Senza uguali condizioni di partenza il merito è un inganno. È l’uguaglianza di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia, non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto e di un impegno individuale calibrato e contestualmente competente.
I cittadini delle democrazie si fanno nella Costituzione e tacitamente una promessa: dare vita a una società giusta, che consenta a tutti/e di avere l’accesso più ampio possibile ai beni di base, come l’istruzione, la salute, il diritto di voto e in generale la più completa partecipazione alle varie forme di vita sociale, culturale, economica, civile e politica. La democrazia del Dopoguerra si è impegnata nella diffusione del benessere (culturale, sociale e materiale). È però progressivamente regredita. Dopo aver emancipato le classi lavoratrici, ha col tempo chiuso le porte di accesso, come a voler conservare agli emancipati una condizione difficilmente conquistata. Il fatto è che il processo di emancipazione deve restare aperto come anche la lotta alla disuguaglianza.
Disuguaglianza e giustificazione – La disuguaglianza c’è sempre stata e la sua storia coincide con quella della sua giustificazione. In Capitale e ideologia Thomas Piketty dice che “ogni società umana deve giustificare le proprie disuguaglianze. Ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie, finalizzate a legittimare la disuguaglianza”. L’ideologia è la “favola bella” che usava Socrate nella Repubblica di Platone per giustificare la disuguaglianza per merito: il mito dei metalli (oro, argento e bronzo) serviva a convincere che se le differenze naturali fossero state rispettate, quelle sociali che ne derivavano sarebbero state giuste. Sapendo di avere disposizioni al lavoro manuale, non mi lamenterò se a questo la società mi destina. Preservare questa condizione di merito meritato è arduo perché non si tratta solo di far fare alle persone quel che è nell’interesse della società, ma di far loro credere che la loro posizione nella scala sociale sia giusta, e non l’esito dell’arbitrio di chi vuole avere di più o conservare i privilegi che ha.
Il problema della disuguaglianza è quello della sua giustificazione: deve esserci un equilibrio tollerabile tra le favole belle e la realtà esperita dalla larga maggioranza; diversamente la porta della ribellione è aperta.
Dal Settecento almeno, i filosofi, a cominciare da David Hume, Bernard de Mandeville e Adam Smith, iniziarono a studiare le emozioni come energie funzionali alle scelte strategiche degli individui; l’invidia occupò un posto d’onore nei loro scritti, come l’emozione che, attivando la comparazione con chi sta meglio, si rivela utile ai fini del perfezionamento e del benessere sociale. L’uguaglianza funziona come motore della disuguaglianza, perché e solo perché fa leva su passioni ed emozioni che tutti hanno e che sono utili ai fini di pianificare le azioni. Come osserva Amartya Sen, anche chi teorizza la disuguaglianza deve presumere una qualche uguaglianza.
Uguaglianza e disuguaglianza non sono assolute dunque, perché le persone sono, singolarmente prese, specifiche e uniche; la loro uguaglianza si riferisce a caratteristiche che appartengono alla specie umana e che ciascuno sviluppa in maniera sua propria. La consapevolezza di questa diversità è implicita nella dichiarazione del diritto di voto distribuito in maniera identica tra tutti, per evitare che le differenze non si traducano in dominio di alcuni su altri. Parliamo quindi di uguaglianza morale e per legge. In relazione a essa, con quali argomenti nella nostra società viene giustificata la disuguaglianza?
Merito o privilegio? Oggi, la meritocrazia è l’ideologia della disuguaglianza. Nasce dall’individualismo economico, che si appella agli eguali diritti naturali di proprietà e di libertà, che stanno prima della società politica e dettano limiti al governo. Ma, uguali nei diritti di scegliere e possedere, finiamo fatalmente per essere disuguali nei risultati. La regola della competizione libera giustifica le disuguaglianze negli esiti, e tutti sono disposti ad accettare il fatto che quel che si ha è il frutto di una lotta combattuta e persa.
