Per la prima volta, uno studio ha rilevato scientificamente microparticelle di plastica nel sangue umano, per la precisione 1,6 µg (microgrammi) per ml di sangue, equivalente a un cucchiaino di plastica ogni mille litri d’acqua. Di certo non una delle migliori notizie che possiamo ricevere dal mondo della ricerca. Ma forse il bello della scienza sta anche nel saper affrontare sfide complesse come questa. Sono infatti diverse le soluzioni al problema dell’inquinamento da plastica che conosciamo grazie alla scienza e di cui ci parla Heather Leslie, coordinatrice del gruppo di ricerca che ha rilevato tracce di microplastiche nel sangue
La minaccia rappresentata dall’inquinamento di plastiche e composti chimici di origine sintetica non è una novità. Fin dall’invenzione della bachelite nel 1907, prima plastica di origine completamente sintetica, l’umanità ha investito sempre di più in ricerca e sviluppo di nuovi polimeri, classe di composti tra cui è possibile trovare anche la plastica. La produzione di plastica è infatti aumentata in maniera esponenziale dagli anni ‘50, raggiungendo 368 milioni di tonnellate (Mt) nel 2019 a livello globale, e si prevede che raddoppierà ulteriormente entro il 2050.
Questi allarmanti ritmi di produzione, così come la persistenza ambientale che caratterizza questo materiale e che rende la plastica una seria minaccia ai confini planetari – serie di confini che definiscono i limiti ambientali entro i quali l’umanità può operare in sicurezza – si traducono allo stesso tempo in un aumento sempre più forte della nostra esposizione a questi polimeri. Siamo letteralmente circondati in ogni ambiente in cui ci troviamo da plastica e polimeri di ogni genere, che sono spesso destinati a frammentarsi in particelle di dimensioni minori in seguito, per esempio, a fluttuazioni di temperatura o semplici abrasioni meccaniche.
Questa degradazione primaria della plastica in quelle che vengono definite micro e nanoplastiche, rispettivamente particelle di dimensioni minori di cinque millimetri e un micrometro, pone i nostri corpi ancora più a stretto contatto con questi materiali. È già noto da tempo agli scienziati, infatti, come particolari tessuti umani, così come deiezioni di adulti e bambini, possano contenere tracce di microplastiche. Ciò che è meno noto, invece, è il recente risultato ottenuto da un gruppo di ricercatori della Vrije Universiteit Amsterdam e dell’Amsterdam University Medical Center che ha confermato per la prima volta la presenza di tracce di microplastica nel flusso sanguigno umano.
Il progetto di ricerca, condotto dall’ecotossicologa Heather Leslie e dalla chimica analitica Marja Lamoree e pubblicato sulla rivista scientifica Environment International, ha rilevato la presenza di diverse microparticelle in tre quarti della popolazione campionata, con una concentrazione media di microplastiche pari a 1,6 µg (microgrammi) per ml di sangue, equivalente a un cucchiaino di plastica ogni mille litri d’acqua. Lo studio ha preso in considerazione cinque diversi polimeri particolarmente utilizzati in prodotti di uso comune, quali polipropilene (PP), polietilene (PE), polietilene tereftalato (PET), polistirene (PS) e polimetilmetacrilato (PMMA), e ha rilevato fino a tre diversi polimeri in un singolo campione di sangue (PE, PET, PS). Tra tutti, il più frequentemente riscontrato è stato il PET, plastica particolarmente resistente e leggera, ampiamente utilizzata nell’imballaggio di alimenti e bevande.
Nonostante sia stato eseguito su una popolazione relativamente piccola costituita da soli 22 donatori volontari, questo progetto di ricerca rappresenta un passo fondamentale nel mondo dell’ecotossicologia e dell’inquinamento da plastiche. Come spiega infatti Heather Leslie, questa ricerca ha permesso di passare dalla semplice supposizione della presenza di microplastiche nel sangue umano – che ricorda essere «il fiume della vita» – a una vera e propria conferma scientifica, sviluppando un metodo innovativo per individuare e misurare particelle di microplastica in questa matrice e rappresentando quindi un importante punto di partenza per chiunque voglia approfondire la ricerca in futuro.
Due erano gli obiettivi principali dello studio. Il primo era sviluppare un metodo e il secondo era testarlo su un piccolo numero di campioni. Quindi, pubblicando il metodo in modo molto dettagliato, questo studio consente davvero a chiunque lo desideri di utilizzarlo come punto di partenza per sviluppare una propria metodologia.
Ispirandosi all’ampia gamma di studi presenti nella letteratura scientifica relativi ai rischi ecotossicologici del particolato atmosferico, Heather Leslie si è chiesta «quanto le microplastiche contribuiscano a quest’inquinamento e quanto si differenzino da questo in termini di danni alla salute e all’economia». Proprio a partire da queste domande, che rimangono tuttora senza risposta, il gruppo di ricerca ha sviluppato dunque un metodo volto a misurare non il numero di particelle, ampiamente utilizzato finora negli studi volti a identificare e misurare la presenza di microplastiche, ma la massa contenuta in ogni millilitro di sangue (ovvero la concentrazione), in modo analogo ai campionamenti di particolato atmosferico, spesso indicati in termini di concentrazione.
