibilità dei Centri: di essi finalmente si ha una mappa, le caratteristiche essenziali, lo stato di avanzamento di quelli in allestimento e la situazione di quelli già funzionanti.
Il Garante nazionale ha recentemente iniziato a visitare tali locali, messi a disposizione dalle Questure, e presenterà uno specifico Rapporto su di esse entro la fine del proprio mandato.
Questa descrizione, che in buona parte ricalca quanto già evidenziato in passato e che è frutto di un lavoro costante di analisi da parte del Garante nonché di una interlocuzione continua con gli Uffici preposti del Ministero dell’Interno, non può eludere una riflessione più generale.
Il tema però continua a essere affrontato, nei suoi miglioramenti e nelle persistenti problematicità, in termini emergenziali e non strutturali: quasi fosse ancora un problema nuovo, rispetto al quale deve essere sviluppata una politica solida e non congiunturale, a livello italiano ed europeo.
L’attuale modalità, fatta di hotspot, di Cpr, di tentativi di rimpatrio, di numeri asimmetrici tra gli arrivi, i rimpatri e i positivi inserimenti nella collettività, fatta soprattutto di molta inutile sofferenza e grande dispendio di mezzi, persone e denaro non ha le caratteristiche di una effettiva ‘politica’ adottata di fronte a un tema che non diminuirà nei prossimi anni e che anzi – come da più parti è già previsto – aumenterà in dimensione anche in considerazione dei molti conflitti armati in varie regioni del pianeta e, in particolare, dell’ultimo ancor più prossimo a noi.
Il Garante nazionale auspica che si avvii una nuova fase di riflessione che, partendo dalla connotazione strutturale delle migrazioni ricerchi quelle soluzioni di sistema che contemplino la possibilità di accesso regolare nel nostro Paese, forme di accoglienza volte a facilitare un inserimento graduale, diffuso e sicuro nei diversi territori, verso cui indirizzare gli investimenti nel settore.
Così invertendo l’attuale rapporto proporzionale tra le previsioni di spesa per l’accoglienza e quelle per i trattenimenti e i tentativi di rinvio nei Paesi di provenienza, oggi sbilanciate a favore di questi ultimi. In tale direzione, l’Italia può riprendere una tradizione di accoglienza controllata e sicura e proporla come nuova fisionomia dell’Europa nel rivolgersi alle popolazioni di Paesi più poveri.
Certamente l’accoglienza non può limitarsi a una fase di soccorso, ma deve avere una linea progettuale di percorsi di inserimento e di riconoscimento del loro compiersi. Per questo il Garante nazionale auspica che sia quanto prima riconosciuta la piena cittadinanza a coloro che da tempo in Italia, hanno compiuto un completo ciclo scolastico.
Controllare, intervenire, garantire
Sono state molte nell’anno trascorso le iniziative di formazione delle Forze di Polizia che hanno visto il Garante nazionale, ai diversi livelli dell’articolazione del proprio Ufficio, impegnato a spiegare la propria funzione, gli obblighi che sono in capo a chi ha il compito di agire per prevenire, contenere, trattenere una persona affinché non commetta un reato o, avendolo già compiuto, sia assicurata alla giustizia.
Tali interventi hanno riguardato le modalità dell’agire e le garanzie in capo alla persona fermata, nonché le forme in cui il trattenimento si realizza anche dal punto di vista strutturale e logistico, oltre che sul piano della dovuta e accurata registrazione di ogni evento al fine di tutelare ogni persona ristretta, salvaguardare chi opera da eventuali false accuse e tuttavia assicurare la possibilità di indagine di ogni singolo episodio riportato.
In questo contesto il Garante nazionale ribadisce, ancora una volta, l’inaccettabilità di archiviazione di inchieste dovute all’oggettiva impossibilità di individuazione delle specifiche responsabilità personali e chiede che sia numerato ogni strumento o mezzo di difesa in dotazione, che l’identificativo numerico sia apposto in maniera visibile su ciascuno di essi e che sia istituito un registro per l’annotazione dell’assegnazione ai singoli operatori, in ogni singola occasione per cui si è fatto ricorso a essi.
La richiesta è stata oggetto di una raccomandazione formulata a seguito degli eventi di Santa Maria Capua Vetere, ma è estendibile a tutti i Corpi di Polizia ed è centrata sulla necessità dell’identificazione degli strumenti e dei mezzi previsti per la difesa dell’ordine e della sicurezza di cui sia possibile l’uso durante le operazioni in strutture chiuse.
Tra le iniziative di formazione mi piace menzionare – per il complessivo impegno che ha determinato – quella portata avanti con il Comando generale dei Carabinieri per la presentazione del ruolo del Garante nazionale, della sua funzione e soprattutto della sua fisionomia istituzionale in ogni regione d’Italia con complessivi ventiquattro incontri organizzati dai Comandi di legione con tutti i Comandanti di reparto territoriale, di compagnia e stazione.
Momenti strutturati di individuazione comune delle difficoltà, che, come avvenuti negli altri anni con le altre Forze di Polizia, sono anche indirizzati alla operatività conseguente alle raccomandazioni che il Garante formula a seguito delle sue visite. Ciò nella costruzione di un insieme di raccomandazioni e regole condivise che devono costituire quel sistema di soft lawche affianca le norme – il cosiddetto hard law – e determina standard comuni non meramente enunciativi perché costruiti sulla base di diretta esperienza e altrettanto diretto monitoraggio delle prassi e delle situazioni concrete.
Con questa modalità dialogica è stata affrontata anche l’introduzione di armi a scarica elettrica – il taser – a partire dalla sua classificazione come arma, sebbene definita non letale, il cui impiego richiede tutte le cautele che circondano l’uso di ogni arma.
Soprattutto la sua funzione deve indurre una riduzione del ricorso alle armi classiche e non una riduzione dell’impiego di altri strumenti anche dialogici nell’affrontare situazioni di pericolo: saranno questi numeri, questa riduzione dell’uno o dell’altro a darci informazioni sulla positività o meno del loro impiego. Recentemente la collaborazione si è avviata anche con le Polizie locali, a partire dalla costruzione di un progetto formativo sperimentalmente portato avanti nella regione Emilia-Romagna.
Una breve conclusione
L’analisi delle diverse aree di azione del Garante nazionale e il dettaglio del difficile panorama che è suo obbligo presentare compiutamente al Parlamento richiedono due cenni di conclusione. Il primo riguarda il Garante stesso: una Istituzione che, senza indulgere in modestia, possiamo dire che in questi quasi sette anni si è consolidata, è riconosciuta ed è ormai accreditata a livello internazionale. Ma che, proprio per questo, richiede oggi un consolidamento interno, con il passaggio da una situazione di generosa provvisorietà, soprattutto del personale che con dedizione ha lavorato in questi anni, a quella del pieno riconoscimento della professionalità acquisita e della volontà di non disperdere tale esperienza e tale sapere. Quindi di una strutturazione con proprio ruolo che dia il segno visibile della continuità.
Il secondo riguarda invece il poco che è stato fatto rispetto al tanto che è posto da temi, quale quello del riconoscimento dei diritti di ogni persona, anche di chi ha sbagliato, che richiedono anche cambiamenti culturali rispetto ai quali l’azione di un mandato è solo un piccolo sasso utile a una grande fortificazione da costruire.
Interviene di nuovo la riflessione sul tempo. Che è richiesto per mutamenti non semplici: occorre porsi come coloro che riconoscono la necessità del tempo, ma che non devono sprecarlo perché il tempo è in fondo “un regalo, ma un regalo che non si conserva”.