Chiedere l’intervento del pubblico è giustificato solo per soccorrere i perdenti. Solo così si onora il principio della responsabilità individuale, per cui chi perde, perde a causa delle scelte che ha fatto e non merita nulla dal pubblico (cioè dalle tasse di chi ha prodotto, risparmiato e investito con oculatezza), mentre può meritare la benevolenza, meglio se volontaria (filantropia). Questa è la giustificazione della disuguaglianza in una società fondata sull’uguaglianza morale e giuridica. Assistiamo oggi a una rinascita in grande stile di questa narrativa e di una politica che non corregge le condizioni che tendenzialmente determinano la disuguaglianza. Si dovrebbe obiettare al partito dei “meritocratisti” che quando rispolverano il discorso della disuguaglianza per merito devono per coerenza riconoscere che il rispetto della persona e delle sue potenzialità ha bisogno delle uguali condizioni di partenza, senza le quali il merito è un trucco e la compassione un atto ipocrita per risarcire gli altri di un privilegio che è arduo dimostrare di meritare.
Alla metà degli anni Sessanta, il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson (che noi ricordiamo, ahimè!, solo per l’escalation della guerra in Vietnam) raccontò questa storia per giustificare i suoi programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali con dei lacci alle caviglie che le impediscono di usare interamente le proprie forze, cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare il merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso infatti il vincitore non ha merito, semmai gode di un privilegio.
Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli che limitano uno dei due competitori, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si finge che ci sia giusta competizione (si accetta il privilegio); o si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto ai bisognosi); o si offrono opportunità a tutti i gareggianti prima che la gara cominci (politiche di giustizia sociale).
Tre soluzioni molto diverse che la favola bella della “meritocrazia” nasconde. Non ci può essere merito meritato se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le disuguaglianze di opportunità di accesso e poi non si monitora la formazione, strada facendo, di nuove disuguaglianze. Se si cancellano le tasse di successione o si allentano i sistemi di tassazione progressiva sui redditi, parlare di merito assomiglia a un bluff.
Correttivi – La difficoltà di tenere insieme contesto sociale e familiare (capitale sociale e culturale) con le specificità dei talenti di ciascuno ha spinto i teorici della giustizia sociale a non affidarsi al merito. “Le qualità accidentali della nascita, della ricchezza e della conoscenza”, scriveva John Dewey nel 1916, “tendono sempre a restringere le opportunità di alcuni in comparazione a quelle degli altri”. In Una teoria della giustizia (1971) John Rawls fissava i principi di giustizia distributiva che dovevano servire a correggere l’”ineguale eredità della ricchezza” e a togliere potere “alle circostanze, alle istituzioni, e alle tradizioni storiche”. Il presente di ogni individuo potrà contare come evidenza dei suoi meriti solo se e fino a quando gli accidenti della nascita e della condizione sociale non peseranno sulla formazione delle capacità, sull’espressione dei talenti e infine sulla possibilità di carriera. La teoria della giustizia deve quindi mirare a correggere o contenere o neutralizzare il ruolo dell’accidentalità di nascita (prima natura) e della condizione sociale (seconda natura) nella distribuzione dei meriti e degli oneri. Quanti ragazzi non si chiedono ogni giorno perché l’essere nati in una classe sociale deve essere determinante nel decidere il loro posto nella società? Quanti di loro non si chiedono perché l’essere nati in una parte dell’Italia invece che in un’altra si traduce in esiti di vita e opportunità così diversi? E hanno ragione. Il discorso sul merito è un inganno se ignora queste domande. Onestà vuole che ci si soffermi con serietà sulla dimensione sociale del merito. Il giudizio sul merito di una persona è relativo non solo ai suoi talenti, ma anche a determinati requisiti che definiscono il riconoscimento di una prestazione funzionale e utile alla società. Nel merito entrano in gioco non soltanto le qualità della persona, per questo i teorici della giustizia diffidano di tale criterio. Non perché pensano che un bravo medico non debba essere assunto in un ospedale (truccare i concorsi è illegale), ma perché mettono in guardia dallo scambiare l’effetto con la causa.
Nadia Urbinati: Politologa. Il testo è un estratto della lectio magistralis tenuta dall’autrice il 31 maggio scorso nell’Ateneo di Messina