Non avevamo idea di cosa aspettarci e speravamo solamente che la sensibilità del metodo fosse sufficientemente adeguata a osservare qualcosa. I risultati che abbiamo ottenuto mostrano approssimativamente l’intervallo di concentrazione a cui ogni nuovo metodo in via di sviluppo dovrebbe mirare per essere abbastanza sensibile da rilevare intervalli di concentrazioni così basse.
Al momento i dati ottenuti non sono ancora sufficienti per capire e stabilire se queste concentrazioni abbiano conseguenze importanti sulla salute umana. Studi precedentemente effettuati in vitro hanno dimostrato alcune possibili implicazioni derivanti dall’esposizione a microplastiche. Una ricerca condotta da Vladimir Baulin, dell’Universitat Rovira i Virgili (Spagna), e Jean-Baptiste Fleury, dell’Università del Saarland (Germania), ha recentemente mostrato per esempio come l’inquinamento da microplastiche possa destabilizzare meccanicamente le membrane lipidiche delle cellule, probabilmente impattando sul loro funzionamento. Un altro studio particolarmente rilevante, condotto dall’Università di Milano, ha invece osservato l’inclusione di fibre di microplastica all’interno di organoidi delle vie aeree umane e la conseguente alterazione dell’espressione del gene SCGB1A1. Tramite questo studio, i ricercatori hanno sviluppato un modello per lo studio degli effetti della contaminazione da microplastica nell’aria molto interessante, che permette infatti di superare i limiti posti dalle colture cellulari bidimensionali e che potrebbe costituire la base per ulteriori studi tossicologici.
Le fondamenta gettate dai risultati di queste ricerche lasciano però centinaia di domande da porsi. Risulta dunque estremamente importante continuare a sviluppare nuovi metodi sempre più sensibili per misurare concentrazioni di microplastiche nel mondo reale, così come modelli tossicologici i cui risultati possano essere affiancati ai precedenti in un’estensiva valutazione dei rischi correlati a questo inquinamento. Nel contempo, tuttavia, possiamo iniziare ad agire in prima persona per limitare i possibili danni di questo inquinamento, cercando per esempio di aumentare la consapevolezza di ciascuno di noi relativa al nostro utilizzo di plastica.
La dottoressa Leslie, che non nega di essere umana ancora prima che una scienziata, sa bene infatti quanto questo studio porti con sé un peso emotivo e quanto sia fondamentale non farsi paralizzare dall’ansia delle possibili implicazioni negative che possono emergere da ricerche di questo tipo. «È qualcosa che ti fa pensare» ha osservato Heather Leslie. «Ti fa pensare anche al tuo ruolo nell’intero sistema». Perché dobbiamo ricordarci che l’inquinamento da plastica è un problema che abbiamo creato noi e, «così come lo abbiamo creato, possiamo anche risolverlo. Abbiamo solo bisogno di un po’ di consapevolezza in più prima di poter affrontare il problema. Quindi è estremamente importante continuare a far circolare il flusso di conoscenza e informazioni che abbiamo messo in moto».
Tre sono infatti le caratteristiche che, secondo Heather Leslie, sono indispensabili per poter vivere una vita serena e, allo stesso tempo, raggiungere un cambiamento concreto: curiosità, ottimismo e voglia di dare la giusta importanza alle cose. Solamente essendo curiosi, infatti, possiamo mettere in circolo il sopracitato flusso di informazioni. E solamente essendo ottimisti possiamo trasformare queste conoscenze in un cambiamento reale, che ci permetta di risolvere il problema. Cambiamento che può lentamente iniziare già da ora, se siamo disposti a metterci in gioco.
Preferire cibi non confezionati e ridurre la quantità di tessuti sintetici che utilizziamo sono forse gli esempi più immediati che possono venire in mente, ma Heather Leslie ci ricorda che c’è ben altro su cui riflettere per un cambiamento concreto. «Sai, a volte non sappiamo nemmeno da cosa sia composto quello che abbiamo davanti agli occhi o le informazioni a nostra disposizione potrebbero non essere accurate, anche se pensiamo di sapere esattamente di cosa si tratta. Ecco perché penso che sia importante che le persone sappiano anche come prendere le giuste decisioni, favorendo materiali biocompatibili ad esempio, […] e in maniera collettiva. Se davvero vuoi risolvere un problema, cerca altre persone che vogliono la stessa cosa e supportale». La dottoressa Leslie ricorda quindi l’importanza delle azioni collettive, così come della trasparenza dei prodotti in termini di composizione e produzione, indispensabile per poter effettuare acquisti consapevoli.
Un futuro libero dall’inquinamento da plastica non sembra quindi una sfida impossibile agli occhi di Heather Leslie, che non si lascia demoralizzare dai risultati della sua ricerca, ma anzi vede in essi una forte spinta per un cambiamento futuro. Cambiamento, questo, che sa non avverrà in maniera rivoluzionaria dal giorno alla notte, ma di cui allo stesso tempo è più che fiduciosa. Perché «possiamo creare attivamente sistemi alternativi che funzionino senza generare una collusione plastica. Quindi non cercare di demolire il nostro sistema di colpo, ma semplicemente suggerire direzioni alternative».
fonte: Scienza in Rete